Scrapie negli ovini: quando due semplici segni clinici possono migliorarne la diagnosi precoce

Nel panorama delle malattie neurodegenerative del bestiame, la scrapie rappresenta da tempo una delle principali sfide diagnostiche per medici veterinari e allevatori. In assenza di test ante mortem affidabili e facilmente applicabili in campo, la diagnosi clinica resta ad oggi il primo e spesso unico strumento per sospettare una Encefalopatia Spongiforme Trasmissibile (TSE) negli ovini. Un nuovo studio pubblicato a maggio 2025 su Animals da Konold e Phelan ha analizzato 1002 pecore per valutare l’efficacia di un protocollo clinico rapido, identificando due segni fondamentali per l’individuazione precoce della malattia.

Un campione rappresentativo: diagnosi su scala ampia e diversificata

Lo studio ha incluso pecore di diverse razze, età e genotipi PRNP, esposte naturalmente o infettate sperimentalmente con scrapie classicascrapie atipica o encefalopatia spongiforme bovina (BSE). Di queste, 312 animali sono risultati positivi a una TSE tramite esame post mortem del cervello.

La valutazione clinica si è basata su un protocollo breve che include nove categorie di segni: postura, comportamento, risposta alla minaccia (menace response), risposta al graffio, risposta alla bendatura, perdita di lana e lesioni cutanee, condizione corporea, incoordinazione e tremore.

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Fonte: Ruminantia




Organoidi di pipistrello: un nuovo modello per studiare i virus zoonotici

Per la prima volta una collezione di organoidi derivati da diverse specie di pipistrello permette di isolare nuovi virus, studiare le infezioni e testare farmaci in un unico sistema

Dall’influenza spagnola al COVID-19, sono innumerevoli i virus di origine zoonotica, cioè trasmessi agli esseri umani da una specie diversa dalla nostra: in effetti, si stima che il 75% delle malattia emergenti sia zoonotica. E i pipistrelli sono un importante serbatoio di virus che, come hanno dimostrato epidemie passate, a un certo punto “imparano” a infettare anche gli umani, a volte approfittando di un ospite intermedio.

Eppure, della relazione tra questi virus e i pipistrelli, loro ospiti naturali, sappiamo relativamente poco; e questa mancanza di conoscenze è un ostacolo anche, per esempio, alle valutazioni del rischio di nuovi spillover. In questo contesto, gli animali da laboratorio non possono fornirci molte informazioni, per varie ragioni: questi virus non si replicano bene in specie diverse dal pipistrello né, d’altronde, altri animali potrebbero replicare le caratteristiche immunitarie uniche degli unici mammiferi in grado di volare. Infine, i pipistrelli non possono essere allevati in laboratorio. I vincoli sono sia etici sia logistici, perché si tratta di animali notturni, volatori, di lunga vita e con esigenze ambientali specifiche, quindi difficili da mantenere e studiare in modo sistematico.

Come saperne di più, allora, sulla relazione tra i pipistrelli e i molteplici virus che li possono infettare? Come ottenere un modello sperimentale realistico?

Un nuovo studio, da poco pubblicato su Science, mostra quanto preziose possano essere le New Approach Methodologies (NAM), quelle a volte chiamate più genericamente “metodi alternativi”: il nuovo lavoro, guidato dall’Institute for Basic Science (IBS) coreano, ha infatti creato per la prima volta una collezione diversificata di organoidi di pipistrello, derivati da cinque specie (insettivori dell’Asia orientale) e da quattro tipi di tessuti (trachea, polmone, rene e intestino tenue).

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Fonte: research4life.it




West Nile Virus, la sorveglianza integrata One Health è efficace nelle regioni endemiche

Il virus del Nilo Occidentale (West Nile Virus, WNV) e il virus Usutu (USUV) sono Orthoflavivirus neurotropi trasmessi da zanzare, mantenuti in un ciclo selvatico in cui gli uccelli rappresentano ospiti amplificatori/serbatoio, mentre gli esseri umani e gli equidi sono ospiti accidentali a fondo cieco.

