Covid: scoperte le specie animali vettori del Sars-CoV-2

coronavirusIdentificate le specie animali che probabilmente sono servite da ospiti intermedi per il Sars-CoV-2, il virus responsabile della pandemia Covid-19. Queste specie erano presenti alla fine del 2019 nel mercato all’ingrosso di Huanan a Wuhan, in Cina, l’epicentro della pandemia. A rivelarlo uno studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale guidato da scienziati del Cnrs, dell’Università dell’Arizona e dello Scripps Research in California, pubblicato sulla rivista Cell. Analizzando le sequenze genetiche pubbliche di campioni raccolti poco dopo la chiusura del mercato il primo gennaio 2020, gli scienziati hanno dimostrato che il materiale genetico del virus Sars-CoV-2 e di alcuni animali selvatici si trovano nello stesso angolo del mercato. Le specie selvatiche includono cani procioni e zibetti. Entrambe le specie hanno avuto un ruolo nell’epidemia di Sars del 2002 e 2004 e i cani procione si sono dimostrati in grado di trasmettere il SARS-CoV-2.

I dati, ottenuti mediante sequenziamento metatranscriptomico, sono tali da consentire l’identificazione di tutti gli organismi presenti in ciascun campione, come virus, batteri, piante, animali o esseri umani. Grazie a questi dati, i ricercatori hanno caratterizzato il genotipo delle principali specie animali presenti sul mercato e sono risaliti alla loro potenziale origine geografica. I ricercatori hanno anche analizzato i genomi virali dei primi pazienti Covid-19 per ricostruire la possibile evoluzione iniziale del virus e hanno dimostrato che la diversità genetica del virus presente nel mercato era rappresentativa della diversità genetica dei primi casi umani della pandemia. Questo risultato è anche coerente con un’emergenza legata al mercato. Si tratta di un ulteriore elemento in un ampio corpus di prove scientifiche che include, ad esempio, l’ubicazione dei primi casi vicino al mercato di Huanan. I risultati supportano quindi l’ipotesi che la pandemia sia legata al commercio di fauna selvatica nel mercato alla fine del 2019. Lo studio rivela anche la presenza di altri virus zoonotici nel mercato, indicando l’elevato rischio causato dalla vendita di animali vivi in città densamente popolate. L’identificazione delle attività umane che più probabilmente scatenano nuove pandemie è fondamentale per anticipare e prevenire meglio tali crisi.

Lo studio pubblicato sulla rivista Cell

Fonte: AGI

 




L’OMS lancia un quadro globale per comprendere le origini di agenti patogeni nuovi o riemergenti

Con il sostegno del Gruppo consultivo scientifico per le origini di nuovi agenti patogeni (SAGO), l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha pubblicato un quadro globale per aiutare gli Stati membri a indagare in modo completo sulle origini di agenti patogeni nuovi e riemergenti. Mentre ci sono una serie di strumenti disponibili per indagare sui focolai di malattie infettive, questo è il primo approccio unificato e strutturato per indagare sulle origini di un nuovo agente patogeno. Questo quadro mira a colmare tale lacuna fornendo una serie completa di indagini e studi scientifici. È la prima versione di una guida “come fare” che verrà aggiornata come e quando necessario, in base al feedback degli utenti.

Come dimostra ogni epidemia e pandemia, la salute umana e animale è minacciata dal crescente rischio di emergere di virus noti (come Ebola, Nipah, influenza aviaria, Lassa e vaiolo delle scimmie) e nuovi agenti patogeni con potenziale epidemico e pandemico (nuova influenza, MERS-CoV, SARS-CoV-1, SARS-CoV-2), la capacità di prevenire, e quando non possiamo prevenire, di contenere rapidamente i focolai e identificare le loro origini è scientificamente, moralmente e finanziariamente più critica che mai.

Il quadro globale dell’OMS delinea indagini e studi scientifici per sei elementi tecnici:

Prime indagini sui primi casi/cluster/focolai identificati per identificare potenziali fonti di esposizione, raccolta di campioni alla fonte, definire le caratteristiche del nuovo agente patogeno coinvolto per l’istituzione di saggi diagnostici.

Studi umani: per comprendere l’epidemiologia, compresa la presentazione clinica, le modalità di trasmissione, la patologia e la prima presenza nei campioni di sorveglianza sindromica.

