In arrivo data base europeo per la condivisione dei dati sull’utilizzo di animali ai fini scientifici

datiLa trasparenza nella gestione degli animali utilizzati ai fini scientifici è uno dei cardini della Direttiva Europea 62/2010 che impone la pubblicazione dei riassunti delle attività di ricerca che utilizzano animali e i dati statistici ad essa connessi.
Al fine di garantire una sempre maggiore trasparenza relativa alla diffusione e condivisione dei dati statistici inerenti l’impiego degli animali a scopo scientifico il Centro Europeo per la Validazione dei Metodi Alternativi (ECVAM) ha presentato il nuovo database europeo ALURES.
ALURES rappresenta il primo database europeo pubblico, consultabile sia dai ricercatori sia dagli stakeholders interessati, che raggruppa i dati di tutti i Paesi membri e tutte le ricerche svolte in Europa.
All’interno della piattaforma vi sono 3 sezioni che individuano gli utilizzi degli animali a scopo scientifico, relativamente al tipo di ricerca (di base, traslazionale, ai fini del sistema regolatorio), alla specie, all’eventuale grado di sofferenza, possibilità di riutilizzo dell’animale, etc.
Nello specifico, il fine ultimo di tale piattaforma, come di tutti gli altri strumenti/documenti sviluppati in ambito internazionale, è quello di arrivare alla sostituzione del modello in vivo con uno non basato sull’impiego di animali.
L’accesso è totalmente libero e rappresenta la volontà da parte di tutti i Paesi membri di garantire e seguire il percorso comune legato al principio delle 3R (reduction, refinement, replacement), che, grazie ai continui progressi scientifici, porterà ad avere sempre meno bisogno del modello in vivo con il contemporaneo sviluppo di nuovi approcci non basati sull’impiego degli animali.
Le finalità del database e le sue possibilità sono descritte oltrechè sul sito di ECVAM anche in un video scaricabile da youtube

 Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna



Epidemia di EHV-1 in Europa. Prime indicazioni operative sulla diagnosi di possibili casi sospetti

La diffusione della Rinopolmonite Equina da Herpes Equino di tipo 1 (EHV-1) in Europa sta destando una certa preoccupazione nelle autorità sanitarie europee; anche il Ministero della Salute italiano sta monitorando e analizzando attentamente la situazione.

Dopo il primo focolaio scoperto a Valencia lo scorso febbraio, sono stati segnalati casi analoghi anche in Francia, Belgio e Germania. Dalle prime informazioni sembra si tratti dell’epidemia di EHV-1 più grave che si sia registrata in Europa da diversi decenni, causata da un ceppo di EHV-1 particolarmente aggressivo che ha già causato decessi di equini e un numero molto elevato di casi clinici gravi. La Federazione Equestre Internazionale (FISE) ha pertanto comunicato alcuni giorni fa alle Federazioni nazionali, e poi anche alla stampa, le misure di controllo assunte per prevenirne l’espansione.

Tutte le info sul sito dell’ IZS Venezie

 

 




Basso rischio di infezione parassitaria in gran parte delle specie ittiche allevate nelle acque europee

pesciBuone notizie per i consumatori di pesce europei: c’è un parassita di cui non si devono preoccupare quando consumano pesce d’allevamento prodotto dalla maricoltura d’Europa. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista «Eurosurveillance», il rischio correlato a questo parassita, chiamato Anisakidae, è trascurabile per il pesce di mare allevato in Europa. L’aumento della domanda di prodotti ittici in Europa e le nuove tendenze alimentari che prevedono il consumo di pesce crudo o poco cotto potrebbero avere aumentato la nostra esposizione ai parassiti dei pesci. Il diritto europeo richiede pertanto l’applicazione di un trattamento di congelamento ai prodotti ittici destinati a essere consumati crudi o poco cotti. L’unica specie esente da tale trattamento è il salmone atlantico per il quale, come dimostrato dagli studi precedenti, il rischio che contenga parassiti è molto basso. Con il sostegno del progetto ParaFishControl, finanziato dall’UE, lo studio in questione si è dunque concentrato sulla presenza di parassiti di Anisakidae zoonotici, ovvero trasmessi dagli animali agli esseri umani, nelle specie ittiche marine più allevate in Europa, ad esclusione del salmone atlantico. L’Anisakidae è una famiglia di vermi nematodi parassiti presenti nell’intestino degli animali. Se questi vermi vengono ingeriti da una persona tramite il consumo di pesce crudo o poco cotto, le loro larve possono provocare una malattia chiamata anisachiasi. Identificata per la prima volta negli esseri umani nel 1960, questa malattia è considerata una grave minaccia per la salute umana ed è la causa di migliaia di sindromi invasive e allergiche correlate in tutto il mondo, come affermato dallo studio.

