Cetacei spiaggiati, sentinelle della salute del mare

spiaggiamentiHic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae” (“Ecco il luogo ove la morte si compiace di venire incontro alla vita”): è questa la celebre frase che, a far tempo dalla seconda metà del XIX secolo, campeggia sulla facciata dello storico Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Nulla di più rispondente al vero non solo per noi umani, ma anche rispetto alla straordinaria valenza di balene e delfini spiaggiati nei confronti dei propri “consimili”, la cui vita si svolge esclusivamente in ambiente acquatico.

Le oltre 90 specie cetologiche popolanti i mari e gli oceani del nostro Pianeta risultano sempre più minacciate per mano dell’uomo, come chiaramente si evince dagli esiti delle indagini post mortem effettuate su esemplari rinvenuti spiaggiati.

La crescente contaminazione chimica e da materie plastiche degli ecosistemi marini, unitamente all’intrappolamento in reti da pesca ed alle collisioni con natanti, rappresentano infatti alcune tra le più significative minacce antropogeniche per la cetofauna dei nostri mari, mentre numerosi agenti patogeni di natura virale, batterica e parassitaria – alcuni dei quali a comprovata capacità zoonosica – ne minano ulteriormente, al contempo, il già precario stato di salute e di conservazione.

Un approccio multidisciplinare, basato sul principio/concetto della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – costituisce pertanto lo strumento ideale per affrontare e gestire al meglio queste complesse problematiche con tutte le inevitabili ricadute sia in ambito sanitario che conservazionistico.

Giovanni Di Guardo
DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Trentino: femmine di orso accompagnate dai piccoli, online la nuova mappa con le segnalazioni

E‘ online da oggi la nuova mappa che raccoglie le segnalazioni di presenza delle femmine di orso accompagnate dai piccoli nati in inverno. Come di consueto, i primi avvistamenti dei gruppi familiari da parte del personale forestale e degli escursionisti avvengono proprio nel corso del mese di maggio.
La mappa sul sito Grandicarnivori.provincia.tn.it è aggiornata dal Servizio Faunistico della Provincia autonoma di Trento in base alle informazioni raccolte e verificate e rappresenta un servizio informativo importante per frequentare la montagna con la necessaria consapevolezza. In tutte le aree del Trentino occidentale è fondamentale segnalare ai selvatici la propria presenza facendo rumore e seguendo le diverse regole di comportamento approvate dagli esperti a livello internazionale. È inoltre importante ricordarsi di tenere il proprio cane al guinzaglio.

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Fonte: grandicarnivori.provincia.tn.it




Botulismo aviario e avifauna selvatica: prima segnalazione in Italia di una grave epidemia in un’area protetta

Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 2019 e per i successivi tre anni, l’epidemia ha interessato un’area all’interno del Parco regionale del Delta del Po dell’Emilia-Romagna. Uno studio, pubblicato sulla rivista Animals e redatto con il contribuito ricercatrici e ricercatori ISPRA, analizza la successione degli eventi in relazione alle condizioni ambientali e alle misure gestionali di contenimento

Il botulismo è una malattia neurologica che colpisce gli umani e altre specie animali ed è collegata alle neurotossine di diverso tipo prodotte da batteri del genere Clostridium, solitamente riconducibili a C. botulinum. Tra queste neurotossine alcune sono responsabili del botulismo umano, ad esempio quello legato alle conserve alimentari, altre colpiscono gli uccelli selvatici. In tali volatili, il botulismo aviario è causa di episodi di mortalità registrati in Italia e nel mondo a volte con gravi impatti sulle popolazioni di uccelli come accaduto durante la moria del 1932 nel Grande Lago Salato nell’America settentrionale che portò alla morte di circa 250.000 animali.

Il 5 settembre del 2019 nell’area della Valle Mandriole, nel Parco regionale Delta del Po Emilia-Romagna in provincia di Ravenna, furono rilevate alcune carcasse di uccelli che analizzate presso i laboratori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna (IZSLER mostrarono la presenza di clostridi produttori di neurotossine.

Tra le prime misure prese dal tavolo tecnico istituito per gestire l’emergenza botulismo aviario — tavolo coordinato dal Comune di Ravenna, con la partecipazione di tecnici e rappresentanti di numerosi enti territoriali e stakeholder locali, tra i quali anche l’Ente Parco del Delta del Po, il servizio veterinario della AUSL della Romagna, la Regione Emilia e Romagna – vi furono il recupero dei soggetti intossicati ancora vivi e la pronta rimozione delle carcasse degli uccelli deceduti. Questa azione risulta molto importante perché nelle carcasse si sviluppano le larve delle mosche carnarie che sono degli accumulatori biologici della neurotossina presente negli animali morti e quando vengono a loro volta predate da altri uccelli li intossicano dando vita ad un ciclo che sostiene e amplifica gli effetti e le possibilità di ulteriore trasmissione della malattia.