Poiché il Nord Italia, in particolare il Veneto, è considerata un’area endemica per la circolazione di WNV e USUV, dal 2008 è stato implementato un piano di sorveglianza basato su un approccio One Health. In un recente studio condotto dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e pubblicato sulla rivista Pathogens, i risultati delle sorveglianze entomologica, veterinaria e umana per WNV e USUV in Veneto negli anni 2022 e 2023, riportano che l’eccezionale circolazione del WNV è dovuta alla reintroduzione del WNV lineaggio 1 e alla co-circolazione con il WNV lineaggio 2.

Lo studio è stato condotto in collaborazione con la Direzione prevenzione, sicurezza alimentare e veterinaria della Regione del Veneto e il Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova. Lo studio conferma l’efficacia della sorveglianza integrata come strumento di allerta precoce per la circolazione virale, e offre nuove informazioni sugli ospiti aviari coinvolti nel ciclo selvatico degli ortoflavivirus nell’area endemica italiana.

Il successo di WNV-1 rispetto a WNV-2

Negli ultimi anni, l’Italia ha registrato una delle più significative ondate di West Nile Virus in Europa, con un picco critico nel 2022. Tra i principali elementi in gioco c’è la coesistenza di due lineaggi virali, WNV-1 e WNV-2. Mentre WNV-2 è stato prevalente per un decennio, dal 2011 al 2021, la ricomparsa di WNV-1 in Veneto nell’autunno del 2021 ha segnato un punto di svolta. Questo ceppo si è rapidamente diffuso nel 2022, risultando associato a una maggiore neuroinvasività nell’uomo, con conseguente aumento di casi gravi e decessi, soprattutto in Veneto. Gli ultimi dati ufficiali riportano che nel 2024 il lineaggio 1 è stato quattro volte superiore rispetto al 2023.

Nel 2022 in Veneto sono state registrate 531 infezioni umane da WNV e sono stati testati virologicamente 93.213 zanzare e 2.193 uccelli, con tassi di infezione (IR) rispettivamente del 4,85% e dell’8,30%. Nel 2023 sono state confermate 56 infezioni umane da WNV e sono stati testati virologicamente 133.648 zanzare e 1.812 uccelli (IR rispettivamente dell’1,78% e del 4,69%). A completamento del quadro epidemiologico vi sono infine i dati dell’ultimo bollettino della Regione del Veneto – non inclusi nello studio – secondo cui le infezioni umane confermate nel 2024 sono state 130, con 138.800 zanzare e 2.329 uccelli testati virologicamente (IR rispettivamente del 0,38% e del 4,42%).

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Fonte: IZS Venezie




Peste suina africana, è arrivata in Europa da quasi vent’anni

suinoLa peste suina africana (PSA) non è arrivata in Europa di recente dall’Africa: il virus che la causa è presente nel continente almeno dal 2007. Lo rivela uno studio pubblicato su Genome Biology and Evolution, la prestigiosa rivista dell’Oxford University Press, che si basa su nuove sequenze genomiche del virus isolate in Lituania. Il virus della peste suina africana provoca una malattia emorragica acuta nei suini domestici e nei cinghiali selvatici, con mortalità altissima.

I danni economici

Secondo l’Organizzazione mondiale per la salute animale, solo nel 2022 l’Europa ha perso oltre un milione di capi suini a causa della malattia, con un impatto che si fa sentire non solo sui bilanci ma anche sull’equilibrio degli ecosistemi. Andando a ritroso, è stato stimato che dal 2007 ad oggi, i danni economici causati dall’epidemia hanno superato i 2,1 miliardi di dollari, un peso insostenibile per la filiera agricola europea. Nonostante questo, non esiste ancora un vaccino efficace disponibile su larga scala.
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Fonte: sanitaeinformazione.it



Relazione sulla resistenza agli antimicrobici dei batteri zoonotici e commensali negli animali destinati alla produzione

Pubblicata dal Ministero della Salute la relazione sulla resistenza agli antimicrobici dei batteri zoonotici e commensali negli animali destinati alla produzione di alimenti e nelle carni derivate.

