Covid-19, il lungo viaggio dagli animali all’uomo

Secondo un lavoro appena pubblicato in forma di preprint, ovvero non ancora sottoposto a peer review (“revisione tra pari”), il betacoronavirus responsabile della Covid-19, SARS-CoV-2, sarebbe emerso nel 2019 in Cina differenziandosi in due distinti “lineages”, A e B, il secondo apparentemente più diffuso rispetto al primo e circolante ab initio nell’ormai famoso mercato del pesce di Wuhan, da dove si sarebbe progressivamente propagato al resto del mondo, dando vita alla drammatica pandemia con la quale conviviamo oramai da quasi due anni.

Secondo gli autori del contributo in questione, i due “lineages” potrebbero aver tratto origine da un primario ospite o “serbatoio” animale, che molti studiosi identificherebbero nei pipistrelli del genere Rinolophus, analogamente a quanto già accertato per i due coronavirus responsabili della SARS e della MERS.

Qualora l’origine naturale di SARS-CoV-2 – ritenuta più probabile e plausibile rispetto a quella artificiale o “laboratoristica” – dovesse risultare comprovata dalle ricerche future, la comparsa, più o meno contemporanea, di due distinti clusters virali potrebbe recare con sé una serie di intriganti implicazioni: prima fra tutte, non un singolo, bensì due salti di specie (spillover) separati che il “progenitore” di SARS-CoV-2 avrebbe compiuto dal mondo animale all’uomo. Ipotesi affascinante, ma pur sempre un’ipotesi!

I detrattori dell’origine naturale sostengono, di contro, che SARS-CoV-2 abbia avuto origine nei laboratori dell’Istituto di Virologia di Wuhan, dove tre ricercatori avrebbero sviluppato i sintomi della malattia già a novembre 2019, almeno un mese prima che la Cina comunicasse l’avvenuta identificazione del nuovo coronavirus. In verità, una serie di studi condotti in Europa e altrove avevano consentito di rilevare la presenza del virus nella popolazione umana già diversi mesi prima di quella data.

Cosa ci dicono i dati sull’origine del virus

L’origine “laboratoristica” di SARS-CoV-2 viene teorizzata sulla base della cosiddetta “gain of function”, l’acquisizione di nuove funzioni conseguente alle manipolazioni genetiche effettuate in laboratorio. Fra queste rientrerebbe, in primis, la capacità del virus di infettare le nostre cellule e di propagarsi nella nostra specie.

Su questo fondamentale crocevia l’ipotesi dell’origine artificiale si interseca, giustappunto, con quella dell’origine naturale di SARS-CoV-2, che risulterebbe avvalorata da una serie di dati, sia storici che attuali:
– i primi ci rimandano agli agenti responsabili delle cosiddette malattie infettive emergenti, che nel 70% e più dei casi avrebbero una comprovata o sospetta origine animale e, più nello specifico, ai due betacoronavirus della SARS e della MERS, originanti da un serbatoio animale “primario” (pipistrelli) e da un ospite “intermedio” (zibetto e dromedario, rispettivamente);
– per i secondi, invece, l’elevata similitudine genetica (oltre il 96%) che SARS-CoV-2 condivide con altri due coronavirus isolati in Cina dai pipistrelli (RA-TG13 e RmYN02) renderebbe plausibile la sua origine naturale.

Tutto ciò non senza aver posto adeguata enfasi sul lungo viaggio che in un paio di anni avrebbe portato SARS-CoV-2 a infettare, in condizioni assolutamente naturali, un elevato numero di specie animali domestiche (gatto, cane) e selvatiche (visone, tigre, leone, puma, leopardo delle nevi, lontra, gorilla, cervo a coda bianca), nonché a evolvere in una serie di temibili varianti, quali ad esempio la “cluster 5”, che si sarebbe selezionata per l’appunto negli allevamenti di visoni olandesi e danesi, per esser quindi trasmessa dal visone stesso all’uomo.

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

Lettera pubblicata anche su Il Mattino e su saperescienza.it




A proposito dell’assenza di un veterinario nel CTS….

E’ pubblicata sulla rivista British Medical Journal (BMJ) un approfondimento di Maurizio Ferri, responsabile scientifico SIMeVeP, alla “Letter to the Editor” di Giovanni Di Guardo – già docente di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria nell’Università di Teramo – «No veterinarians (yet) on the Italian covid-19 scientific committee».

Prendendo spunto dalle osservazioni del Prof. Di Guardo, Ferri pone in evidenza l’importanza, in una prospettiva One Health, dell’esperienza veterinaria nell’affrontare efficacemente le epidemie di malattie animali, anche altamente diffusive.