Altro intervento deciso per bloccare il ciclo vitale dei ceppi tossigeni di Clostridium spp. fu quello di agire sui livelli d’acqua della valle. Nelle zone umide, soprattutto d’acqua dolce, tali batteri si sviluppano quando materiale organico di origine vegetale o animale si decompone in concomitanza con temperature alte e carenza di ossigeno nell’acqua (anossia), esattamente le condizioni che, insieme alla scarsità di precipitazioni, si manifestarono nell’estate 2019. Le alternative praticabili per affrontare questa situazione di emergenza erano due: l’inondazione o il disseccamento  della Valle Mandriole. Entrambe le azioni possono contribuire a ridurre la presenza del batterio e il suo impatto negativo, rispettivamente riducendone la moltiplicazione ed allontanando gli uccelli acquatici prime vittime della malattia. Si decise di procedere con il disseccamento per evitare che uccelli acquatici continuassero a posarsi nelle poche pozze rimaste. La strategia risultò efficace e la maggior parte dei 2158 uccelli vittima della malattia morirono nei primi giorni dall’insorgenza della stessa e prima delle contromisure mese in atto.

casi di botulismo aviario verificatisi durante l’evento primario tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 2019 e nei successivi tre anni sono stati documentati e recentemente pubblicati sulla rivista Animals. Nell’articolo, redatto da ricercatori ISPRA con la collaborazione di veterinari e biologi del Comune di Ravenna, della AUSL della Romagna e dell’IZSLER, la successione degli eventi è analizzata in relazione alle condizioni ambientali e alle misure gestionali di contenimento, monitoraggio e prevenzione derivate da questa esperienza e a quanto accaduto nei tre anni successivi al ripresentarsi di condizioni favorevoli per il botulismo aviario.

La sopravvivenza delle spore di Clostridium spp.  in uno stato di quiescenza nel terreno e nel substrato delle zone umide, ed anche la persistenza invernale delle tossine delle pupe svernanti di mosca carnaria sottolineano la necessità di monitorare le aree colpite dal botulismo, poiché al verificarsi di condizioni adatte la malattia può ripresentarsi anche dopo anni dal primo evento.

Valle Mandriole, sito di importanza internazionale ai sensi della Convenzione Ramsar compresa tra le aree protette regionali e ZSC/ZPS della Rete Natura 2000, risulta essere come le altre zone umide tra gli ecosistemi più fragili e più esposti ai cambiamenti climatici di origine antropogenica. Lo sviluppo delle spore di Clostridium spp., favorito da condizioni di anossia e decomposizione di biomassa organica in presenza delle alte temperature estive, può diventare un fattore di mortalità importante per gli uccelli acquatici che possono ingerire e quindi diffondere neurotossina botulinica.

Lo studio e la gestione di questa emergenza ambientale ha messo in relazione il ciclo vitale del Clostridium botulinum, la gestione idrica dei bacini legata all’anossia delle acque, i cambiamenti climatici, lo stato di salute dell’avifauna stanziale e migratrice, rendendo esplicita la complessità dei sistemi naturali e la necessità di adeguate azioni di prevenzione e gestione di eventi emergenziali.

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Un nuovo metodo per rilevare la Peste Suina Africana

Uno studio realizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) dimostra la validità del succo di carne di maiale come matriale diagnostico per individuare il virus responsabile della Peste Suina Africana (PSA).

 La Peste Suina Africana (PSA), innocua per la salute dell’uomo, è una malattia virale altamente contagiosa e con un elevato tasso di mortalità che colpisce suini domestici e selvatici, comportando gravi danni economici agli allevamenti. Il virus si trasmette sia per contatto diretto tra animali infetti, sia per trasmissione indiretta, come il consumo di cibo e acqua contaminati. Tra i segni clinici più gravi della patologia si riscontrano febbre alta, anoressia, letargia, fino alla morte dell’animale.