Le specie ittiche studiate

I ricercatori hanno valutato il rischio di presenza del parassita Anisakidae zoonotico in orate, branzini, rombi chiodati e trote iridee marine allevati nei mari europei. Da marzo 2016 a novembre 2018 sono stati analizzati in totale 6 549 pesci marini: 2 753 orate, 2 761 branzini e 1 035 rombi chiodati. I campioni sono stati raccolti da 14 allevamenti in Grecia, Spagna e Italia. In aggiunta, sono stati esaminate 200 trote iridee provenienti dalla Danimarca, oltre a 290 branzini e 352 orate importati in Spagna e in Italia da Croazia, Grecia e Turchia. Secondo lo studio, l’orata, il branzino e il rombo chiodato «rappresentano il 95 % della produzione della maricoltura dell’UE, escludendo il salmone atlantico, e vengono allevati quasi interamente in 19 paesi mediterranei, tra cui Grecia, Spagna e Italia sono i più importanti produttori dell’UE». Data l’assenza di vermi di Anisakidae zoonotici nel pesce esaminato, il gruppo di ricerca ha scoperto che il rischio di infezione è trascurabile per la gran parte delle specie ittiche prodotte dalle attività della maricoltura europea. Gli autori dello studio concludono: «Orate, branzini, rombi chiodati e trote iridee marine allevati dovrebbero pertanto essere considerati adatti, al pari del salmone atlantico, a beneficiare dell’esenzione dal trattamento di congelamento previsto dal regolamento UE 1276/2011 per i prodotti di itticoltura, nella forma di “prodotti della pesca che vanno consumati crudi o praticamente crudi; oppure i prodotti della pesca marinati, salati e qualunque altro prodotto della pesca trattato, se il trattamento praticato non garantisce l’uccisione del parassita vivo”». Il progetto ParaFishControl (Advanced Tools and Research Strategies for Parasite Control in European farmed fish) si è concluso a marzo 2020. Il suo obiettivo generale è stato rendere il settore dell’acquacoltura europea più sostenibile e competitivo. Per raggiungerlo, il progetto ha migliorato la comprensione scientifica delle interazioni tra pesci e parassiti, trovando modi per evitare, controllare e mitigare la presenza dei parassiti più pericolosi che interessano le specie ittiche maggiormente allevate in Europa.

Per ulteriori informazioni, consultare: sito web del progetto ParaFishControl

Fonte: Commissione Europea




Trovate le varianti di SARS-CoV-2 nelle acque di scarico: la ricerca dell’ISS

“CS n°13/2021 – Trovate le varianti di SARS-CoV-2 nelle acque di scarico: la ricerca dell’ISS”

Lucentini: risultati importanti per esplorare la variabilità genetica del virus

Bonadonna: le potenzialità della sorveglianza sui reflui riconosciute nel Piano europeo contro le varianti

Le varianti del virus SARS-CoV-2 inglese e brasiliana sono state individuate per la prima volta nelle acque di scarico italiane.

La ricerca, prima in assoluto sulle varianti in reflui urbani in Italia e tra le prime al mondo, è stata condotta dal gruppo di lavoro coordinato da Giuseppina La Rosa* del Dipartimento Ambiente e Salute e da Elisabetta Suffredini del Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica Veterinaria dell’ISS, in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico della Puglia e della Basilicata.   I risultati dello studio dimostrano che le acque di scarico posso essere un utile strumento per valutare la circolazione delle varianti di SARS-CoV-2 nei centri urbani.