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Fonte: Ministero della Salute




Diminuiscono i focolai di peste suina africana nei suini dell’UE

Lo scorso anno i focolai di peste suina africana (PSA) nei suini domestici sono diminuiti dell’83% rispetto al 2023 (da 1929 a 333),  si apprende dall’ultimo rapporto epidemiologico annuale dell’EFSA. Il calo è dovuto principalmente alla diminuzione di focolai in Romania e Croazia e rappresenta il numero totale annuale più basso di focolai nell’UE dal 2017.

Il rapporto evidenzia anche che il numero di Stati membri dell’UE interessati dalla PSA è diminuito per la prima volta dal 2014, passando da 14 a 13, con la Svezia ora indenne dalla malattia e nessun nuovo Paese che abbia segnalato infezioni.

In un’ottica più ampia, la maggior parte degli Stati membri è stata interessata da focolai sporadici di PSA, mentre è la Romania ad aver avuto il 66% del numero totale di focolai nell’UE. La maggior parte di essi (il 78%) si è verificata in allevamenti con meno di 100 suini.

Il numero di focolai nei cinghiali selvatici è rimasto stabile dal 2022. Il rapporto EFSA indica anche che il 30% di tutti i focolai nei cinghiali selvatici è stato segnalato dalla Polonia.

Nel 2024 gli Stati membri interessati hanno analizzato un numero crescente di campioni di suini domestici provenienti da attività di sorveglianza passiva. Questo tipo di sorveglianza consiste nell’indagare i casi sospetti di malattia e ha permesso di individuare l’80% circa dei focolai di PSA tra i suini domestici e il 70% dei focolai tra i cinghiali selvatici dell’UE.

Gli scienziati dell’EFSA raccomandano agli Stati membri interessati di continuare a mirare le misure di monitoraggio alla sorveglianza passiva. Raccomandano inoltre di continuare a eseguire, nelle aree e nei periodi considerati a rischio, il campionamento sistematico dei suini morti (sorveglianza passiva rafforzata) onde garantire l’individuazione precoce della malattia.

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Fonte: EFSA




Influenza aviaria in Friuli Venezia Giulia, il ruolo dei cacciatori nella sorveglianza attiva

Un esempio di integrazione fra sorveglianza attiva e passiva negli uccelli selvatici grazie alla collaborazione con i cacciatori

La collaborazione tra autorità sanitarie pubbliche e mondo venatorio rappresenta un elemento chiave nelle attività di sorveglianza dell’influenza aviaria negli uccelli selvatici. L’Italia rappresenta una rotta privilegiata per gli uccelli migratori e un luogo importante di svernamento per molte specie di volatili acquatici, con potenziali risvolti sanitari sugli allevamenti avicoli e sulla salute dell’uomo. La collaborazione con i cacciatori può essere utile in fase di sorveglianza attiva per intercettare precocemente i segnali di rischio sanitario, contribuendo in modo concreto alla tutela della salute animale e pubblica.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate nel 2024 in Friuli Venezia Giulia 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1. È stata inoltre organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria. Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di campionare 466 animali, evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna nel 2024 prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate in Friuli Venezia Giulia complessivamente 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1.

I casi hanno riguardato esemplari di cigno reale (9), oca selvatica (2), canapiglia (1), fenicottero (1), garzetta (1), poiana (1) e volpoca (1). Un gabbiano comune è risultato invece positivo per un virus a bassa patogenicità (LPAI). Queste attività sono state svolte in collaborazione con le Aziende sanitarie locali, Servizio recupero fauna, Corpo Forestale Regionale e Centri di recupero della fauna selvatica

Per questo motivo in Friuli Venezia Giulia nel 2024 è stata organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria, integrando in tal modo i risultati della sorveglianza passiva.

Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di approfondire le conoscenze sulla diffusione dei virus influenzali evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati (71 positivi su 466 animali campionati, nelle province di Udine e Gorizia), con una diffusione particolarmente elevata nei fischioni (positività del 21,4%), seguiti da alzavola (8%) e germano reale (5,6%).

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Fonte: IZS Venezie




Il ruolo dei piccioni nella diffusione dell’influenza aviaria: l’ultima scoperta

Negli spazi urbani di tutta Europa, i piccioni rappresentano una presenza onnipresente, spesso trascurata. Tuttavia, al di là del loro ruolo o delle problematiche logistiche che generano, questi uccelli si stanno rivelando attori inaspettati in una delle più preoccupanti questioni di sanità pubblica globale: la diffusione del virus dell’influenza aviaria.

 Sebbene non siano uccelli migratori e non mostrino sintomi clinici evidenti in caso di infezione, studi recenti hanno documentato in maniera sempre più chiara come i piccioni possano ospitare e trasportare diversi sottotipi di virus aviari fungendo da vettori silenziosi e da potenziali “vasi di mescolanza” genetica che possono giocare un ruolo non trascurabile nell’epidemiologia. La loro presenza ubiquitaria in ambienti urbani e la frequente interazione con altri animali e con l’uomo li rendono un possibile “anello di congiunzione” tra diverse specie ospiti. E la conferma della presenza del virus H5N1 ad alta patogenicità nei piccioni europei non è una buona notizia.

Il pregiudizio dell’immunità urbana

Nel 2006, nel pieno dell’emergenza H5N1, si diffuse rapidamente l’idea che i piccioni fossero “immuni” all’influenza aviaria. Articoli divulgativi, come quello pubblicato su Seed Magazine con il titolo The Invincible, Flu-Immune Pigeon, minimizzavano i rischi, rafforzati da alcune evidenze scientifiche dell’epoca. Tuttavia, lo scenario ha subito un cambiamento radicale. Il virus Hpai H5 ha evoluto nuovi cladi, con una più ampia gamma di ospiti e una maggiore capacità di adattamento interspecie. Uno studio pubblicato su Viruses in questi giorni ha rilevato la presenza di ben 658 ceppi di virus aviari nei piccioni, tra cui 71 appartenenti al sottotipo H5, tutti classificati come altamente patogeni.

Fonte: lastampa.it



IZSVe, Laboratorio di referenza europeo per l’Aviaria: in Italia situazione sotto controllo, criticità in Polonia e Ungheria

In Italia l’ultimo report relativo all’influenza aviaria segnalava, a partire da settembre 2024, 97 focolai tra gli uccelli selvatici, 56 per quanto riguarda il pollame domestico e 3 focolai tra i mammiferi. Negli ultimi mesi, da febbraio 2025, si è registrato un unico focolaio in un allevamento di polli in Piemonte, e 5 isolamenti in uccelli selvatici, tutti limitati al mese di febbraio.

Una situazione di fatto sotto controllo, frutto di un lavoro sinergico tra Ministeri, Istituti Zooprofilattici, autorità sanitarie competenti e comparto avicolo. Nel resto d’Europa le condizioni purtroppo non sono le stesse.

Sempre nel periodo ottobre 2024-marzo 2025, nel Vecchio Continente il totale dei focolai è salito a 1.500, di cui 934 tra gli uccelli selvatici e 566 tra gli allevamenti, in 34 Paesi diversi. Gli stati maggiormente colpiti sono Germania e Paesi Bassi, per i volatili selvatici, mentre Polonia e Ungheria per quanto riguarda gli allevamenti. Difficile anche la situazione negli Stati Uniti, dove la malattia si è diffusa anche tra i bovini con oltre un migliaio di focolai attivi. Qui il prezzo delle uova, per riflesso condizionato, è volato alle stelle.

“Queste situazioni di criticità – precisa Antonia Ricci, Direttrice Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie dove ha sede il Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria – sono sicuramente allarmanti e da tenere sotto stretto monitoraggio. Dimostrano come questa sia una malattia molto pericolosa per gli animali e che si diffonde con una rapidità enorme.”

“Se non si è pronti a mettere in atto misure di controllo e contenimento efficaci la malattia diventa ingovernabile. In Italia abbiamo – purtroppo – un’esperienza di molti anni in questo campo, che ci permette di intervenire prontamente, lavorando in collaborazione con il Ministero della Salute e le autorità regionali, e che ci ha fatto diventare un riferimento a livello internazionale, non solo per l’Europa ma anche per l’Organizzazione mondiale della salute animale (WOAH) e per la FAO. La prossima settimana un team di nostri esperti sarà proprio in Polonia per aiutare i colleghi polacchi a controllare la diffusione della malattia.”