Dal 2007, un’epidemia del genotipo 2 di African Swine Fever Virus (ASFV), appartenente alla famiglia Asfarviridae e altamente aggressivo, si è diffusa rapidamente dalla Georgia fino ad arrivare in Europa, in Asia e nelle isole Caraibiche, rendendo necessario lo studio di nuove strategie per il contenimento della malattia, a partire dalla disponibilità di metodi rapidi ed efficaci per l’individuazione del virus. Con questo obiettivo, i ricercatori IZSAM hanno impiegato la real-time PCR (rt-PCR, metodo tradizionalmente usato per amplificare e rilevare il genoma dei microrganismi in campioni biologici), applicandola ai succhi di carne.

Il succo di carne può essere utilizzato per il rilevamento di numerosi agenti patogeni virali, protozoari e batterici dei suini. Viene spesso scambiato per sangue, ma il colore rosso del succo di carne è dovuto alla mioglobina, non all’emoglobina. Oltre alla mioglobina, il succo di carne contiene acqua, enzimi glicolitici, aminoacidi e numerose vitamine idrosolubili. A seconda del muscolo o della parte anatomica da cui proviene, possono essere presenti anche tracce di sangue contaminante. Il succo di carne si genera a seguito della trasudazione passiva, un fenomeno complesso non completamente compreso.

Il metodo oggi più utilizzato per la conferma in laboratorio della PSA prevede l’analisi di campioni di sangue, di siero o di organi, spesso difficili da reperire. Lo studio condotto dall’IZSAM, in collaborazione con la Facoltà di Medicina Veterinaria e l’Institute for Diagnosis and Animal Health, entrambi in Romania, pubblicato dalla rivista scientifica Journal of Virological Methods, propone invece l’uso del succo di carne come alternativa per il rilevamento del virus.

Il succo era già stato utilizzato in passato per rilevare la presenza di altre malattie, come la Peste Suina Classica e l’Afta Epizootica. “Basandoci su studi precedenti – dice Marta Cresci, ricercatrice dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo, prima autrice del lavoro scientifico – siamo riusciti a dimostrare come il DNA di ASFV, se presente, sia facilmente individuabile nei succhi di carne dei suini, rendendo possibile la rilevazione del virus anche nei casi in cui campioni di organi o sangue non siano disponibili.”

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Fonte: IZS Teramo




Asaps, 14 morti e 254 feriti in 199 incidenti con animali

Quattordici morti e 254 feriti: è il bilancio di 199 incidenti gravi con animali avvenuti lo scorso anno sulle strade italiane, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Asaps, l’Associazione sostenitori della Polizia stradale.

In 181 casi l’incidente è avvenuto con un animale selvatico (91%), in 18 con un animale domestico (9%); 147 gli incidenti di giorno, 52 di notte, 191 sulla rete ordinaria e 8 su autostrade ed extraurbane principali.
In 148 casi il veicolo che ha impattato contro l’animale è stato un’auto, in 60 una moto, in uno l’impatto è avvenuto contro autocarri o pullman, in 12 sono stati coinvolti velocipedi.
Al primo posto di questa classifica c’è la Campania con 32 sinistri, seguita dal Piemonte con 17, in coda Basilicata e Umbria con uno.
Per l’Asaps il fenomeno “richiede l’adozione di ulteriori e più efficaci strumenti difensivi per la sicurezza della circolazione”. Agli automobilisti si suggerisce di disinserire gli abbaglianti che potrebbero bloccare l’animale in mezzo alla carreggiata, evitare di sterzare bruscamente davanti all’animale, ai motociclisti si raccomanda prudenza lungo i rettifili al tramonto. I maggiori rischi sulle strade sono nella tarda serata e nelle prime ore del mattino.
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Fonte: ansa




Le balene, sempre più minacciate per mano dell’uomo, ma anche un modello per lo studio della nostra longevità!

Secondo un interessante articolo recentemente pubblicato sulla prestigiosa Rivista Science Advances, la lunga aspettativa di vita, financo a 150 anni, caratterizzante varie specie di Cetacei Misticeti (cioè provvisti di fanoni, alias balene, balenottere, etc.) quali la balena franca australe (Eubalaena australis) costituirebbe un modello potenzialmente utile ai fini dello studio della longevità tipica di altre specie, fra le quali anche la nostra (1).

In un siffatto contesto, quantomai affascinante ed intrigante al contempo, andrebbero tuttavia sottolineate con particolare enfasi tutte quelle minacce, molte delle quali di natura antropogenica, che mettono a repentaglio il già pluriminacciato stato di salute ed il precario stato di conservazione di queste gigantesche e meravigliose creature popolanti i mari e gli oceani del nostro Pianeta.