Nella pandemia da COViD-19 convergono complesse interconnessioni tra animali, uomo e ambiente; la sua gestione richiede quindi senza mezzi termini l’integrazione delle discipline correlate e la piena considerazione dei principi di One Health.

In quest’ottica l’applicazione di una strategia di sorveglianza veterinaria appare come una potenziale soluzione per consentire istantanee affidabili delle epidemie di COVID-19, prevedere e monitorare la curva epidemica, prevenire lo sforzo del sistema sanitario e informare in modo efficiente le decisioni su quando le misure di controllo possono essere revocate.

 




SARS-CoV-2, aumenta il numero delle specie animali sensibili

E’ di poche settimane fa la notizia relativa alla presenza di anticorpi anti-SARS-CoV-2 – il famigerato coronavirus responsabile della CoViD-19 – in un’elevata percentuale (40%) di “cervi a coda bianca” popolanti la regione nord-orientale degli USA.

Ciò desta preoccupazione per una serie di motivi, come ho anche riferito in una mia “Lettera all’Editore” pubblicata sulla prestigiosa Rivista BMJ .

Degna della massima considerazione sarebbe, in primo luogo, l’avvenuta esposizione al virus della succitata popolazione di cervidi, ai quali lo stesso sarebbe stato trasmesso, con ogni probabilità, da uno o più individui SARS-CoV-2-infetti. In secundis, la propagazione dell’infezione ad un così ingente numero di esemplari suggerisce che il virus si sarebbe trasmesso all’interno della specie, il cui comportamento gregario ne avrebbe favorito la diffusione.

Numerose sono, altresì, le specie animali domestiche e selvatiche già dichiarate suscettibili nei confronti dell’infezione (naturale e/o sperimentale) da SARS-CoV-2. Fra queste si annoverano gatto, cane, criceto, furetto, leone, tigre, leopardo delle nevi, puma, gorilla, lontra e visone: elenco tutt’altro che esaustivo, ma che già di suo denota la notevole “plasticità” del virus, presumibilmente originatosi da uno o più “serbatoi” animali e capace d’infettare specie filogeneticamente assai distanti fra loro.

Un discorso a parte in tale ambito lo merita il visone, in cui SARS-CoV-2, una volta acquisito dall’uomo, sarebbe evoluto in una temibile “variante” (“cluster 5) per esser quindi “restituito” all’uomo in forma mutata, come è stato dimostrato un anno fa in numerosi allevamenti di visoni olandesi e danesi.

La comprovata capacità d’infettare in condizioni naturali un crescente numero di specie animali domestiche e selvatiche andrebbe pertanto considerata ai fini sia della loro salute e conservazione sia del potenziale sviluppo di nuove varianti di SARS-CoV-2, nella sana ottica della “One Health“, alias la “salute unica” di uomo, animali ed ambiente.

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 




Usda conferma la positività di alcuni cervi a SARS-CoV-2

Il 27  agosto 2021 i National Veterinary Services Laboratories (NVSL) del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) hanno confermato il rilevamento di SARS-CoV-2 in alcuni cervi selvatici dalla coda bianca in Ohio.

Si tratta del primo caso di confermato in tutto il mondo. Studi precedenti avevano dimostrato che i cervi possono essere infettati sperimentalmente dal virus  e che alcuni cervi selvatici avevano anticorpi contro il virus.

Il comunicato integrale, in inglese, sul sito USA




No veterinarians (yet) on the Italian covid-19 scientific committee

E’ stata pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical Journal (BMJ) la Letter to the Editor di Giovanni Di Guardo – già docente di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria nell’Università di Teramo – “No veterinarians (yet) on the Italian covid-19 scientific committee“, che prende spunto dall’articolo “Covid-19: Failures of leadership, national and global“, pubblicato a giugno sulla rivista stessa.

Nonostante a marzo 2021 vi sia stata una modifica nella composizione, ancora oggi non è presente nel Comitato Tecnico-Scientifico (CTS) – organo  al quale competono la consulenza e il supporto alle attività di coordinamento per il superamento dell’emergenza epidemica dovuta alla diffusione di SARS-CoV-2 – un medico veterinario.

Di Guardo sottolinea nuovamente come questa assenza sia un grosso errore, per diverse ragioni: anche se l’origine del coronavirus SARS-CoV-2 è ancora dibattuta, i suoi “predecessori” SARS-CoV e MERS-CoV hannno una comprovata origine animale; inoltre almeno il 70% per cento delle cosiddette “malattie infettive emergenti” ha un’origine animale, accertata o sospetta.

La drammatica pandemia da SARS-CoV-2 ci ha inequivocabilmente insegnato, ancora una volta – ribadisce Di Guardo – che la salute umana, animale e ambientale sono collegate tra loro, un concetto chiaramente esemplificato dal principio “One Health”. In quest’ottica la mancata presenza di un veterinario nel CTS risulta difficilemente comprensibile.