Studi di interfaccia uomo/animale per identificare potenziali serbatoi animali, ospiti intermedi e zoonosi inverse.

Studi per identificare i vettori degli insetti o altre fonti di infezione, nonché la prima presenza nell’ambiente. …

Studi di genomica e filogenetica per identificare i ceppi precursori, le caratteristiche genomiche, l’evoluzione negli ospiti intermedi e negli esseri umani e la distribuzione spaziale nel tempo.

Studi di biosicurezza per determinare se una violazione nelle attività di laboratorio o di ricerca possa essere stata associata ai primi casi.

Leggi l’articolo completo

Fonte: isdenews.it




Investiamo sul futuro, i risultati dei primi due anni di INF-ACT

Una grande produzione scientifica, per numero e qualità, l’attrazione di moltissimi giovani, la creazione di una nuova generazione di ricercatori, la capacità di interagire tra gruppi con competenze diverse a livello locale e internazionale hanno portato la ricerca italiana sulle malattie infettive a un livello di assoluto rilievo tra i partner europei. Un risultato che, al di là dei tanti, singoli successi dei nodi di ricerca del Partenariato Esteso MUR-PNRR INF-ACT rende bene l’idea del positivo clima emersa dal meeting di Pavia, 10-12 settembre 2024.

I due anni di lavoro del Partenariato Esteso INF-ACT ha portato successi su molti fronti, frutto del lavoro di oltre 700 ricercatori impegnati su 5 macro-temi di ricerca e distribuiti in 25 enti e oltre 40 istituzioni partner ospitanti,

Un enorme gruppo di lavoro composito al cui interno figura anche la rete dei 10 Istituti Zooprofilattici Sperimentali, rappresentata dall’Associazione AIZS, che gioca un ruolo di rilievo nell’affrontare efficacemente la sfida creata da potenziali malattie infettive emergenti.

Il progetto INF-ACT è stato pensato per coprire l’intera “filiera” della ricerca in ambito sanitario dedicata alle possibili epidemie emergenti e in questi primi due anni la ricerca degli IZS si è concentrata su alcuni nodi di ricerca.

Leggi l’articolo completo

Fonte: IZS Venezie




Scoperto virus trasmesso da zecche che attacca cervello

Per la prima volta è stato scoperto nell’uomo un nuovo virus trasmesso dalle zecche che può scatenare infezioni cerebrali mortali. Come riportato sul New England Journal of Medic, si ritiene che l’uomo non identificato, proveniente dalla Cina, sia stato infettato dopo essere stato morso dalle zecche durante la visita a un parco in Mongolia. Diffusa dalle zecche e dagli animali da allevamento, l’infezione potenzialmente fatale si aggiunge a una lunga serie di malattie trasmesse da piccoli parassiti, come la malattia di Lyme e la malaria. L’infezione è stata individuata per la prima volta in un paziente ospedaliero di 61 anni, in cura a Jinzhou nel 2019. Ma i medici hanno reso noto il rapporto solo questo mese.

Diffusa dalle zecche e dagli animali da allevamento, l’infezione potenzialmente mortale si aggiunge a una lunga serie di malattie trasmesse da piccoli parassiti, come la malattia di Lyme e la malaria.

I sintomi riportati dal paziente, che includevano febbre, mal di testa, vomito, scarso appetito e linfonodi ingrossati, si sono sviluppati cinque giorni dopo la visita e gli sono stati prescritti antibiotici. Solo quando i sintomi non si sono attenuati, i medici hanno capito che l’uomo era affetto da un’infezione virale piuttosto che batterica. Gli esami del sangue hanno quindi identificato un orthonairovirus precedentemente sconosciuto, un gruppo di virus correlati, molti dei quali sono trasmessi dalle zecche. La febbre emorragica di Crimea-Congo, CCHF, uno degli orthonairovirus più noti, può rivelarsi fatale fino al 40% dei casi. Le persone si infettano dopo il contatto con il sangue o i tessuti del bestiame infetto. Può anche diffondersi tra gli esseri umani attraverso i fluidi corporei o tra i pazienti degli ospedali se le attrezzature mediche non sono adeguatamente sterilizzate. In seguito a questa scoperta, i ricercatori hanno raccolto circa 14.600 zecche in tutta la Cina settentrionale e hanno scoperto che cinque diverse specie di zecche potevano trasportare il virus. Ma, la zecca Haemaphysalis concinna era la più comune.