Per consentire uno screening rapido, pratico e semplice delle varianti circolanti nella popolazione italiana è stato sviluppato, infatti, un metodo che prevede l’amplificazione e il sequenziamento di una parte del gene S contenente specifiche mutazioni in grado di caratterizzarle. Il metodo, testato inizialmente su campioni clinici (tamponi naso-faringei), è stato successivamente applicato all’analisi delle acque di scarico raccolte in fognatura prima dei trattamenti di depurazione. L’esame di questa matrice ha individuato, per la prima volta in campioni ambientali, la presenza di mutazioni caratteristiche delle varianti UK e brasiliana in alcune aree del nostro paese dove la circolazione di tali varianti era stata accertata in campioni clinici di pazienti CoViD-19.

In particolare sono state individuate sequenze con mutazioni tipiche di variante brasiliana e inglese in reflui raccolti a Perugia dal 5 all’8 febbraio e mutazioni tipiche della variante spagnola in campioni raccolti da impianti di depurazione a Guardiagrele, in Abruzzo dal 21 al 26 gennaio 2021.

“I nostri risultati – sottolinea Luca Lucentini, direttore del Reparto Qualità dell’Acqua e Salute – confermano le potenzialità della wastewater based epidemiology, non solo per lo studio dei trend epidemici, come già dimostrato in precedenti nostre ricerche e ormai consolidato nella letteratura scientifica, ma anche per esplorare la variabilità genetica del virus”.

“Le prospettive sono promettenti – dice Lucia Bonadonna, direttore del Dipartimento Ambiente e Salute dell’ISS – in particolare se pensiamo che la sorveglianza sui reflui è applicata in diversi paesi europei, anche se non ancora per la ricerca delle varianti. L’importanza della sorveglianza ambientale è stata riconosciuta, grazie anche al contributo dei risultati italiani, nel Piano europeo contro le varianti del COVID-19 (Hera incubator), che mira a rafforzare le difese dell’Unione davanti al crescente numero di mutazioni del virus”.

*gruppo di lavoro: Marcello Iaconelli, Giusy Bonanno Ferraro, Pamela Mancini e Carolina Veneri

Fonte: ISS




Studiare le simbiosi fra batteri e zanzare per vincere la resistenza agli insetticidi

Un batterio simbionte delle zanzare potrebbe essere coinvolto in fenomeni di resistenza agli insetticidi. La scoperta è stata fatta da un gruppo di ricercatori coordinato dall’Università di Camerino, in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (Laboratorio di parassitologia) e le Università di Pavia, Milano, San Paolo (Brasile) e Glasgow (Regno Unito). Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale mBIO dell’American Society for Microbiology e apre prospettive interessanti per il controllo delle malattie trasmesse da vettori.

Riduzione genomica nei batteri simbionti

Un batterio simbionte delle zanzare potrebbe essere coinvolto in fenomeni di resistenza agli insetticidi. La scoperta è stata fatta da un gruppo di ricercatori coordinato dall’Università di Camerino, in collaborazione con il Laboratorio di parassitologia) dell’IZSVe e le Università di Pavia, Milano, San Paolo (Brasile) e Glasgow (Regno Unito).

Il batterio si chiama Asaia e si trova nell’intestino, negli organi riproduttivi e nelle ghiandole salivari di molte specie di zanzare ed altri insetti nocivi all’agricoltura. Come tutti i batteri simbionti, anche Asaia non è dannoso per la salute dell’ospite, ma ne influenza in maniera positiva il percorso evolutivo, con un vantaggio reciproco. In generale, le associazioni simbiotiche mostrano un elevato livello di integrazione fisica, metabolica e genomica fra gli organismi in simbiosi, al punto che se anche i batteri simbionti non diventano essenziali all’esistenza stessa dell’ospite, sono comunque in grado di fornirgli un vantaggio nei termini di una migliore fitness all’ambiente.

Uno degli effetti della coevoluzione nelle simbiosi è la riduzione delle dimensioni del genoma del batterio, che consiste nella perdita di geni ritenuti invece indispensabili per i batteri non simbiotici. L’analisi filogenetica di Asaia ha infatti rivelato una sostanziale distanza genetica nella linea evolutiva dei diversi ceppi, mostrando proprio come processi indipendenti di riduzione/variazione genetica hanno determinato una “erosione” di geni a seconda del ceppo di Asaia e della sua relazione simbiotica con l’ospite. Alla base di questo fenomeno ci sarebbero meccanismi evolutivi in cui sono coinvolti percorsi metabolici che svolgono funzioni essenziali per la vita del microorganismo.

