Uno studio One Health getta nuova luce sul complesso intreccio fra pipistrelli, allevamenti suini e virus

Studio dell’IZSVe individua come almeno otto specie di pipistrelli (chirotteri) utilizzino le aree degli allevamenti di suini dell’Italia settentrionale. Sebbene questa interazione possa presentare effetti positivi per entrambe le specie, l’assenza di barriere fisiche e le lacune nella biosicurezza all’interno delle aziende suinicole possono comportare un rischio residuo per la trasmissione inter-specifica di virus.

Legnaro (Padova) –  I pipistrelli, o chirotteri, sono riconosciuti come serbatoi naturali di diversi coronavirus (CoV), da alcuni dei quali potrebbero essersi evolute specie virali pericolose per l’uomo e per gli animali domestici, come il SARS-CoV-2 o il virus della diarrea epidemica nel suino. Tuttavia, le dinamiche e i meccanismi che permettono il passaggio di questi virus agli animali da allevamento o all’uomo rimangono per lo più sconosciute.

I ricercatori del Laboratorio di zoonosi virali emergenti dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, per valutare i fattori di rischio per la trasmissione di virus dai pipistrelli ai suini, usando come caso studio i coronavirus in alcuni allevamenti dell’Italia settentrionale. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ConVErgence e ha visto la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, Università di Padova, Università di Bari, Università del Sussex (UK) e Coop. STERNA di Forlì.

“L’interfaccia fra animali selvatici, animali domestici ed esseri umani, rappresenta un confine molto labile dove possono emergere malattie infettive a carattere epidemico”, spiega Stefania Leopardi, veterinaria dirigente e supervisore della ricerca. “Sappiamo che gli allevamenti suini rappresentano possibili ‘hotspot’ per la diffusione e la comparsa di varianti ricombinanti potenzialmente pericolose per gli animali o l’uomo. Per questo motivo, l’identificazione di nuovi coronavirus è fondamentale per valutare il loro adattamento nel suino e nell’uomo, ma è altrettanto importante cercare di comprendere i fattori di rischio che possono favorire i fenomeni di spillover nelle specie animali.”

Indagini ecologiche, modellistica ambientale, analisi virologiche

Per la ricerca è stato utilizzato un approccio multidisciplinare ispirato al paradigma ‘One Health’, in cui sono state combinate indagini ecologiche, di modellistica ambientale e di virologia molecolare. Una prima fase ha riguardato il monitoraggio bioacustico in 14 allevamenti suinicoli del Triveneto, mediante cui sono state identificate otto specie di pipistrelli negli allevamenti, con P. kuhlii, P. pipistrellus e H. savii come le più diffuse e attive.

L’analisi del paesaggio e delle strutture aziendali ha permesso di identificare i fattori che influenzano maggiormente l’attività dei pipistrelli. È emerso che gli allevamenti con strutture in grado di attrarre insetti registrano un’intensa attività dei pipistrelli, mentre l’habitat circostante incide in misura minore sulla ricchezza delle specie.

Parallelamente, le indagini virologiche hanno permesso di identificare tre nuove specie di CoV, rilevati in P. kuhlii e H. savii, di cui è stato possibile ottenere il sequenziamento completo del genoma. Fondamentale per questa fase l’analisi combinata di campioni raccolti su tre colonie di P. kuhli e di campioni di archivio provenienti da attività di sorveglianza della rabbia in popolazioni di animali selvatici, condotte negli anni dal Laboratorio.

Fra le specie di pipistrello più comuni, è stata osservata una circolazione attiva di CoV in P. kuhlii, anche in colonie situate all’interno delle aziende suinicole, con l’identificazione di due specie distinte di CoV in questi pipistrelli. I CoV sono stati rilevati durante tutta la stagione di attività dei pipistrelli, con picchi a maggio e ad agosto, e in alcuni casi sembrano essere condivisi tra specie diverse di pipistrelli (P. kuhlii e H. savii), aumentando ulteriormente il rischio di ricombinazione genetica.

Le analisi filogenetiche mostrano inoltre che i suini potrebbero essere esposti ad almeno otto specie distinte di CoV, dal momento che i CoV sono associati in modo specifico al proprio ospite.