Dopo aver analizzato i pazienti di un ospedale che avevano sviluppato una febbre simile a quella del sessantunenne non identificato, entro un mese dal morso della zecca, hanno scoperto che 20 erano positivi al virus. Le persone infettate dal WELV soffrono soprattutto di vertigini, mal di testa, mal di schiena, nausea e diarrea, ma i test hanno anche dimostrato che il virus può causare danni ai tessuti e problemi di coagulazione del sangue. Un paziente infetto da WELV è entrato in coma e ha mostrato un alto livello di globuli bianchi intorno al cervello e al midollo spinale. Tuttavia, secondo i ricercatori, tutti i pazienti si sono ripresi dopo il trattamento e sono stati dimessi entro quattro o 15 giorni. Esperimenti di laboratorio sui topi hanno poi dimostrato che il WELV può causare infezioni gravi, spesso fatali, che colpiscono più organi, tra cui il cervello e il sistema nervoso. Ciò suggerisce che, sebbene il virus possa essere lieve in alcuni casi, potrebbe causare problemi di salute più gravi nei pazienti più vulnerabili. “Nel complesso, questi dati suggeriscono che un orthonairovirus di recente scoperta, il WELV, è patogeno per gli esseri umani e circola tra gli esseri umani, le zecche e vari animali nel nord-est della Cina”, hanno dichiarato i ricercatori. E hanno suggerito. “Migliorare la sorveglianza e l’individuazione degli orthonairovirus emergenti consentirà di comprendere meglio l’effetto di questi virus sulla salute umana”.

Lo studio

Fonte: AGI

 




Le nuove, intriganti traiettorie di SARS-CoV-2 nel mondo animale

E’ di poche settimane fa la notizia relativa ad un ulteriore ampliamento del già ampio spettro d’ospite posseduto dal betacoronavirus SARS-CoV-2, il famigerato agente responsabile della pandemia da CoViD-19.

Nello specifico, ben 6 nuove specie di mammiferi selvatici (opossum, procione, marmotta, topo cervo, silvilago orientale e pipistrello rosso) si sono aggiunte all’elenco di quelle, sia domestiche sia selvatiche, già dichiarate suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, mentre una sin qui inedita mutazione sarebbe stata descritta a carico del gene codificante per la “Spike (S) protein” – grazie alla quale si realizza l’interazione del virus con il recettore ACE2 posto sulla superficie delle cellule-ospiti – nell’opossum, analogamente a quanto avvenuto verso la fine del 2020 nei visoni degli allevamenti danesi e olandesi per il ceppo virale denominato “Cluster 5”.

E come non citare, in proposito, il ben noto caso dei cervi a coda bianca (Odocoileus virginianus) statunitensi nella cui popolazione il virus, previamente acquisito da Homo sapiens sapiens (c.d. “spillover“), si sarebbe diffuso in lungo e in largo per “ritornare” successivamente all’uomo (c.d. “spillback” o “zoonosi inversa”) in forma mutata, come già accaduto nei visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi?

A fronte dell’elevato e progressivamente crescente numero di specie suscettibili nei confronti dell’infezione dal SARS-CoV-2, che a tutt’oggi supererebbe le 50 unità, ciò che maggiormente preoccupa (o, per meglio dire, ci dovrebbe preoccupare) è la distanza filogenetica esistente fra le stesse, che in una normale dinamica d’interazione ospite-parassita (ospite-virus, nella fattispecie) costituisce un fondamentale determinante biologico e prerequisito rispetto alla cosiddetta “barriera di specie”.

Quest’ultima, nel caso del betacoronavirus responsabile della CoViD-19, sarebbe definita dal livello di omologia esistente fra il recettore ACE2 umano e quello della specie animale di volta in volta considerata, con particolare riferimento alla regione/sequenza del succitato recettore direttamente interagente con il “receptor-binding domain” (RBD) situato all’interno della (glico)proteina S del virus.