 

 




La nuova variante Delta

La nuova variante Delta di SARS-CoV-2, identificata per la prima volta ad ottobre 2020 in India e segnalata ad oggi in 98 paesi, sta disegnando una nuova fase della pandemia Covid-19 nell’era post-vaccinazione a causa di una trasmissibilità aumentata dal 40 al 60% rispetto alla variante Alfa (B1.1.7 o inglese), capacità di evadere il sistema immunitario e resistenza ai vaccini.

L’analisi di Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico Società italiana di medicina veterinaria preventiva, pubblicata su sanitainformazione.it




Covid-19 e animali. Di Guardo: tamponi ai domestici e controlli sui cetacei

Il sito kodami.it ospita un’intervista al Prof. Giovanni Di Guardo, già docente di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria nell’Università di Teramo, sulla necessità di monitorare la presenza di SARS-CoV-2 nei mammiferi acquatici, con particolare riferimento ai Cetacei che popolano i nostri mari.

In generale lo stato di salute degli animali domestici, soprattutto, e di quelli presenti nei parchi e nei giardini zoologici, andrebbe strettamente monitorato –  tramite tamponi a tappeto e prelievo di campioni di sangue per determinare l’eventuale presenza di anticorpi anti-SARS-CoV-2 –  anche alla luce del fatto che molti casi di infezione tra loro decorrono in forma asintomatica o paucisintomatica, non destando pertanto allarme.

L’attenzione va rivolta anche al mondo marino, avverte Di Guardo. Secondo un lavoro coordinato dai colleghi dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, dei 9 cetacei presi in esame (stenella striata, tursiope, balenottera comune, globicefalo, zifio, capodoglio, balenottera minore, megattera, orca), 7 sarebbero suscettibili a SARS-CoV-2, avendo il recettore ACE-2 piu’ simile a quello umano. Solo zifio e capodoglio li hanno più dissimili.

Altri studi già ci dicono che il tursiope e la balena grigia sono potenzialmente suscettibili a SARS-CoV-2, spiega Di Guardo: “tutto ciò, mentre c’è un’altra grande pandemia che ci si aspetta di vivere da qui al 2050, ed è quella della resistenza agli antibiotici. In mare la rete di sorveglianza ha già notato diversi casi di cetacei spiaggiati colpiti da infezioni sostenute da MRSA, lo stafilococco aureo resistente alla meticillina. È un problema quando poi si parla di itticoltura, con l’uso massiccio di farmaci negli allevamenti ittici».

Leggi l’articolo integrale

 




Attivazione di un piano di prevenzione sulle misure anti-contagio negli impianti di macellazione

L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il “Rapporto ISS COVID-19 n. 8/2021 – Attivazione di un piano mirato di prevenzione sulle misure anti-contagio e sulla gestione dei focolai di infezione da COVID-19 negli impianti di macellazione e sezionamento: nota metodologica ad interim. Versione dell’8 aprile 2021“.

La letteratura scientifica evidenzia come gli impianti di macellazione e sezionamento ad elevata capacità abbiano costituito importanti focolai COVID-19. Questo rapporto illustra l’attivazione di un Piano Mirato di Prevenzione (PMP) per COVID-19 per le attività comprese sotto il codice ATECO 10.1, partendo dal registro degli impianti (circa 6700) presso il Ministero della Salute. Tale piano ha visto come soggetto attuatore il Gruppo Tecnico Interregionale per la Sicurezza e Salute sul Lavoro e il Coordinamento Interregionale Prevenzione nell’ambito della Commissione Salute, articolazione della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome – con il contributo tecnico-scientifico di ISS, INAIL e Dipartimento di Prevenzione ASL Bari. Sono stati messi a punto tre strumenti sinergici: a) scheda di autocontrollo destinata agli operatori; b) scheda di valutazione per i dipartimenti di prevenzione; c) scheda di gestione focolai. Il PMP intende: sensibilizzare i datori di lavoro al rispetto e corretta applicazione delle misure anti-contagio; registrare in maniera standardizzata e confrontabile i dati relativi; approfondire le conoscenze sulle condizioni di rischio certe (sovraffollamento) o sospette (bassa temperatura, elevata umidità) per la diffusione del contagio; analizzare i fattori ambientali, gestionali e strutturali relativi ai focolai insorti all’interno degli stabilimenti.




Il cambiamento climatico ha modificato la distribuzione dei pipistrelli favorendo la comparsa del virus SarsCov2

Il riscaldamento globale potrebbe avere favorito l’emergere del virus SarsCoV2. Lo indica la ricerca dell’università di Cambridge pubblicata sulla rivista Science of the total environment, che per la prima volta stabilisce un collegamento fra le condizioni climatiche delle foreste nel Sud della Cina e la comparsa di nuovi coronavirus veicolati dai pipistrelli.

La ricerca ha studiato i cambiamenti su larga scala avvenuti nella vegetazione della provincia meridionale cinese dello Yunnan, nel Myanmar e in Laos. Con l’aumento delle temperature, della luce solare e dell’anidride carbonica nell’atmosfera, il cambiamento climatico ha modificato gli habitat naturali, dalla savana tropicale alle foreste decidue, che sono così diventati gli ambienti adatti per molte specie delle specie di pipistrelli che vivono nelle foreste.

I ricercatori hanno infatti riscontrato che, rispetto alla media, sono aumentate del 40% le specie di pipistrelli che nell’utimo secolo si sono spostate nel Sud della Cina, dove sono stati isolati più di 100 tipi di coronavirus che hanno origine nei pipistrelli. Questa zona è inoltre quella in cui i dati genetici suggeriscono che possa essere nato il coronavirus SarsCoV2.

Il cambiamento climatico degli ultimi 100 anni ha reso la provincia dello Yunnan l’habitat ideale per più specie di pipistrelli“, commenta Robert Beyer, primo autore dello studio. Poiché il clima ha modificato gli habitat, le specie hanno lasciato delle aree spostandosi in altre, portandosi i virus con sé. “Sono cambiate così le regioni dove erano presenti i virus e – osserva . sono diventate possibili nuove interazioni tra gli animali e i patogeni, facendo evolvere alcuni virus in modo da rendendoli più dannosi nel trasmettersi“.

Nel mondo ci sono circa 3.000 i tipi di coronavirus veicolati dai pipistrelli finora noti e ogni specie di questi mammiferi ne ospita in media 2,7, senza quasi mai mostrare sintomi. Il cambiamento climatico ha inoltre aumentato il numero di specie di pipistrelli in Africa Centrale, Centro e Sud America. “Servono limiti all’espansione delle aree urbane e agricole – dicono i ricercatori – e bisogna cercare spazi negli habitat naturali per ridurre il contatto tra umani e animali che veicolano malattie“.

Fonte: ANSA




SARS-CoV-2: trovati virus correlati in pipistrelli e pangolini nel sud est asiatico

covid-19Si chiama RacCS203, è un coronavirus correlato a SARS-CoV-2 ed è stato rilevato in alcuni pipistrelli e pangolini nella Thailandia orientale e apre nuove possibili interpretazioni in merito alle origini della pandemia in corso.

Pubblicata sulla rivista Nature Communications, questa scoperta è il frutto di una ricerca condotta dagli esperti della Duke NUS Graduate Medical School, a Singapore, che hanno analizzato esemplari di pipistrelli e pangolini in Thailandia.

Le origini di SARS-CoV-2 e il ruolo degli ospiti animali intermedi non sono stati ancora completamente determinati – afferma Lin-Fa Wang della Duke NUS Graduate Medical School – studi precedenti avevano identificato una corrispondenza del 96 e del 93,6 per cento nelle sequenze genomiche tra due coronavirus trovati in pipistrelli cinesi e SARS-CoV-2, il che aveva contribuito ad alimentare le ipotesi sull’origine animale dell’agente patogeno”.

Il team ha isolato dalla specie di pipistrelli Rhinolophus acuminatus, situati in una grotta artificiale in Thailandia, il virus RacCS203, che mostra una somiglianza genomica del 91,5 per cento con SARS-CoV-2.

Coronavirus correlati all’agente patogeno umano sono stati segnalati anche in campioni di pipistrelli in Giappone e pangolini in Cina – precisa l’esperto – ma l’epidemiologia e la storia del salto inter-specie del nuovo coronavirus non è stata ancora del tutto stabilita”.

L’analisi della sequenza del dominio di legame del recettore della proteina Spike – aggiunge il ricercatore – suggerisce che RacCS203 non è in grado di utilizzare il recettore ACE-2 umano per entrare nelle cellule ospiti. Nella popolazione di pipistrelli della grotta thailandese e in un pangolino del sud della regione sono stati inoltre rilevati anticorpi neutralizzanti per SARS CoV-2, il che fornisce prove della circolazione nel sud-est asiatico dei coronavirus correlati all’agente patogeno responsabile della pandemia attuale”.

Gli autori ipotizzano che i coronavirus correlati a SARS-CoV-2 possano essere presenti nei pipistrelli in molte nazioni e regioni dell’Asia.

Sebbene questo studio non contribuisca all’individuazione delle origini del nuovo coronavirus – conclude Wang – la nostra ricerca estende l’area di rilevazione di coronavirus associati a SARS-CoV-2 a una distanza di circa 4.800 km”.