Geni di resistenza agli insetticidi nelle zanzare

L’attenzione dei ricercatori si è concentrata in particolare su un gene (PH) che regola la degradazione dei piretroidi, un principio attivo di molti insetticidi. I ceppi di Asaia sono stati isolati da diverse specie di zanzare, da popolazioni di mosca mediterranea della frutta (Ceratitis capitata) e da campioni ambientali. In tutti i ceppi batterici analizzati è stato trovato il gene PH, tranne in un caso: nella zanzara Anopheles darlingi, una delle specie maggiormente responsabili della diffusione di malaria nelle regioni amazzoniche.

L’efficacia degli insetticidi nei confronti di insetti vettori, come nel caso della zanzara anofele, o di insetti delle piante potrebbe dipendere da meccanismi di regolazione genetica che agiscono a livello metabolico nelle simbiosi tra zanzare e batteri.

Il ruolo del gene PH nella biologia del batterio è ancora da approfondire ma, secondo gli autori dello studio, la sua presenza – di cui è nota la funzione protettiva nei confronti di Asaia – potrebbe proteggere indirettamente anche le zanzare dagli insetticidi a base di piretroidi, rendendoli poco efficaci. La zanzara anofele An. darlingi sembra rappresentare un buon candidato per testare questa ipotesi.

Lungo questa linea di ricerca, uno studio condotto qualche anno fa nell’ambito del Programma di controllo della malaria in Brasile ha evidenziato che An. darlingi non è resistente ad alcuni insetticidi a base di piretroidi. È interessante notare che alcuni studi hanno evidenziato come l’infezione da Plasmodium (il parassita malarico) riduca la sopravvivenza delle zanzare solo nei ceppi resistenti agli insetticidi ma non in quelli sensibili , fornendo così la prova di un “costo di sopravvivenza” associato all’infezione da Plasmodium solo nelle zanzare selezionate per la resistenza agli insetticidi. L’efficacia degli insetticidi nei confronti di insetti vettori, come nel caso della zanzara anofele, o di insetti delle piante potrebbe quindi dipendere da meccanismi di regolazione genetica che nelle simbiosi agiscono a livello metabolico.

In generale, la detossificazione da insetticidi mediata dai batteri simbionti è oggi riconosciuto come un problema emergente nelle strategie di controllo degli insetti. Nei prossimi anni sarà quindi necessario approfondire il funzionamento dei processi metabolici coinvolti nei meccanismi di resistenza agli insetticidi, al fine di sviluppare nuovi metodi di controllo efficaci per insetti vettori di patogeni e altri insetti nocivi.

Fonte: IZS delle Venezie




Eutanasia in apicoltura: una questione di benessere animale

L’attenzione nei confronti del benessere animale è notevolmente cresciuta negli ultimi anni e ha trovato opportuno riconoscimento e sostegno normativo per gli animali di allevamento, d’affezione e anche per quelli impiegati a fini scientifici. In quest’ultimo caso, la direttiva 2010/63/UE, recepita in Italia dal decreto legislativo n. 26/2014, considera tra gli invertebrati solo i cefalopodi. Pertanto, il benessere delle api non è al momento normato sebbene esistano situazioni in cui sarebbero necessarie precise indicazioni, come nel caso dell’eutanasia della colonia.

Il Centro di referenza nazionale (CRN) per l’apicoltura dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha approfondito questa tematica relativamente alle api da miele, quando l’opzione dell’eutanasia si rende necessaria. Sulla base della letteratura scientifica, i ricercatori del CRN hanno individuato le tecniche maggiormente utilizzate a tale scopo in relazione all’efficacia e alla possibilità di ridurre al minimo le sofferenze per le api. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Apicultural Research

L’eutanasia in apicoltura

Il Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’IZSVe ha approfondito la tematica dell’eutanasia in apicoltura, una pratica a volte necessaria per prevenire la diffusione di malattie infettive o parassitarie delle api mellifere. Sulla base della letteratura scientifica, i ricercatori del CRN hanno individuato le tecniche maggiormente utilizzate a tale scopo in relazione all’efficacia e alla possibilità di ridurre al minimo le sofferenze per le api. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Apicultural Research.