Evidentemente, nello specifico caso di SARS-CoV-2, questa barriera di specie risulterebbe oltremodo “permeabile”, così da consentire il trasferimento dell’agente virale a numerose specie animali (anche) filogeneticamente distanti fra loro, una situazione quest’ultima che risulterebbe esacerbata dal progressivo quanto persistente emergere di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più diffusive e contagiose (vedi, a puro titolo esemplificativo, quelle più recenti denominate “FLiRT” quali JN.1, KP.2, KP.3 e LB.1).

In un siffatto contesto, va da sè che il rischio relativo all’emergere di nuove varianti possa risultare sensibilmente accresciuto dal passaggio del virus a nuove specie animali, soprattutto in ambito selvatico – ove le dinamiche evolutive del rapporto ospite-parassita risulterebbero oggettivamente più difficili da controllare -, parallelamente a quanto sta avvenendo anche nel caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1), che in virtù dei recenti quanto numerosi “salti di specie” dallo stesso operati potrebbe acquisire la capacità (sin qui non ancora dimostrata, per nostra fortuna) di diffondersi in maniera efficace da uomo a uomo.

A tal proposito, come ben si sa, più un agente virale replica all’interno delle cellule di una determinata specie sensibile nei confronti dello stesso, maggiore diviene la probabilità che si realizzino, di pari passo, eventi mutazionali a carico del proprio genoma, con la conseguente comparsa di varianti più diffusive e contagiose di quelle precedenti.

Ciò descrive con esattezza quel che è accaduto, sta tuttora accadendo e, con ogni probabilità, continuerà ad accadere nel caso di SARS-CoV-2, un betacoronavirus il cui genoma consta di circa 30.000 nucleotidi, con una frequenza di mutazioni (sia “silenti” o “sinonime” che “non silenti” o “non sinonime”) pari all’incirca ad una ogni 10.000 basi azotate coinvolte in ciascun ciclo replicativo virale.

In ultima analisi, la notevole “plasticità’ di SARS-CoV-2, che ha già consentito e continua a permettere al virus di trasferirsi ad un così elevato e crescente numero di specie animali domestiche e selvatiche, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, costituirebbe a mio avviso un ulteriore elemento a favore dell’origine naturale di SARS-CoV-2, visto e considerato che un siffatto comportamento mal si concilierebbe in termini di plausibilita’ biologica con quello di un agente creato artificialmente in laboratorio.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto, ancora una volta (e mai abbastanza, comunque!), la fondamentale rilevanza del concetto/principio della One Health – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – non soltanto nella complessa ed articolata gestione eco-epidemiologica dell’infezione da SARS-CoV-2 – così come di quella da virus dell’influenza aviaria A(H5N1) -, ma in generale di tutte le c.d. “malattie infettive emergenti”, il 70% delle quali, è bene ricordarlo, riconoscono la loro origine, comprovata o sospetta che sia, in uno o più serbatoi animali.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Svelata complessità catene di trasmissione zoonotica

zoonosiLe zoonosi, che ogni anno influenzano la salute di oltre due miliardi di persone in tutto il mondo, sono associate a una rete complessa di interazioni di trasmissione, che coinvolgono vari attori. A descriverle nel dettaglio sulla rivista Nature Communications gli scienziati del Complexity Science Hub e dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna.

Il team, guidato da Amélie Desvars-Larrive, ha introdotto il concetto di “rete zoonotica” per rappresentare l’insieme delle relazioni tra agenti zoonotici, i loro ospiti, vettori, fonti alimentari e ambiente.

“Le malattie zoonotiche – spiega Desvars-Larrive – possono essere trasmesse direttamente o indirettamente tra gli animali e l’uomo, e rappresentano pertanto un problema significativo di salute pubblica. Il nostro lavoro evidenzia l’importanza di un approccio olistico per comprendere e gestire i rischi da esse derivanti”.

Il contagio tra uomo e animali può avvenire tramite contatto diretto con saliva, sangue, urina o persino feci di animali infetti. Interazioni a rischio possono riguardare, ad esempio, morsi, graffi e persino contatti cutanei (in caso di dermatiti e funghi della pelle). La trasmissione indiretta può anche avvenire tramite morsi di vettori artropodi, come nel caso del virus West Nile e dell’encefalite trasmessa da zecche, o anche oggetti e superfici contaminati.