“È fondamentale ricordare – continua Ricci – che non c’è nessun rischio di trasmissione del virus attraverso il consumo di carne e di uova. È un virus che può diventare potenzialmente pericoloso per l’uomo attraverso la trasmissione respiratoria ma ad oggi non abbiamo evidenza che questo salto di specie stia avvenendo.”

“In Italia opera un’industria avicola molto sviluppata, moderna e autosufficiente Nel nostro paese produciamo più carne di pollo di quanta ne viene consumata e dunque non c’è l’esigenza di importare. L’industria avicola nel corso del tempo ha saputo rispondere alle numerose sfide dal punto di vista sanitario, per esempio riducendo drasticamente l’uso di antibiotici, diventando dunque un modello anche per gli altri Paesi.”

“Su mandato del Ministero della Salute e assieme al comparto industriale, al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, agli Istituti Zooprofilattici e alle istituzioni sanitarie locali e regionali – conclude Ricci – stiamo lavorando a un piano strategico nazionale per il controllo dell’influenza aviaria che possa prevedere anche la vaccinazione come strumento di prevenzione, insieme a tutte le altre misure che abbiamo visto essere efficaci per il controllo della malattia.”

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Dengue e cambiamenti climatici

Un recente articolo pubblicato dal BMJ della giornalista freelance Kamala Thiagarajan offre un’analisi approfondita dell’impatto della dengue a livello globale, evidenziando il 2024 come un anno critico per questa malattia, aggravato dal record di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1).  La dengue, trasmessa dalle zanzare Aedes aegypti e Aedes albopictus, è una crescente minaccia sanitaria globale. Nel 2024 sono stati registrati oltre 12 milioni di casi e 8.000 decessi in 86 paesi (2). Un incremento che riflette l’intreccio tra cambiamento climatico, urbanizzazione e disuguaglianze socioeconomiche. Partendo dall’articolo di Thiagarajan, presentiamo un’analisi generale dell’impatto del clima sulla diffusione della dengue, come di altre malattie trasmesse da vettori, l’efficacia delle politiche di prevenzione e trattamento, e le implicazioni economiche e politiche che influenzano la gestione di queste minacce sanitarie nell’era del cambiamento climatico.

La diffusione globale della dengue: dati e tendenze

Negli ultimi decenni, le malattie trasmesse da zanzare hanno registrato un aumento significativo, spinto da cambiamenti climatici, urbanizzazione e mobilità umana. Il Lancet Countdown on Health and Climate Change del 2023 (3) evidenzia che il cambiamento climatico ha aumentato del 30% la diffusione della dengue negli ultimi vent’anni, con implicazioni simili per altre malattie come Zika, Chikungunya e malaria. Secondo il BMJ,  le Americhe hanno visto un incremento allarmante dei casi di dengue: 9,7 milioni di infezioni nel 2024, oltre il doppio rispetto ai 4,6 milioni del 2023 (Fig. 1). Dal 1990, i casi di dengue sono raddoppiati ogni decennio, mettendo a rischio quasi la metà della popolazione mondiale. Confrontando i decenni 1951-1960 e il 2013-2022, il tasso di riproduzione base (R0) della dengue è aumentato del 28% per Aedes aegypti e del 27% per Aedes albopictus, con un allungamento della stagione di trasmissione dal 13% al 15%. Questo aumento preoccupante si riflette anche nelle proiezioni future che, sempre nelle Americhe, indicano che entro il 2039 la malattia potrebbe interessare il 97% dei comuni in Brasile e il 91% in Messico, coinvolgendo grandi città densamente popolate come Città del Messico e Porto Alegre. Anche in Asia la situazione è allarmante, in India, che rappresenterebbe un terzo del carico globale di dengue, modelli epidemiologici stimerebbero 33 milioni di casi clinicamente evidenti ogni anno (4). Tuttavia, il governo ha riportato ufficialmente solo 157.325 casi dal 2019, segnalando una drammatica sottostima che complica, tra le altre cose, la pianificazione sanitaria.

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Fonte: saluteinternazionale.info