Da una parte lo studio mette in evidenza come le aziende suinicole possono rappresentare delle oasi per la conservazione dei pipistrelli in ambienti rurali di agricoltura intensiva, dove la monotonia degli elementi ambientali sta inaridendo la biodiversità. In questi ambienti, i pipistrelli possono svolgere un servizio ecosistemico di controllo degli insetti dannosi, anche contribuendo alla riduzione dei pesticidi. Tuttavia, la circolazione dei pipistrelli è anche associata al rischio potenziale di esposizione ai virus che essi veicolano.

Un aspetto fondamentale rilevato dallo studio è la frequente assenza di barriere fisiche negli allevamenti, allestite per impedire il contatto tra i pipistrelli e i recinti dei suini, e un’applicazione disomogenea delle pratiche di biosicurezza. Rafforzare queste misure potrebbe mitigare il rischio di esposizione ai diversi CoV, e più in generale ai virus associati alla fauna selvatica, migliorando la convivenza tra l’uomo e gli animali domestici e selvatici.

 

Fonte: IZS Venezie




Nuovi strumenti per rilevare l’influenza aviare

L’influenza aviaria A (H5N1) è una malattia degli uccelli altamente contagiosa che ha già infettato milioni di uccelli e ora appare in alcuni mammiferi.

Si sta diffondendo rapidamente in tutto il mondo, portando a abbattimenti di massa di polli/galline negli allevamenti avicoli a causa della sua natura altamente contagiosa e mortale.

La preoccupazione per la diffusione di questo virus è legata al fatto che attraversare la barriera di specie e infettare i mammiferi, tra cui bovini, gatti e esseri umani. Sebbene non si sia in grado di diffondersi diffuso tra gli esseri umani, la sua capacità di infettare i mammiferi solleva problemi di salute pubblica e chiede un maggiore monitoraggio.

L’influenza aviaria ad alta patogenicità, nota anche come “aviaria” è senza dubbio quindi un problema sanitario a livello mondiale. La conoscenza della diffusione del virus e la sua rapida identificazione sono essenziali per controllare la malattia.

Oggi nuovi e accurati test possono rilevare il virus in modo molto specifico. Questi test sviluppati dal JRC (Joint Research Center) possono monitorare la diffusione del virus in varie tipologie di campioni, comprese le acque reflue.

Uno studio congiunto di vari enti a livello europeo ha sviluppato due saggi digitali RT-PCR, uno in grado di rilevare specificamente l’influenza ad alta patogenicità A (H5Nx) clade 2.3.4.4b, virus noti per la diffusione in tutto il mondo e il secondo in grado di rilevare una gamma più ampia di virus dell’influenza A, compresa l’influenza stagionale. Possono essere utilizzati separatamente o in combinazione come approccio diagnostico singolo (saggio duplex).

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




La prossima pandemia? Un nuovo studio identifica gli hotspot globali delle minacce zoonotiche

La prossima pandemia? Un nuovo studio identifica gli hotspot globali delle minacce zoonotiche

Il clima che cambia e l’impatto delle attività umane sulla natura e sull’ambiente aumentano il rischio di epidemie. Uno studio recente di JRC (Joint Research Center) mappa il rischio di epidemie in tutto il mondo e individua i territori più esposti e la loro capacità di rispondere. Lo studio che utilizza l’apprendimento automatico e i dati satellitari rivela che il 9,3% della superficie terrestre globale è ad alto, o molto alto, rischio di epidemia di malattie come Ebola, Zika e febbre emorragica Crimea-Congo, insieme ad altre cinque malattie elencate come priorità dall’OMS per il loro potenziale nel causare epidemie e pandemie.

L’immagine illustra con i colori le zone con più o meno alto rischio di essere punti partenza di epidemie.

Lo studio analizza anche i fattori che possono essere causa dell’emergere di malattie con caratteristiche epidemiche: l’aumento delle temperature, i livelli di precipitazioni annuali più elevati in alcune aree e i deficit idrici in altre, aumentano il rischio di epidemie; inoltre, i cambiamenti di uso del suolo, gli insediamenti umani in prossimità delle aree boschive, l’aumento della popolazione e della densità del bestiame e la perdita di biodiversità – tutti contribuiscono a questo rischio.

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




La malattia X fa paura: servono risposte immediate dall’Europa e dal mondo

Servizi veterinari in prima linea per la prevenzione pandemica. Un avamposto che, però, deve essere sostenuto da scelte politiche orientate verso la realizzazione della One health.

“Non è solo un concetto, sta diventando un principio che unisce tutti i servizi sanitari a livello globale. Ma i buoni principi non sono sufficienti se non vengono traslati in azioni concrete soprattutto quando emergono i primi segni di una malattia”, dichiara Emmanuelle Soubeyran, direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la salute animale (Woah).

La pandemia Covid-19, al riguardo, ha rappresentato uno stress test che ha mostrato dolorosi gap nella sorveglianza dei servizi veterinari, nei sistemi sanitari pubblici e nella coordinazione multi-settoriale. Questi gap, sottolinea Soubeyran, sono ancora presenti.

La one health non rimanga (soltanto) sulla carta

È necessario che la politica si faccia carico del problema: un invito emerso con forza nel corso della conferenza “Preventing Disease X” che si è tenuta a Bruxelles a luglio. “Dobbiamo far crescere il profilo della animal health – dice la direttrice della Woah – e dobbiamo convincere i decisori politici e privati che è molto importante investire in questo settore.

La salute animale non riguarda solo gli animali. Ha un impatto sul commercio, sulla sicurezza alimentare, sulla salute pubblica, sulla resistenza agli antimicrobici e impatta anche sull’ambiente e sulla biodiversità. Purtroppo troppo spesso le conversazioni sono limitate ai ministri della salute in assenza dei ministri dell’agricoltura, dell’economia o della finanza che, invece, dovrebbero essere coinvolti”.

Senza il loro engagement, l’agenda One health rischia di restringersi al concetto One human health. “Abbiamo perso un elefante nella stanza”, aggiunge Roxane Feller, segretario generale di Animal health Europe. “Noi continuiamo a pensare che persista una mancanza di comprensione dell’intrinseca correlazione tra la salute umana, animale e ambientale”.

Qualcosa comunque si sta muovendo nei palazzi europei, secondo la dirigente che cita al riguardo un report del Parlamento sulla sostenibilità degli allevamenti e un dibattito che si è svolto presso il Concilio europeo sulle vaccinazioni e il controllo delle malattie. Ma forse il problema non è tanto il grado di consapevolezza, quanto (come emerso durante il convegno) la frustrazione degli addetti ai lavori al cospetto della frammentazione del sistema.

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Fonte: aboutpharma.com




Sostenibilità: con climate change più infezioni West Nile

Il climate change porterà a una crescita delle infezioni da virus West Nile ed è necessario che i sistemi sanitari si preparino rapidamente a questa prospettiva. E’ quanto emerge da un approfondimento clinico pubblicato sull’European Journal of Internal Medicine. “Il cambiamento climatico – afferma l’autore principale Emanuele Durante-Mangoni, MD, PhD, Università della Campania L. Vanvitelli e AORN Ospedali dei Colli –, sta influenzando la nostra salute consentendo agli insetti portatori di malattie di diffondersi in nuove aree. Stiamo assistendo a un numero crescente di malattie come l’infezione da virus West Nile in luoghi in cui prima non si riscontravano, inclusa l’Europa. Poiché il numero di casi di virus West Nile è in aumento, è ora più importante che mai aumentare le nostre conoscenze per riconoscere, diagnosticare e trattare questa malattia emergente”.

Il virus West Nile è un virus trasmesso dalle zanzare che può attaccare il sistema nervoso e il cervello. È stato identificato per la prima volta nel 1937 a ovest del fiume Nilo, nell’attuale Uganda. Si tratta di un virus altamente variabile per il quale non è attualmente disponibile un vaccino umano. Tuttavia, l’identificazione della malattia può facilitare l’individuazione delle aree di diffusione in cui è possibile effettuare interventi mirati, in particolare l’eradicazione delle zanzare, nel tentativo di evitare un’ulteriore diffusione e la morbilità correlata. Durante -Mangoni spiega: “L’insetto si infetta dopo aver punto uccelli portatori del virus. La stagionalità è anche legata ai modelli di migrazione degli uccelli, un altro fenomeno naturale influenzato dai cambiamenti climatici. Dopo l’infezione da virus West Nile, la maggior parte degli esseri umani non mostra sintomi (80 per cento) o sviluppa sintomi lievi di una malattia virale, tipicamente caratterizzata dall’insorgenza improvvisa di febbre. È anche associata a mal di testa, malessere, anoressia, mialgia, dolore agli occhi, diarrea e vomito.