Faccio riferimento, in special modo, alla caccia indiscriminata alle balene che, illo tempore (soprattutto nel XIX secolo), ha portato alcune specie quali la balena franca nord-atlantica (Eubalaena borealis) sull’orlo dell’estinzione, situazione aggravata ai giorni nostri dalle morti conseguenti sia alle collisioni con imbarcazioni sia all’intrappolamento in reti da pesca (1).

Se ciò si traduce, da un lato, in un temibile vulnus per il già precario quanto pluriminacciato stato di conservazione di questa e di altre specie di Cetacei Misticeti, andrebbe altresì rimarcato, dall’altro lato, che la loro pur lunga aspettativa di vita ne  risulterebbe notevolmente condizionata, con una sensibile riduzione della stessa (1).

Ad ogni buon conto, come faccio notare in una lettera all’Editore appena pubblicata sulla prestigiosa Rivista BMJ (2), sarebbe opportuno considerare anche il ruolo eventualmente esplicato da una serie di agenti patogeni, virali in primis, che si sono dimostrati capaci di esercitare un consistente impatto sulla salute e sulla conservazione dei Cetacei.

Un ruolo di primo piano è rivestito, in proposito, da Cetacean Morbillivirus (CeMV), che nel corso degli ultimi 35 anni si è reso responsabile di devastanti epidemie fra i Cetacei popolanti i nostri mari ed oceani, quali ad esempio il Mediterraneo, il Mar Nero, la costa orientale statunitense e il Golfo del Messico (3).

Premesso che delfini e balene mostrerebbero una differente suscettibilità nei confronti dell’infezione da CeMV in virtù della presenza, nei Misticeti, di due geni, Myxovirus 1 (Mx1) e Mx2, che nei Cetacei Odontoceti (cioè provvisti di denti, quali delfini, orche, etc.) avrebbero perso la propria funzionalità nel corso dell’evoluzione – circa 35 milioni di anni fa, allorquando gli antenati degli attuali Misticeti e Odontoceti si separarono gli uni dagli altri (4) -, non va tuttavia dimenticato che anche balene e balenottere risulterebbero più o meno sensibili nei confronti di tale infezione.

Un caso emblematico è, al riguardo, quello della balenottera comune (Balaenoptera physalus), la cui popolazione residente nell’area del Santuario Pelagos, nel Mediterraneo occidentale, si è dimostrata particolarmente suscettibile nei confronti dell’infezione da CeMV (5).

Ne consegue, pertanto, che le nostre attuali conoscenze in merito ai determinanti di suscettibilità/resistenza nei confronti dell’infezione da CeMV – così come di altre infezioni, virali e non, in grado di esercitare un più o meno rilevante impatto sulla salute e sulla conservazione dei Cetacei in natura – necessiterebbero di adeguati e consistenti approfondimenti, in una quantomai auspicabile e salvifica prospettiva di One Health, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

BIBLIOGRAFIA

  1. Breed GA, Vermeulen E, Corkeron P. (2024). Extreme longevity may be the rule not the exception in Balaenid whales. Sci. Adv. 10(51):eadq3086. doi: 10.1126/sciadv.adq3086.
  1. Di Guardo G. (2025). Whales’ longevity: A lot of food for thought. BMJ (Rapid Response-Letter to the Editor. doi: https://www.bmj.com/content/385/bmj.q1101/rapid-responses.
  1. Zinzula L, Mazzariol S, Di Guardo G. (2022). Molecular signatures in cetacean morbillivirus and host species proteomes: Unveiling the evolutionary dynamics of an enigmatic pathogen? Microbiol. Immunol. 66:52-58. doi: 10.1111/1348-0421.12949.
  1. Braun BA, Marcovitz A, Camp JG, Jia R, Bejerano G. (2015). Mx1 and Mx2 key antiviral proteins are surprisingly lost in toothed whales. Proc. Natl. Acad. Sci. USA112: 8036-8040. doi: 10.1073/pnas.1501844112.
  1. Mazzariol S, Centelleghe C, Beffagna G, Povinelli M, Terracciano G, Cocumelli C, Pintore A, Denurra D, Casalone C, Pautasso A, Di Francesco CE, Di Guardo G. (2016). Mediterranean Fin Whales (Balaenoptera physalus) Threatened by Dolphin MorbilliVirus.Emerg. Infect. Dis. 22: 302-305. doi: 10.3201/eid2202.15-0882.