“Le malattie zoonotiche sono spesso discusse in termini di interazioni ospite-patogeno – osserva Anja Joachim, collega e coautrice di Desvars-Larrive – ma il quadro è molto più complesso. Per colmare queste lacune abbiamo sviluppato un metodo in grado di indagare le interfacce in cui avviene lo scambio di patogeni zoonotici circolanti”.

Gli autori hanno condotto una ricerca sistematica della letteratura scientifica riguardante tutte le interazioni documentate tra fonti zoonotiche e patogeni avvenute in Austria tra il 1975 e il 2022. La rete zoonotica risultante è stata elaborata in una dashboard, che ha permesso la visualizzazione di sei distinte comunità di condivisione di agenti zoonotici per quanto riguarda l’Austria: esseri umani, specie domestiche (cani, gatti, bovini, ovini e suini) e animali che si sono adattati agli ambienti umani, come i topolini. Queste linee sembravano influenzate da agenti infettivi altamente connessi, dalla vicinanza agli esseri umani e dalle attività umane. I risultati evidenziano poi il ruolo che alcuni animali, come gli artropodi, possono svolgere nel collegare le comunità ospitanti.

“Conoscere gli attori della rete più influenti – commenta Desvars-Larrive – ci permette di ottimizzare i programmi di sorveglianza delle malattie zoonotiche”. Utilizzando un approccio quantitativo basato sul concetto One Health e su strutture specifiche nella rete, la ricerca conferma che, in Austria, è più probabile che lo spillover zoonotico si verifichi nelle interfacce uomo-bestiame e uomo-cibo.

“Mangiare alimenti contaminati – conclude Desvars-Larrive – sembra associato al rischio maggiore di infezione per agenti comuni come Listeria, Salmonella ed Escherichia. La nostra mappa interattiva potrebbe suscitare curiosità anche tra i non addetti ai lavori e sensibilizzare così le persone sull’importanza della prevenzione. Entriamo a contatto con tanti innumerevoli agenti patogeni nel corso della nostra vita, ma solo alcuni possono provocare malattie. Eppure ci sono delle semplici accortezze che possono ridurre il rischio di contaminazione, come pulire i coltelli quando si maneggiano gli alimenti crudi”.

Leggi lo studio in originale

Fonte: AGI




Aviaria: può essere trasmessa da mucche anche a topi e furetti

influenza aviariaIl virus altamente patogeno dell’influenza aviaria H5N1, che negli Stati Uniti ha raggiunto anche la popolazione bovina, si trasmette nei mammiferi attraverso il latte vaccino, infettando i topi, che, per esposizione, possono passarlo ai furetti. Questo, in estrema sintesi, è quanto emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati dell’Università del Wisconsin-Madison.

Il team, guidato da Yoshihiro Kawaoka, ha caratterizzato l’agente patogeno dell’influenza H5N1, rivelando che il virus viaggia verso le ghiandole mammarie degli animali infetti.

Nella primavera 2024, negli USA, è stato documentato il primo focolaio di influenza aviaria in un allevamento di bovini da latte, seguito da casi in altri mammiferi, compreso l’uomo. Si ipotizza che l’infezione della ghiandola mammaria e le attrezzature di mungitura contaminate siano coinvolte nella trasmissione tra mucche. Sono stati anche rilevati virus nel latte vaccino, ma le caratteristiche di base dell’H5N1 bovino sono piuttosto sconosciute.

Per colmare le lacune esistenti, gli autori hanno caratterizzato il materiale genetico di un virus isolato dal latte di una mucca infetta nel New Mexico.

I ricercatori hanno osservato il virus replicarsi e provocare la malattia nei topi e nei furetti. Gli scienziati hanno dimostrato che il virus si diffonde sistematicamente, anche alle ghiandole mammarie di entrambi gli animali, una caratteristica precedentemente trascurata dell’infezione dei mammiferi con questi virus aviari.

Il gruppo di ricerca ha inoltre scoperto che l’H5N1 bovino si lega sia ai recettori dell’acido sialico di tipo aviario che a quelli di tipo umano. Questa specificità di legame del recettore duale non è stata osservata per i virus H5N1 circolanti più vecchi.

Tra furetti, invece, la trasmissione poteva avvenire tramite aerosol e goccioline respiratorie, anche se la carica virale sembrava più bassa in questi casi.

Questo lavoro, concludono gli scienziati, rivela nuove caratteristiche del virus H5N1, che potrebbero essere particolarmente utili nella definizione di strategie di contenimento di potenziali focolai di infezione.




IIZZSS, influenza aviaria: allo studio test specifici per i bovini e il latte crudo

A seguito della diffusione del virus influenzale H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) negli allevamenti degli Stati Uniti, gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali delle Venezie (IZSVe) e della Lombardia ed Emilia-Romagna (IZSLER), in accordo con il Ministero della Salute, si sono resi disponibili ad organizzare test sperimentali su bovini e latte crudo allo scopo di produrre dati scientifici utili ad una valutazione del rischio e per una precisa diagnosi, qualora dovessero presentarsi eventuali riscontri sul territorio nazionale di casi analoghi a quelli statunitensi.

 

Questi studi mirano ad ampliare il quadro delle conoscenze scientifiche attualmente a disposizione e a fornire una risposta efficace e tempestiva in caso di rischio sanitario, attraverso metodi di laboratorio validati. Allo stato attuale non vi è alcuna evidenza di infezione, neanche pregressa, nella popolazione bovina in Europa. La circolazione del virus H5N1 nelle vacche da latte ad oggi è stata segnalata solo negli Stati Uniti.

Continua a leggere




Influenza aviaria: in calo in Europa ma si a sorveglianza in vista della prossima stagione influenzale

L’Europa ha registrato il più basso numero di casi di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) nel pollame e negli uccelli selvatici dal 2019/2020 e il rischio per la popolazione in genere rimane basso. Sono questi i principali esiti della più recente relazione sull’influenza aviaria elaborata dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e dal laboratorio di riferimento dell’Unione europea, sulla base dei dati notificati tra aprile e giugno 2024.

Il miglioramento della situazione in Europa può essere legato a diversi fattori e richiede ulteriori indagini ma tra i fattori determinanti potrebbero esservi l’immunità sviluppata dagli uccelli selvatici in seguito a una precedente infezione, la riduzione nel numero di alcune popolazioni di uccelli selvatici, la diminuzione delle contaminazioni ambientali e variazioni nella composizione dei genotipi virali.

Gli esperti hanno notato che il virus HPAI ha continuato a circolare tra gli uccelli selvatici in Europa per tutto il corso dell’anno, anche se con cifre ridotte, e hanno raccomandato di rafforzare la sorveglianza in vista della prossima stagione influenzale.

Leggi l’articolo

Fonte: EFSA




Zanzare, sono un reale pericolo per la salute dell’uomo? Rispondono quattro esperti dell’IZS di Teramo

Il 26 giugno 2024 è stato segnalato in Italia, nella provincia di Modena il primo caso autoctono della forma neuroinvasiva di West Nile, un evento che, tuttavia, non ha sorpreso gli esperti. “Non è la prima volta che in Italia si verificano casi di febbre del Nilo Occidentale (WNF) e della forma neuroinvasiva (WNND) durante il mese di giugno – spiega Federica Iapaolo, dirigente del Reparto Diagnostica e sorveglianza delle malattie esotiche IZSAM -.

Anche negli anni precedenti, durante le stagioni epidemiche del 2018 e del 2022, i primi casi di infezione nell’uomo erano stati segnalati a giugno, in quelle occasioni nel Veneto. È importante segnalare che in entrambe le circostanze, le stagioni sono state caratterizzate da un elevato numero di casi umani (618 nel 2018, con 42 decessi, e 588 nel 2022, con 37 decessi).  Lo scorso anno invece sono stati confermati 332 casi nell’uomo, il primo dei quali il 13 luglio 2023, con 27 decessi”. Con i cambiamenti climatici in corso, il quadro della situazione potrebbe ulteriormente peggiorare, di anno in anno. Per evitare che accada, abbiamo interpellato la Federazione Nazionale degli Ordini dei Veterinari Italiani. La FNOVI ha coinvolto quattro esperti del IZSAM che, intervistati da Sanità Informazione, partendo da una fotografia dello stato dell’arte, propongono possibili soluzioni da mettere in campo per invertire la rotta.

Leggi l’articolo

Fonte: sanitainformazione.it