Anche in apicoltura può essere necessario ricorrere all’eutanasia, pratica autorizzata e prevista dalla normativa vigente qualora insorgano problemi per le api, per l’ambiente e/o per la salute pubblica che non si possono risolvere in altro modo. La soppressione delle api mellifere si realizza, di regola, dopo il tramonto, quando la maggior parte delle api è rientrata nell’arnia. A questo punto l’alveare viene sigillato confinandovi tutte le sue api, per evitare che possano ulteriormente fuoriuscire.

Nel caso di alcune malattie infettive o parassitarie delle api mellifere, come la peste americana o le infestazioni parassitarie esotiche (come l’infestazione da Aethina tumida), la normativa veterinaria e i piani di emergenza nazionali prevedono la soppressione immediata delle api, quando gli agenti responsabili dell’infezione/infestazione sono presenti in numero ancora limitato e localizzato. In questi casi, l’eutanasia è una riposta rapida ed efficace per tutelare la salute del patrimonio apistico di un territorio o di una nazione.

Altre volte, questa pratica è necessaria per prevenire l’introduzione e la diffusione di api di origine sconosciuta, o qualora siano segnalati alveari abbandonati, o ancora sciami in luoghi difficilmente accessibili e di difficile gestione, magari anche con rischi per la salute delle persone.

Tecniche e sostanze per la soppressione delle api mellifere

Grazie all’esperienza maturata direttamente sul campo, la pratica apistica ha raccomandato e tramandato vari metodi, chimici o fisici, di soppressione delle api mellifere, che non sono stati però adeguatamente studiati in condizioni controllate o riconosciuti ufficialmente. Nel caso di un focolaio di malattia infettiva o infestiva si applica la procedura più semplice, realizzabile in loco, di immediata efficacia e scelta tra quelle disponibili.

Criteri generali

Innanzitutto, la manipolazione delle api e la tecnica di soppressione impiegata devono essere rapide per limitarne la sofferenza: in questo modo la procedura potrà rispondere ai criteri di tutela del benessere dell’animale al momento dell’eutanasia. Anche durante la manipolazione, il disagio dell’ape deve essere ridotto al minimo. Andranno poi tenuti in considerazione i seguenti fattori:

Principali sostanze e loro autorizzazione

Nello studio, vengono elencate le principali sostanze utilizzate per l’eutanasia delle api mellifere nel mondo. L’anidride solforosa è la sostanza maggiormente utilizzata in Italia, perché economica e di facile impiego per l’operatore: è sufficiente posizionare una pastiglia di zolfo sul fondo dell’arnia e accenderla; l’anidride solforosa prodotta dalla combustione satura l’aria dell’alveare in breve tempo provocando rapidamente la morte delle api. Quando è necessario intervenire su più alveari, l’anidride solforosa viene invece immessa da personale esperto e autorizzato tramite una bombola.

Nello studio, vengono elencate le principali sostanze utilizzate per l’eutanasia delle api mellifere nel mondo. La lista comprende:

Queste sono le sostanze maggiormente indicate perché tengono in considerazione anche la sicurezza di chi le maneggia e l’impatto sull’ambiente. In passato, venivano utilizzati anche l’acetato di etile, il cianuro di calcio e il cianuro di sodio, successivamente abbandonati in quanto tossici.

L’anidride solforosa è la sostanza maggiormente utilizzata in Italia, perché economica e di facile impiego per l’operatore: è sufficiente posizionare una pastiglia di zolfo sul fondo dell’arnia e accenderla; l’anidride solforosa prodotta dalla combustione satura l’aria dell’alveare in breve tempo provocando rapidamente la morte delle api. Quando è necessario intervenire su più alveari, l’anidride solforosa viene invece immessa da personale esperto e autorizzato tramite una bombola. Questa tecnica è applicata solo in condizioni di campo, all’aria aperta, dove il rischio di esposizione per gli operatori è assente.

Nonostante il loro storico utilizzo in apicoltura, né in Italia né nell’Unione Europea l’impiego di principi attivi per la soppressione delle api risulta regolamentato, come invece avviene in altri stati quali Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Australia. Anche le sostanze sopra citate non sono incluse ad oggi fra quelle autorizzate dal Regolamento (Ue) 528/2012 che disciplina l’uso di biocidi per proteggere uomo e animali da organismi nocivi.

Operatori autorizzati

In base alle diverse situazioni, l’eutanasia può essere eseguita dall’apicoltore o da ditte specializzate che forniscono servizi di disinfestazione. In entrambi i casi è prevista la supervisione dei Servizi veterinari dell’Azienda sanitaria competente per il territorio.

Consolidare ricerca e legislazione

Dallo studio IZSVe emerge che, nonostante l’eutanasia in apicoltura in molti casi sia una pratica necessaria e obbligatoria, poco è stato fatto finora per aumentare l’adeguatezza delle tecniche di eutanasia alle caratteristiche proprie della specie. Servono pertanto conoscenze maggiori e specifiche sul benessere delle api mellifere e degli insetti in generale, informazioni che possono derivare dalla ricerca e dalla pratica di laboratorio, come già avviene per il mondo dei vertebrati. Infine, servirà che le istituzioni ravvedano l’opportunità di autorizzare le sostanze già in uso, e che gli apicoltori siano più attenti e sensibili circa le corrette modalità d’impiego.




Il cimurro delle volpi nelle Valli lombarde e in Romagna

volpeIl cimurro (CD) è una malattia mortale e altamente contagiosa dei carnivori selvatici e domestici. Nel territorio alpino, negli ultimi decenni, si sono verificati diversi focolai all’interno di popolazioni selvatiche. Il virus del cimurro si è ripresentato con particolare virulenza negli ultimi anni nelle valli lombarde determinando la morte di parecchie volpi e di altre specie come tassi e faine. Il cimurro è presente oramai da qualche anno nelle valli lombarde ormai popolate da numerose volpi; il virus, presente sotto forma di due varianti provenienti rispettivamente dal nord Europa e dalle zone alpine dell’ Italia orientale si è progressivamente diffuso nelle Alpi Lombarde interessando la provincia di Bergamo e Brescia, di Sondrio e quindi di Varese/Como. Negli ultimi giorni, ad ulteriore conferma di presenza di questa malattia in forma endemica, sono state conferite alla Unità Territoriale di Binago numerose volpi morte e di esse 5 sono risultate positive per il virus del cimurro. Un ulteriore segnale questo che la malattia ha raggiunto una notevole diffusione ed espansione sud-occidentale negli animali selvatici e segnatamente nella volpe che è la specie più rappresentata in termini di densità di popolazione, ma anche in altri selvatici come il tasso e la faina.

I ricercatori del Reparto Virologia dell’IZSLER con i colleghi delle Sedi territoriali di Bergamo, Brescia, Sondrio e Varese hanno seguito l’andamento epidemiologico della malattia negli anni dal 2018 al 2020 e descritto le caratteristiche del virus circolante in Lombardia in una pubblicazione open source dal titolo: Canine distemper outbreaks in wild carnivores in Northern Italy pubblicata sulla rivista Viruses (https://doi.org/10.3390/v13010099).

Una situazione molto simile si è verificata nelle colline della Romagna attorno a San Marino, da dove sono state conferite alla Sede Territoriale di Forlì dell’IZSLER dall’ambulatorio del CRAS (Centro di Recupero Animali Selvatici) 4 volpi morte con segni di chiari di cimurro, confermato successivamente dalle analisi di laboratorio. I materiali sono stati inviati dalla Virologia della Sede Centrale dove sono in corso di valutazione per confrontare i ceppi con gli altri isolati.

Il virus del cimurro, pur imparentato con il virus del morbillo, non infetta l’uomo, ma è tipico dei carnivori selvatici, come la volpe, e domestici, tra cui cane, furetto ed visone che possono contrarre una malattia, spesso mortale, che si manifesta con febbre, segni di difficoltà respiratoria, vomito, diarrea ed con sintomatologia nervosa.

Da un punto di vista epidemiologico il ciclo silvestre e urbano si possono sovrapporre; infatti, i cani possono contrarre la malattia sia a seguito di contatto con carcasse di animali morti che con le feci di animali ammalati. La vaccinazione del cane è estremamente efficace nel prevenire la malattia ed è pertanto indispensabile che i cani siano vaccinati e richiamati periodicamente, in modo particolare gli ausiliari e quelli che frequentano zone all’aperto dove possono essere transitate anche le volpi.