 

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




PSA: I veri esperti non si limitano a seguire le raccomandazioni, le anticipano

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato di recente un ampio rapporto scientifico dedicato alla Peste Suina Africana. Il documento analizza i principali fattori di rischio e quelli di prevenzione, offrendo una panoramica sulle misure più efficaci per contenere la malattia. Questo lavoro si basa su un’approfondita revisione della letteratura scientifica e su uno studio caso-controllo specifico, fornendo così una base solida per affrontare il problema.

L’EFSA e la Peste Suina Africana: perché questo rapporto è importante

L’EFSA riveste un ruolo cruciale nella tutela della salute delle piante, degli animali e dei consumatori nell’Unione Europea. La sua importanza non deriva solo dal prestigio istituzionale, ma soprattutto dal rigore scientifico con cui affronta questioni complesse. Quando l’EFSA esprime un parere, lo fa attraverso un’analisi approfondita delle evidenze scientifiche disponibili, avvalendosi di team multidisciplinari composti da esperti di fama internazionale.Iin questo caso il rapporto è stato redatto da un gruppo di undici esperti di diverse nazionalità. Le sue valutazioni non solo guidano le politiche e le normative europee, ma costituiscono anche un punto di riferimento globale per chiunque operi in ambiti legati all’agricoltura, alla sicurezza alimentare e alla gestione ambientale.

La Peste Suina Africana (PSA) rappresenta per l’Italia non una semplice emergenza sanitaria, ma una vera e propria sciagura, capace di colpire il cuore pulsante di uno dei settori più importanti del nostro Paese, ovvero l’agroalimentare. La PSA, inoltre, è una malattia che provoca enormi sofferenze negli animali infetti, con febbre, emorragie interne ed esterne e difficoltà respiratorie ed ha un tasso di mortalità estremamente elevato. Questo virus, spietato nella sua semplicità e devastante nei suoi effetti, non conosce antidoti: non esiste cura e non esiste neppure vaccino. L’unica arma, e purtroppo una delle più difficili da impiegare, è la prevenzione.
Il problema delle misure di profilassi è che sembrano inutili quando funzionano bene, ma la loro importanza diventa evidente quando non vengono applicate. E parlando di prevenzione, abbiamo trovato il nuovo rapporto scientifico degli esperti EFSA particolarmente interessante, in quanto formula precise raccomandazioni su questioni di grande importanza pratica, dalle recinzioni per limitare la diffusione della malattia al possibile utilizzo di vaccini che abbiano un effetto contraccettivo e conseguentemente capaci di ridurre la popolazione dei cinghiali.

Ma vorremmo soffermarci su una questione cruciale e controversa sulla quale EFSA si è espressa, relativa ai fattori di rischio di introduzione della PSA negli allevamenti suinicoli nel corso dell’estate, e che i dati emersi anche negli ultimi mesi indicano chiaramente essere della massima importanza, almeno nell’Italia del Nord: su 40 focolai verificatisi nei suini domestici nel 2023 e nel 2024 in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, 38 sono stati confermati nel periodo compreso tra la fine di luglio e metà settembre. Abbiamo assistito, cioè, ad un picco epidemico stagionale fortissimo, con il 95% dei focolai concentrati in soli due mesi. Un dato che suggerisce che esistano uno o più fattori di rischio specifici alla base della introduzione del virus negli allevamenti in piena estate (si consideri anche che la data di introduzione del virus in un allevamento è in generale precedente alla conferma del focolaio di almeno un paio di settimane, corrispondenti al periodo incubazione e ai tempi necessari alla successiva conferma della malattia: questo significa che i mesi di luglio e agosto sono quelli in cui sussiste in Italia settentrionale il massimo rischio di PSA per gli allevamenti). Fattori di rischio che, evidentemente, non sono presenti o sono comunque molto meno importanti nelle altre stagioni dell’anno.

 

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I numeri dei grandi carnivori in Europa

In Europa vivono sei specie di grandi carnivori: orso, lupo, lince eurasiatica, lince iberica, ghiottone e sciacallo dorato. La maggior parte delle popolazioni di questi predatori ha mostrato negli ultimi sei anni un complessivo trend di crescita sia numerica che di distribuzione, come dimostra il report realizzato per l’Unione europea dal Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE), gruppo specialistico dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) che si occupa della conservazione e gestione dei grandi carnivori in Europa. Studiare gli andamenti numerici e distributivi di una popolazione animale è fondamentale per capire l’evoluzione e lo “stato di salute” di una popolazione e di conseguenza per indirizzare le scelte gestionali e di conservazione. Lo è per qualsiasi specie, e nel caso dei grandi predatori è cruciale per ricondurre il discorso, che è spesso fortemente polarizzato, su dati oggettivi.