In alcuni individui a rischio, come gli anziani, le persone fragili o con altri problemi di salute, la malattia può progredire in una forma più grave, che spesso coinvolge il cervello, e può avere conseguenze gravi o addirittura fatali”. L’obiettivo degli autori è quello di aiutare a preparare la comunità scientifica ad affrontare il previsto aumento dell’incidenza dei casi di virus West Nile, delineando la virologia, la presentazione clinica, l’approccio diagnostico e l’attuale gestione suggerita per questa malattia emergente. Consigliano di concentrarsi su: 1) sviluppo di un vaccino per uso umano in grado di proteggere i soggetti a più alto rischio di complicazioni e/o progressione della malattia; 2) Cercare di identificare un agente antivirale in grado di bloccare il virus in una fase iniziale, prima che si verifichi un coinvolgimento neurologico. “I medici devono acquisire le competenze necessarie per identificare la malattia e formulare una diagnosi rapida e accurata, nonché essere a conoscenza delle aree endemiche/epidemiche di diffusione del virus West Nile, per accelerare il percorso diagnostico nei pazienti fragili e immunocompromessi che rimangono a rischio di un esito infausto”, sottolinea Durante-Mangoni. “La strategia definitiva sarebbe la vaccinazione dei soggetti a rischio. Nonostante gli sforzi, nessun vaccino ha ancora raggiunto una fase avanzata di sviluppo clinico, ma c’è speranza per il futuro”.

Fonte: AGI




#NoBirdFlu – Stop all’influenza aviaria: una comunicazione chiara per una migliore biosicurezza

L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e la Commissione europea hanno collaborato per pubblicare un nuovo pacchetto di strumenti di comunicazione, concepito per aiutare gli agricoltori e tutti coloro che entrano in contatto con le aziende agricole a proteggere il pollame, gli altri animali e le persone dall’influenza aviaria.

Il pacchetto di strumenti #NoBirdFlu, reso disponibile in concomitanza con l’inizio della nuova stagione migratoria in Europa, mira a sensibilizzare all’importanza di attuare semplici misure di biosicurezza, in particolare nelle aziende agricole di piccole e medie dimensioni. Adottando tali misure, gli agricoltori contribuiranno a proteggere la salute pubblica e quella degli animali, a garantire la stabilità della produzione alimentare e a ridurre al minimo le perturbazioni degli scambi commerciali.

«L’avvio di #NoBirdFlu evidenzia come la preparazione di oggi possa prevenire le crisi di domani», ha dichiarato Nikolaus Kriz, direttore esecutivo dell’EFSA. «Lavorando insieme possiamo proteggere i nostri animali, garantire la sicurezza dei sistemi alimentari e rafforzare la resilienza contro le future minacce per la salute. L’EFSA è impegnata a fornire la consulenza scientifica necessaria per tenere l’influenza aviaria lontana dalle aziende agricole europee».

«Con l’avvicinarsi dell’inverno e l’aumento del rischio di influenza aviaria, ognuno deve fare la propria parte per prevenire nuovi focolai. Semplici precauzioni da parte di agricoltori, operai e piccoli allevatori, nonché di veterinari e visitatori delle aziende agricole, possono fare la differenza nel limitare la diffusione di questa grave malattia. Questa campagna fornisce indicazioni pratiche per aiutare a proteggere gli allevamenti e salvaguardare il settore avicolo europeo», ha dichiarato Claire Bury, direttrice generale aggiunta per la Sostenibilità alimentare presso la Commissione europea.

Il pacchetto di strumenti comprende diversi materiali di comunicazione, tradotti in tutte le lingue dell’UE, utili agli agricoltori per prevenire l’insorgere e la diffusione dell’influenza aviaria nelle loro aziende agricole.

Caratteristiche principali

  • Infografica dettagliata contenente indicazioni in materia di igiene, dispositivi di protezione e gestione degli spostamenti per agricoltori, animali, attrezzi, operai e visitatori.
  • Poster recanti promemoria visivi delle azioni chiave da integrare nelle routine quotidiane.
  • Contenuti pronti per l’uso (adesivi, post) destinati ai social media per raggiungere le comunità agricole e non solo.

Perché proprio ora?

I focolai d’influenza aviaria possono devastare le popolazioni avicole, perturbare le catene di approvvigionamento e nuocere ai mezzi di sussistenza degli agricoltori, oltre ad avere un impatto sulla salute pubblica. I casi d’influenza aviaria in Europa aumentano generalmente durante i mesi invernali, quando i volatili migratori viaggiano e si raggruppano nel continente, e le misure proattive sono fondamentali per evitare che il virus giunga o si diffonda nelle aziende agricole. Ogni persona che interagisce con un’azienda agricola, sia essa un operaio, un fornitore o un visitatore, contribuisce a garantire la sicurezza dei capi avicoli.

Il pacchetto di strumenti è il frutto di un’azione congiunta con la Commissione europea, che rispecchia l’impegno comune a prevenire i focolai prima che si manifestino e ad assicurare la sostenibilità del settore avicolo dell’UE.

Fasi successive

La Commissione europea ha chiesto all’EFSA di condurre ricerche sulla percezione del rischio che hanno gli agricoltori, i veterinari e gli operai agricoli in Europa in relazione all’influenza aviaria, al fine di comprendere come meglio adattare le future campagne di sensibilizzazione. Questi dati serviranno da base per un’iniziativa di più ampio respiro al livello dell’UE nel 2026, volta a rafforzare i piani di preparazione contro l’influenza aviaria e a contribuire a ridurre il rischio di future pandemie.

Come partecipare

Sostieni la diffusione di queste risorse! Condividendo messaggi chiari e coerenti sul miglioramento della biosicurezza nelle aziende agricole, i portatori di interesse e i partner negli Stati membri e oltre questi territori possono svolgere un ruolo cruciale nel fermare la diffusione dell’influenza aviaria in Europa. Scarica subito il pacchetto di strumenti e unisciti a noi dicendo #NoBirdFlu.

 Fonte: EFSA



Influenza aviaria, il ruolo delle specie “ponte” nella trasmissione del virus dai selvatici al pollame

AvicoliAironi, garzette, gallinelle d’acqua e fagiani comuni potrebbero rappresentare anelli importanti nella catena di trasmissione del virus dell’influenza aviaria dagli uccelli selvatici al pollame allevato nel Nord Italia, svolgendo il ruolo di “ospiti ponte” tra le aree umide frequentate dalle specie in cui il virus si mantiene (come germani reali e gabbiani) e gli allevamenti avicoli.

È quanto emerge da uno studio di eco-epidemiologia realizzato dal Laboratorio di epidemiologia e analisi del rischio in sanità pubblica dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), pubblicato di recente sulla rivista scientifica Transboundary and Emerging Disease. Lo studio ha confrontato la distribuzione geografica dei focolai in allevamenti avicoli registrati nel Nord Italia (Emilia Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Veneto) durante l’epidemia di influenza aviaria del 2017/2018, con quella di 40 specie di uccelli selvatici presenti sullo stesso territorio, identificate da una ricerca svolta nel 2019 tramite fototrappole installate nei pressi di 10 allevamenti.

Uno studio IZSVe ha confrontato la distribuzione geografica dei focolai in allevamenti avicoli registrati nel Nord Italia durante l’epidemia di influenza aviaria del 2017/2018, con quella di 40 specie di uccelli selvatici presenti sullo stesso territorio. Il cluster comprendente la maggior parte delle specie osservate – appartenenti alla famiglia degli ardeidi (aironi e garzette), assieme alla gallinella d’acqua e al fagiano comune – mostra una maggiore associazione con la distribuzione dei focolai domestici. Queste specie potrebbero rappresentare un “ponte” tra le aree umide frequentate dalle specie in cui il virus si mantiene (come germani reali e gabbiani) e gli allevamenti avicoli.

Basandosi sui dati di rilevamento relativi alle specie e al territorio considerati disponibili nella libreria online eBird, oltre che su ulteriori variabili ambientali e bioclimatiche, sono stati sviluppati dei modelli di distribuzione spaziale per ciascuna specie. Data la numerosità delle specie, queste sono state raggruppate in 7 cluster diversi in base alla somiglianza della loro distribuzione, che si allineava anche con la loro affinità ecologica e tassonomica. L’associazione tra la distribuzione dei focolai e quella delle specie selvatiche è stata quindi analizzata tramite un approccio che ha combinato diverse metodiche, includendo sia tecniche statistiche classiche sia approcci di machine learning.

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Fonte: IZS Venezie




Circa il 9% della superficie terrestre è ad elevato rischio di focolai zoonotici

Durante la pandemia da Covid-19 abbiamo imparato a familiarizzare con il concetto di “zoonosi”, malattie che possono essere trasmesse dagli animali agli esseri umani attraverso il famoso “salto di specie”. Un fenomeno che ha molto a che fare con il cambiamento climatico e con le attività antropiche, che in modi diversi favoriscono il contatto fra specie selvatiche e specie domestiche o da allevamento, e quindi con l’essere umano. Nel corso di uno studio pubblicato su Science Advances, un gruppo di ricercatrici e ricercatori ha analizzato l’influenza che fattori climatici, ambientali e relativi alla densità di popolazione hanno avuto in passato sullo sviluppo di focolai zoonotici a livello globale.

Fonte: repubblica.it



West Nile, l’ennesimo esempio di una narrazione omissiva e di parte

Da patologo veterinario oltre che da docente universitario che ha dedicato 35 anni della propria vita professionale allo studio delle malattie infettive, con particolare riferimento a quelle trasmissibili dagli animali all’uomo – alias zoonosi -, sono stato molto colpito dalla narrazione mediatica che si sta svolgendo in questi giorni a seguito del decesso, in provincia di Latina, di una donna ultraottantenne affetta da “West Nile”. Stiamo parlando di una malattia sostenuta da un flavivirus neurotropo trasmesso principalmente da zanzare del genere Culex, la cui sempre più diffusa presenza a latitudini via via più settentrionali rappresenterebbe una diretta conseguenza del riscaldamento globale. E’ bene chiarire, al riguardo, che le zanzare virus-infette costituirebbero una piccolissima frazione di quelle presenti nell’ambiente (1 su circa 30.000) ed è pure bene precisare che la West Nile e’ una zoonosi, il cui agente causale può anche essere trasmesso sia per via materno-fetale sia con il latte materno. E’ bene sottolineare, infine, che il virus della West Nile, caratterizzato dal piu’ ampio spettro d’ospite finora descritto in natura, sarebbe capace d’infettare centinaia di vertebrati domestici e selvatici, ivi compresi mammiferi, uccelli, rettili ed anfibi.

A fronte di tutto ciò e come già avvenuto per la pandemia da CoViD-19, la narrazione mediatica della West Nile e’ stata ancora una volta affidata ai medici, senza il benché minimo coinvolgimento dei colleghi veterinari e, nondimeno, per buona pace della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Errare humanum est perseverare autem diabolicum!

Giovanni Di Guardo

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

Un contributo del Prof. Di Guardo sull’argomento è stato pubblicato sulla prestigiosa Rivista Nature (vol 645, 2 settembre 2025)




Influenza aviaria: l’EFSA analizza la situazione negli USA e individua le possibili vie di diffusione in Europa

La migrazione stagionale degli uccelli selvatici e l’importazione di alcuni prodotti statunitensi, come quelli contenenti latte crudo, potrebbero costituire potenziali vie di introduzione in Europa del genotipo dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) che attualmente colpisce le vacche da latte statunitensi, secondo un nuovo rapporto pubblicato dall’EFSA. Finora questo tipo di virus non è stato segnalato in nessun altro Paese oltre agli Stati Uniti.

Gli scienziati dell’EFSA sottolineano che i principali punti di sosta in Europa dove si concentrano grandi popolazioni di uccelli come l’Islanda, la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Scandinavia occidentale e le grandi zone umide come il Mare dei  Wadden sulle coste olandesi, danesi e tedesche, sarebbero luoghi utili per l’individuazione precoce del virus durante la migrazione stagionale degli uccelli selvatici.

Il rapporto affronta anche la possibilità che il virus venga introdotto in Europa attraverso scambi commerciali, concludendo che l’importazione di prodotti a base di latte crudo provenienti dalle zone colpite degli Stati Uniti non può essere completamente esclusa, il che potrebbe quindi costituire una possibile via d’ingresso. Anche l’importazione di vacche da latte e di carne bovina potrebbe essere una potenziale via di introduzione del virus. Tuttavia il virus è stato raramente rilevato nella carne, le importazioni di animali sono molto limitate e sono in vigore norme commerciali molto severe per la carne e gli animali vivi che entrano nell’UE.

Il rapporto dell’EFSA fornisce anche una panoramica della situazione negli Stati Uniti, dove tra marzo 2024 e maggio 2025 sono stati colpiti 981 allevamenti da latte in 16 Stati. Il rapporto, che è stato esaminato dalle autorità statunitensi, sottolinea che i movimenti del bestiame, l’insufficiente biosicurezza e la condivisione di attrezzature agricole hanno contribuito alla diffusione del virus.

Entro la fine dell’anno l’EFSA valuterà il potenziale impatto dell’ingresso di questo genotipo HPAI in Europa e raccomanderà misure per prevenirne la diffusione.