Fonte: IZS LER




AMR: relazione sullo stato di avanzamento del piano d’azione dell’UE

Antibioticoresistenza

La Commissione europea ha pubblicato la sua quinta relazione sullo stato di avanzamento dell’attuazione del piano d’azione europeo One Health contro la resistenza agli antimicrobici, adottato nel giugno 2017. Gli obiettivi chiave di questo piano si basano su tre pilastri principali: rendere l’UE una regione esempio delle best practice; stimolare la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione, nonché dare forma all’agenda globale. Affrontare la resistenza antimicrobica attraverso un approccio One Health è una delle priorità per questa Commissione, come indicato nella lettera d’incarico del Commissario Kyriakides a novembre 2019.

La relazione sullo stato di avanzamento mostra che negli ultimi mesi è stata messa in atto una serie di iniziative in materia di resistenza antimicrobica. Ad esempio, la Commissione ha adottato nella strategia Farm to Fork un obiettivo volto a ridurre del 50% entro il 2030 le vendite complessive di antimicrobici per animali da allevamento e in acquacoltura dell’UE. Questo obiettivo sarà supportato dall’attuazione dei recenti regolamenti sui farmaci ad uso veterinario e mangimi medicati per i quali sono attualmente in fase di elaborazione atti delegati e di attuazione.

Un altro dei principali aggiornamenti del piano d’azione include la nuova decisione di esecuzione (UE) 2020/1729 della Commissione sul monitoraggio e la comunicazione dell’antibiotico resistenza nei batteri responsabili delle zoonosi e in quelli commensali. Anche la Strategia farmaceutica per l’Europa adottata di recente ha indicato la lotta contro la resistenza antimicrobica come un obiettivo chiave. La prossima relazione sullo stato di avanzamento dovrebbe essere pubblicata a metà del 2021.

Il testo della relazione (in inglese)

Fonte: DG Health and Food Safety




Parere CNSA – Listeriosi di origine alimentare: valutazione del rischio di esposizione per il consumatore

Listeria monocytogenesListeria monocytogenes è un patogeno opportunista in grado di sopravvivere e proliferare anche a temperatura di refrigerazione e in condizioni avverse per altri batteri. Per la sua notevole resistenza, L. monocytogenes è un importante contaminante degli ambienti di lavorazione e degli alimenti, sia crudi che cotti. Dopo il consumo di alimenti contaminati, la maggior parte dei soggetti adulti in buona salute non presenta alcun sintomo o può manifestare lievi sintomi gastroenterici di breve durata. Invece, nelle donne in gravidanza, nei neonati, negli anziani e negli individui immunocompromessi si possono sviluppare forme gravi di malattia. In Italia e negli altri Paesi dell’Unione europea, i casi di listeriosi mostrano una tendenza alla crescita e interessano soprattutto i soggetti di età superiore ai 65 anni.

Sulla base dei dati dei controlli ufficiali degli alimenti e dei dati di consumo, è stato effettuato uno studio preliminare per la stima dell’esposizione del consumatore italiano, che ha evidenziato maggiori criticità per i piatti cotti a base di carne, che possono essere soggetti a manipolazioni e conservazione anche dopo la cottura, e per i prodotti di salumeria. Ciò ribadisce l’importanza di una corretta manipolazione e conservazione degli alimenti pronti al consumo, sia nelle fasi di distribuzione e di somministrazione, sia in ambito domestico.

Fonte: Ministero della Salute




Peste suina africana: elaborare una “strategia di uscita” per i Paesi interessati dalla malattia

cinghiale

L’EFSA ha elaborato strategie di sorveglianza che aiuteranno i Paesi interessati dalla peste suina africana (PSA) a determinare quando il virus abbia smesso di circolare tra le proprie popolazioni di cinghiali selvatici.

Il parere scientifico raccomanda una “strategia di uscita” che consta di due fasi: un periodo di sorveglianza di routine dei cinghiali selvatici (fase di screening) seguito da un periodo più breve di sorveglianza intensa (fase di conferma).

La modellazione ha dimostrato che:

Il parere fornisce esempi pratici di come applicare la strategia di uscita sia alle grandi che alle piccole aree interessate. Esprime anche raccomandazioni sui periodi minimi di monitoraggio necessari per rendere efficace la strategia.

Fonte: EFSA