Il report della LCIE, a firma di oltre 200 esperti europei, ha proprio lo scopo di fornire un quadro di sintesi basato sui migliori dati disponibili raccolti tra il 2017 e il 2022. L’area investigata comprende 34 stati: oltre a quelli che fanno arte dell’UE, anche Svizzera, Norvegia e parte dell’Ucraina e della Turchia. La distribuzione delle specie è stata valutata mappando tutti i dati di presenza, classificati in base all’affidabilità del dato (una valutazione basata su una serie di criteri rigorosi), e sovrapponendo alla carta una griglia con quadrati di 10 Km di lato, un metodo utilizzato per fare la valutazione di tutte le specie animali e vegetali protette dalla Direttiva habitat. Le mappe prodotte distinguono per ogni quadrato se si tratta di una presenza stabile della specie o occasionale. Per tutte, è stato fatto un confronto con le stime ottenute nel report analogo pubblicato nel 2016.

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Fonte:scienzainrete.it




Selvatici o domestici? Il confine tra cattività e domesticazione

Il commercio di animali esotici venduti come pet, animali d’affezione, sembra essere in perenne crescita e, alimentato anche dai social media, vede anche di continuo nuove specie che si aggiungono alla lista di quelle in voga, dai galagidi ai gufi. In alcuni casi, questi animali vanno anche incontro a un processo di selezione da parte degli allevatori, che li incrociano per ottenere determinate caratteristiche dal punto di vista estetico: ne sono un esempio i pitoni, commerciati in diversi morph, con colorazioni e pattern delle squame differenti.

La letteratura scientifica ha ampiamente sottolineato i rischi del commercio di animali esotici, che vanno dalla diffusione di specie aliene invasive (nel caso di abbandoni volontari o fughe involontarie) al contrabbando, fino alle minacce, in alcuni casi, per la conservazione delle specie. Ma c’è un altro aspetto sul quale vale la pena riflettere tenendo in considerazione i dati scientifici: possiamo iniziare a considerare questi animali come domestici, magari in virtù di una lunga storia di detenzione come animali d’affezione o della selezione genetica nell’allevamento?

Un animale nato in cattività, cresciuto con l’essere umano, che non lo teme ed è confidente, magari figlio e nipote di animali nati in cattività, non è automaticamente un animale domestico. La domesticazione è qualcosa di ben diverso dalla confidenza con la nostra specie: è un processo lungo centinaia o più spesso migliaia di anni e relativo numero di generazioni, sulle quali da un lato ha agito in modo più o meno deliberato l’essere umano, scegliendo certi animali ed escludendo gli altri, in base alle caratteristiche che di volta in volta gli venivano utili (docilità, tasso riproduttivo, dimensioni, velocità di crescita eccetera).

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Fonte: scienzainrete.it




Primo caso di Trichinella spiralis in un lupo nella provincia di Rieti

Presso il laboratorio della sezione di Rieti del nostro Istituto, è stata confermata la positività per Trichinella sp. in un lupo trovato morto in provincia di Rieti nel luglio 2024. Le larve di Trichinella sono state identificate tramite microscopia ottica, a seguito della digestione artificiale di un campione di muscolo tibiale craniale.
L’identificazione molecolare delle larve isolate, eseguita presso il Laboratorio Europeo di Riferimento per i Parassiti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ha evidenziato un’infestazione mista da Trichinella spiralis e Trichinella britovi.
Questa è la prima segnalazione della specie T. spiralis nella fauna selvatica nel Centro Italia, la seconda in Italia nell’ultimo decennio, dopo il caso di una volpe in Emilia-Romagna nel 2016.
Negli ultimi due anni, nella provincia di Rieti sono state registrate altre otto positività: quattro nei cinghiali e quattro nei lupi. In sei di questi, l’identificazione di specie effettuata dall’ISS ha confermato la presenza di T. britovi.
Tra i parassiti del genere Trichinella, T. spiralis è la specie più frequentemente associata a casi di malattia nell’uomo in Europa, ed è nota per causare sintomi più gravi rispetto a T. britovi, specie endemica.
La rilevazione di T. spiralis apre nuovi scenari sull’epidemiologia della trichinellosi in Italia e ha notevoli implicazioni per la sanità pubblica, sottolineando l’importanza della sorveglianza sanitaria della fauna selvatica per il monitoraggio precoce degli agenti infettivi emergenti nei territori.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana