Il ruolo dei piccioni nella diffusione dell’influenza aviaria: l’ultima scoperta

Negli spazi urbani di tutta Europa, i piccioni rappresentano una presenza onnipresente, spesso trascurata. Tuttavia, al di là del loro ruolo o delle problematiche logistiche che generano, questi uccelli si stanno rivelando attori inaspettati in una delle più preoccupanti questioni di sanità pubblica globale: la diffusione del virus dell’influenza aviaria.

 Sebbene non siano uccelli migratori e non mostrino sintomi clinici evidenti in caso di infezione, studi recenti hanno documentato in maniera sempre più chiara come i piccioni possano ospitare e trasportare diversi sottotipi di virus aviari fungendo da vettori silenziosi e da potenziali “vasi di mescolanza” genetica che possono giocare un ruolo non trascurabile nell’epidemiologia. La loro presenza ubiquitaria in ambienti urbani e la frequente interazione con altri animali e con l’uomo li rendono un possibile “anello di congiunzione” tra diverse specie ospiti. E la conferma della presenza del virus H5N1 ad alta patogenicità nei piccioni europei non è una buona notizia.

Il pregiudizio dell’immunità urbana

Nel 2006, nel pieno dell’emergenza H5N1, si diffuse rapidamente l’idea che i piccioni fossero “immuni” all’influenza aviaria. Articoli divulgativi, come quello pubblicato su Seed Magazine con il titolo The Invincible, Flu-Immune Pigeon, minimizzavano i rischi, rafforzati da alcune evidenze scientifiche dell’epoca. Tuttavia, lo scenario ha subito un cambiamento radicale. Il virus Hpai H5 ha evoluto nuovi cladi, con una più ampia gamma di ospiti e una maggiore capacità di adattamento interspecie. Uno studio pubblicato su Viruses in questi giorni ha rilevato la presenza di ben 658 ceppi di virus aviari nei piccioni, tra cui 71 appartenenti al sottotipo H5, tutti classificati come altamente patogeni.

Fonte: lastampa.it



IZSVe, Laboratorio di referenza europeo per l’Aviaria: in Italia situazione sotto controllo, criticità in Polonia e Ungheria

In Italia l’ultimo report relativo all’influenza aviaria segnalava, a partire da settembre 2024, 97 focolai tra gli uccelli selvatici, 56 per quanto riguarda il pollame domestico e 3 focolai tra i mammiferi. Negli ultimi mesi, da febbraio 2025, si è registrato un unico focolaio in un allevamento di polli in Piemonte, e 5 isolamenti in uccelli selvatici, tutti limitati al mese di febbraio.

Una situazione di fatto sotto controllo, frutto di un lavoro sinergico tra Ministeri, Istituti Zooprofilattici, autorità sanitarie competenti e comparto avicolo. Nel resto d’Europa le condizioni purtroppo non sono le stesse.

Sempre nel periodo ottobre 2024-marzo 2025, nel Vecchio Continente il totale dei focolai è salito a 1.500, di cui 934 tra gli uccelli selvatici e 566 tra gli allevamenti, in 34 Paesi diversi. Gli stati maggiormente colpiti sono Germania e Paesi Bassi, per i volatili selvatici, mentre Polonia e Ungheria per quanto riguarda gli allevamenti. Difficile anche la situazione negli Stati Uniti, dove la malattia si è diffusa anche tra i bovini con oltre un migliaio di focolai attivi. Qui il prezzo delle uova, per riflesso condizionato, è volato alle stelle.

“Queste situazioni di criticità – precisa Antonia Ricci, Direttrice Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie dove ha sede il Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria – sono sicuramente allarmanti e da tenere sotto stretto monitoraggio. Dimostrano come questa sia una malattia molto pericolosa per gli animali e che si diffonde con una rapidità enorme.”

“Se non si è pronti a mettere in atto misure di controllo e contenimento efficaci la malattia diventa ingovernabile. In Italia abbiamo – purtroppo – un’esperienza di molti anni in questo campo, che ci permette di intervenire prontamente, lavorando in collaborazione con il Ministero della Salute e le autorità regionali, e che ci ha fatto diventare un riferimento a livello internazionale, non solo per l’Europa ma anche per l’Organizzazione mondiale della salute animale (WOAH) e per la FAO. La prossima settimana un team di nostri esperti sarà proprio in Polonia per aiutare i colleghi polacchi a controllare la diffusione della malattia.”

“È fondamentale ricordare – continua Ricci – che non c’è nessun rischio di trasmissione del virus attraverso il consumo di carne e di uova. È un virus che può diventare potenzialmente pericoloso per l’uomo attraverso la trasmissione respiratoria ma ad oggi non abbiamo evidenza che questo salto di specie stia avvenendo.”

“In Italia opera un’industria avicola molto sviluppata, moderna e autosufficiente Nel nostro paese produciamo più carne di pollo di quanta ne viene consumata e dunque non c’è l’esigenza di importare. L’industria avicola nel corso del tempo ha saputo rispondere alle numerose sfide dal punto di vista sanitario, per esempio riducendo drasticamente l’uso di antibiotici, diventando dunque un modello anche per gli altri Paesi.”

“Su mandato del Ministero della Salute e assieme al comparto industriale, al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, agli Istituti Zooprofilattici e alle istituzioni sanitarie locali e regionali – conclude Ricci – stiamo lavorando a un piano strategico nazionale per il controllo dell’influenza aviaria che possa prevedere anche la vaccinazione come strumento di prevenzione, insieme a tutte le altre misure che abbiamo visto essere efficaci per il controllo della malattia.”

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Dengue e cambiamenti climatici

Un recente articolo pubblicato dal BMJ della giornalista freelance Kamala Thiagarajan offre un’analisi approfondita dell’impatto della dengue a livello globale, evidenziando il 2024 come un anno critico per questa malattia, aggravato dal record di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1).  La dengue, trasmessa dalle zanzare Aedes aegypti e Aedes albopictus, è una crescente minaccia sanitaria globale. Nel 2024 sono stati registrati oltre 12 milioni di casi e 8.000 decessi in 86 paesi (2). Un incremento che riflette l’intreccio tra cambiamento climatico, urbanizzazione e disuguaglianze socioeconomiche. Partendo dall’articolo di Thiagarajan, presentiamo un’analisi generale dell’impatto del clima sulla diffusione della dengue, come di altre malattie trasmesse da vettori, l’efficacia delle politiche di prevenzione e trattamento, e le implicazioni economiche e politiche che influenzano la gestione di queste minacce sanitarie nell’era del cambiamento climatico.

La diffusione globale della dengue: dati e tendenze

Negli ultimi decenni, le malattie trasmesse da zanzare hanno registrato un aumento significativo, spinto da cambiamenti climatici, urbanizzazione e mobilità umana. Il Lancet Countdown on Health and Climate Change del 2023 (3) evidenzia che il cambiamento climatico ha aumentato del 30% la diffusione della dengue negli ultimi vent’anni, con implicazioni simili per altre malattie come Zika, Chikungunya e malaria. Secondo il BMJ,  le Americhe hanno visto un incremento allarmante dei casi di dengue: 9,7 milioni di infezioni nel 2024, oltre il doppio rispetto ai 4,6 milioni del 2023 (Fig. 1). Dal 1990, i casi di dengue sono raddoppiati ogni decennio, mettendo a rischio quasi la metà della popolazione mondiale. Confrontando i decenni 1951-1960 e il 2013-2022, il tasso di riproduzione base (R0) della dengue è aumentato del 28% per Aedes aegypti e del 27% per Aedes albopictus, con un allungamento della stagione di trasmissione dal 13% al 15%. Questo aumento preoccupante si riflette anche nelle proiezioni future che, sempre nelle Americhe, indicano che entro il 2039 la malattia potrebbe interessare il 97% dei comuni in Brasile e il 91% in Messico, coinvolgendo grandi città densamente popolate come Città del Messico e Porto Alegre. Anche in Asia la situazione è allarmante, in India, che rappresenterebbe un terzo del carico globale di dengue, modelli epidemiologici stimerebbero 33 milioni di casi clinicamente evidenti ogni anno (4). Tuttavia, il governo ha riportato ufficialmente solo 157.325 casi dal 2019, segnalando una drammatica sottostima che complica, tra le altre cose, la pianificazione sanitaria.

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Fonte: saluteinternazionale.info




Acque reflue trattate: un veicolo per la diffusione di Klebsiella Pneumoniae

Gli impianti di depurazione potrebbero agire come centri nevralgici per la diffusione di batteri patogeni resistenti agli antibiotici. È quello che emerge da uno studio nato da una collaborazione tra l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) e il National Biodiversity Future Center (NBFC) di Palermo. I ricercatori hanno infatti rilevato la presenza del batterio Klebsiella pneumoniae in un depuratore urbano del Centro Italia.

Klebsiella pneumoniae è un batterio naturalmente presente nel microbioma umano. Alcuni ceppi causano gravi infezioni respiratorie, urinarie e del sangue, che colpiscono soprattutto individui fragili e spesso in ambienti sanitari, come gli ospedali. Klebsiella pneumoniae è uno dei microrganismi che destano maggiore preoccupazione a livello mondiale per la sua resistenza all’azione di numerosi antibiotici, compresi quelli cosiddetti di ultima istanza, come la colistina.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Pollution”, si è basato sull’analisi di campioni prelevati dalle acque in entrata, dalla vasca di sedimentazione e dalle acque in uscita di un impianto di depurazione urbano. I campioni, raccolti in quattro periodi distinti durante il 2018, hanno mostrato la presenza di 42 ceppi di Klebsiella pneumoniae, in seguito caratterizzati attraverso sequenziamento dell’intero genoma. Numerosi ceppi isolati (47 %) mostravano un fenotipo di multi-resistenza ad almeno tre classi di antibiotici, con alcuni di essi resistenti anche alla colistina. Sono stati inoltre isolati i cloni ST307, ST35, ST45 noti per essere ad alto rischio e in rapida espansione in Italia.

“La Klebsiella pneumoniae – dice Alessandra Cornacchia, ricercatrice IZSAM e prima autrice dello studio assieme al ricercatore IRSA Andrea Di Cesare – è tra le principali cause di infezioni in contesti sanitari. Se gli impianti di trattamento delle acque reflue non vengono adeguatamente monitorati possono contribuire alla diffusione di questo pericoloso batterio nell’ambiente e nelle comunità. I monitoraggi, oltre a individuare il problema, forniscono indicazioni fondamentali per guidare le azioni correttive necessarie, come la modifica degli impianti, al fine di ridurre la diffusione del fenomeno”.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Afta epizootica: una scommessa sulla zootecnia in Europa?

muccaL’afta epizootica (Food and Mouth Disease, FMD) è un’infezione virale altamente contagiosa che rappresenta una grave minaccia per la salute del bestiame e la biosicurezza agricola in Europa. I recenti focolai di infezione confermati in Germania, Ungheria e Slovacchia non hanno peraltro trovato, ad avviso di chi scrive, una risposta idonea a contenere il rischio di ulteriore diffusione della malattia.

Gli standard e le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (WOAH, World Animal Health Organisation) prevedono infatti rigorose restrizioni alla movimentazione di animali dalle regioni colpite. Tali restrizioni sono state invece limitate, in Unione Europea, alle sole ‘zone rosse’. Senza neppure prescrivere i test sierologici prima del trasporto degli animali vivi.

Afta epizootica: introduzione

L’afta epizootica (FMD) è causata da un apthovirus della famiglia Picornaviridae, con sette sierotipi immunologicamente distinti (A, O, C, SAT1, SAT2, SAT3 e Asia1) e molteplici sottotipi. Il virus presenta alti tassi di morbilità, potendo infettare il 100% delle popolazioni suscettibili non vaccinate.

Sebbene gli animali adulti raramente soccombano alla malattia, i tassi di mortalità nei giovani possono essere elevati a causa di infezioni secondarie o della mancanza di latte da madri infette (WOAH, World Animal Health Organisation).

Trasmissione della FMD tra animali

L’afta epizootica (FMD) è una delle malattie virali più contagiose che colpiscono gli animali ungulati, in grado di diffondersi rapidamente sia all’interno che tra gli allevamenti. L’agente patogeno viene eliminato in grandi quantità dagli animali infetti attraverso tutte le escrezioni e secrezioni — inclusi saliva, latte, seme, urina e feci — anche prima della comparsa dei segni clinici. La trasmissione avviene attraverso diverse vie:

  • contatto diretto. Esposizione nasale o orale a secrezioni infette, specialmente in aree di pascolo condivise o spazi confinati. La trasmissione materna può avvenire attraverso l’allattamento, dove i giovani animali sono esposti al virus nel latte o attraverso il contatto stretto con madri infette;
  • trasmissione indiretta. Il virus può sopravvivere per giorni o settimane su fomiti come mangimi, acqua, veicoli, attrezzature e indumenti contaminati, specialmente in condizioni fresche e umide (Alexandersen et al., 2003);
  • trasmissione aerea altrettanto significativa, soprattutto nei climi temperati. Il virus può viaggiare fino a 60 km su terra e fino a 300 km sull’acqua in condizioni meteorologiche ottimali (Gloster et al., 2005). I suini, in particolare, agiscono come ‘ospiti amplificatori’ emettendo fino a 1.000 volte più virus per via aerea rispetto ai bovini (Donaldson et al., 2001);
  • prodotti animali. Carne cruda o non lavorata correttamente, latte e midollo osseo possono ospitare virus vitale. Una delle pratiche a più alto rischio è l’alimentazione degli animali con scarti che contengano prodotti da animali infetti (WOAH);
  • vettori, sia meccanici che biologici, contribuiscono alla diffusione del virus. Uccelli, roditori e insetti possono trasferire passivamente il virus della FMD tra località. Nelle regioni endemiche, serbatoi selvatici come il bufalo africano (Syncerus caffer) mantengono il virus in modo asintomatico, complicando gli sforzi di controllo ed eradicazione (Vosloo et al., 2002).

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Fonte: foodtimes.eu




Influenza aviaria nei gatti

Il 17 gennaio 2025, in provincia di Bologna, è stato rilevato un caso di Influenza Aviaria (IA) da virus A(H5N1) ad alta patogenicità in un gatto domestico che viveva a stretto contatto con il pollame di un piccolo allevamento familiare, già interessato da un focolaio confermato di IA.

La letteratura scientifica riconosce i gatti come animali sensibili all’infezione da virus influenzali aviari. Sono infatti già stati segnalati diversi casi (circa una dozzina) di decessi felini correlati all’infezione in Stati Uniti, Canada e in diversi Paesi europei, tra cui Belgio, Francia, Islanda, Paesi Bassi e Polonia. La principale fonte di contagio per i gatti resta l’esposizione diretta a uccelli infetti ed i prodotti di questi non trattati, anche se recenti evidenze provenienti dagli Stati Uniti sulla possibilità di trasmissione da bovini infetti.

È importante sottolineare che il rischio di trasmissione del virus da gatto a gatto o da gatto a essere umano è considerato basso, e ad oggi non sono stati documentati casi di questo tipo.

Nei gatti, l’infezione può manifestarsi inizialmente con precisi sintomi clinici, perdita di appetito, letargia e febbre, seguiti da sintomi neurologici come incoordinazione, tremori, convulsioni, cecità e grave depressione. Possono inoltre comparire abbondanti secrezioni nasali e oculari, sintomi respiratori come respiro accelerato o difficoltoso, starnuti e tosse.

Cosa deve fare il proprietario del gatto in presenza di sintomi sospetti di Influenza Aviaria?

Nel caso in cui il gatto manifesti sintomi compatibili con l’infezione da virus A(H5N1), il proprietario deve:

  • contattare tempestivamente il medico veterinario, prima di recarsi in ambulatorio, descrivendo con precisione i sintomi che presenta il gatto;
  • limitare il contatto del gatto con persone del nucleo familiare vulnerabili, in particolare soggetti immunocompromessi;
  • adottare misure di protezione personale, incluso l’uso di dispositivi di protezione individuale (DPI), per ridurre il rischio di esposizione;
  • monitorare lo stato di salute degli altri membri della famiglia e degli eventuali animali conviventi; in presenza di sintomi compatibili con l’influenza aviaria, segnalarli prontamente o al medico competente o ai Servizi Veterinari dell’ASL.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Afta epizootica: 11 i focolai, rafforzate le misure di controllo

muccaConsiderato che allo stato attuale sono consentite movimentazioni verso il territorio nazionale solo se provenienti da territori al di fuori della zona di ulteriore restrizione, tenuto conto dell’aumentato rischio di introduzione della malattia sul territorio nazionale nonché delle misure di prevenzione e controllo previste dalla vigente normativa unionale e nazionale, la Direzione Generale della Salute Animale dispone le seguenti misure:

1) Per tutti gli automezzi che trasportano animali aftoso sensibili in ingresso nel territorio nazionale attraverso la regione Friuli Venezia Giulia e provenienti da Ungheria e Slovacchia, è necessario procedere, con l’ausilio del personale dell’esercito, alla disinfezione delle ruote bloccando gli automezzi in luoghi idonei all’esecuzione di tale attività.
2) Tali automezzi potranno essere successivamente movimentati unicamente con canalizzazione diretta ad un singolo stabilimento (allevamento) o impianto di macellazione.
3) Gli UVAC a cui sono affidate sulla base delle precedenti note la predisposizione dei controlli a destino su tutte le partite provenienti da Ungheria e Slovacchia, nonché dalle due regioni dell’Austria più volte indicate, verificheranno l’effettivo arrivo delle partite, tramite le ASL competenti sull’allevamento o macello di destinazione.
4) Qualora, invece, tali automezzi dovessero passare attraverso un Centro di raccolta, gli animali ivi spediti saranno sottoposti al loro arrivo al prelievo di campioni per gli esami di laboratorio per l’afta epizootica e dovranno rimanere in tale Centro per almeno 14 giorni al termine dei quali, dopo aver eseguito un ulteriore prelievo di campioni per gli esami di laboratorio per l’afta epizootica, ad esito favorevole degli stessi potranno essere inviati nella struttura di destinazione finale. Durante lo stesso periodo è vietata anche la movimentazione di tutti gli animali aftoso-sensibili nazionali e/o di altri Paesi dell’UE presenti nel Centro di Raccolta.

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Influenza aviaria da virus A(H5N1): fatti reali e potenziali scenari evolutivi

Mentre la pandemia da CoViD-19 non può ritenersi ancora del tutto estinta, complice la reiterata comparsa di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più abili ad eludere l’immunità di popolazione conferita dalle pregresse vaccinazioni e/o infezioni da SARS-CoV-2, il virus dell’influenza aviaria A(H5N1) ad elevata patogenicita’ (highly pathogenic avian influenza/HPAI virus) sembra vieppiu’ rappresentare una minaccia globale.

Tale agente patogeno, affacciatosi per la prima volta sulla scena epidemiologica mondiale nel lontano 1959 in allevamenti di pollame in Scozia (1), sarebbe stato successivamente identificato nel 1996 in allevamenti intensivi di volatili in Cina (2), per essere infine isolato per la prima volta dall’uomo nel 1997. A tutt’oggi ammonterebbero a circa un migliaio gli episodi umani di malattia da HPAI virus A(H5N1), che sono stati segnalati in 23 Paesi e che sarebbero altresì caratterizzati, nel 50% dei casi, da una grave polmonite associata talvolta ad encefalite, nonché da esito fatale (3).

La recente comparsa sulla scena epidemiologica del clade 2.3.4.4b del virus A(H5N1), che si sarebbe diffuso in Eurasia, nelle Americhe e financo all’Artide e all’Antartide grazie alle rotte migratorie seguite dagli uccelli selvatici (4), rappresenterebbe in questo momento secondo il parere della Comunità Scientifica, congiuntamente alle infezioni sostenute da batteri antibiotico-resistenti, una delle più serie minacce pandemiche a livello globale. Ciò risulterebbe ascrivibile alla consistente diffusione geografica, alla notevole virulenza dell’agente patogeno e all’elevato indice di letalita’ dell’infezione, da un lato, nonché all’ampio e progressivamente crescente spettro d’ospite del clade virale 2.3.4.4b, complici le continue e reiterate mutazioni genetiche dello stesso (5).

In particolare, per quanto specificamente attiene al genoma di A(H5N1), sarebbero state sin qui identificate almeno 30 distinte mutazioni a carattere “non silente” – in corrispondenza, soprattutto, dell’emoagglutinina e delle polimerasi virali -, che avrebbero consentito il passaggio dell’infezione a numerose specie di volatili e di mammiferi domestici e selvatici, anche filogeneticamente (e geograficamente) distanti le une dalle altre, l’ultima delle quali sarebbe rappresentata dalla specie ovina, con un caso d’infezione riportato nei giorni scorsi in una pecora dello Yorkshire, nel Regno Unito (6). Sempre fra gli animali domestici si segnalano in special modo i bovini, nel cui latte non pastorizzato e’ stato identificato il virus e la cui ghiandola mammaria albergherebbe al proprio interno recettori in grado di riconoscere i ceppi virali di origine sia aviaria sia umana. Dai bovini allevati in Texas, Michigan ed in altre regioni statunitensi l’infezione si sarebbe quindi diffusa ai gatti attraverso il consumo di latte crudo (7) nonché all’uomo (allevatori in primis), con frequente sviluppo di congiuntivite e, occasionalmente, di sindromi febbrili e di blandi disturbi respiratori (8). Nonostante la documentata assenza di evidenza sin qui ottenuta a supporto della trasmissione di HPAI virus A(H5N1) da uomo a uomo (8), desta tuttavia preoccupazione la dimostrata suscettibilità di topi e furetti nei confronti dell’infezione sperimentalmente indotta con un ceppo virale isolato dalla congiuntiva di un allevatore texano (9). Negli animali esposti, infatti, il virus si sarebbe propagato in maniera sistemica agli organi respiratori, così come a numerosi distretti extra-respiratori (compreso il sistema nervoso centrale) dei medesimi, producendo una malattia ad esito fatale (9).

In un siffatto contesto, lo spiccato neurotropismo e la marcata neuropatogenicita’ del virus A(H5N1) nell’uomo, nel gatto ed in altri animali (10), costituirebbero ulteriori elementi di giustificato allarme per tutte quelle specie suscettibili all’infezione il cui stato di conservazione risulti gia’ più o meno seriamente minacciato. Oltremodo degni di segnalazione appaiono, al riguardo, gli episodi di mortalità collettiva segnalati nella popolazione di leoni marini (Otaria flavescens) lungo le coste di Peru’, Cile e Argentina, oltre che in alcuni esemplari di focena (Phocoena phocoena) e di tursiope (Tursiops truncatus) in Svezia ed in Florida, nonché in un orso polare in Alaska (11).

Cosa ci richiama alla mente e c’insegna al contempo tutto ciò?

La prima riflessione che viene avanti attiene alla necessità, assolutamente inderogabile ed improcrastinabile, di un approccio multidisciplinare, ispirato al concetto-principio della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – nella gestione del “rischio pandemico” e, più in generale, di qualsivoglia “rischio epidemico”, tanto piu’ in presenza di infezioni/malattie sostenute da agenti a documentata capacità zoonosica, come nello specifico caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1).

Nel fare e nel predisporre tutte le azioni “ad hoc” finalizzate a fronteggiare in maniera adeguata i rischi anzidetti, la collaborazione intersettoriale fra servizi medici e servizi veterinari assumerebbe inoltre una rilevanza strategica, che verrebbe ulteriormente avvalorata e potenziata dalla condivisione dei medesimi “tavoli di lavoro” da parte degli uni e degli altri. Fattispecie quest’ultima, mi preme sottolinearlo, che non ha neppure lontanamente riguardato il “Comitato Tecnico-Scientifico per la Pandemia da CoViD-19” (alias “CTS”), che non soltanto si è guardato bene dall’accogliere al proprio interno figure e competenze professionali veterinarie, ma che e’ stato invece incomprensibilmente disciolto due anni dopo la sua istituzione!

Quanto sarebbe stato utile, di contro, poter continuare a disporre di un siffatto organismo governativo, opportunamente rivisitato nella propria composizione, anche e soprattutto quando si pensi che i due terzi delle “malattie infettive emergenti” avrebbero la propria culla d’origine in uno o più serbatoi animali.

Tutto ciò mentre le mutazioni genetiche cui progressivamente ed inarrestabilmente soggiace il clade 2.3.4.4b del virus dell’influenza aviaria A(H5N1) lo starebbero rendendo sempre più in grado, con ogni probabilità, di attuare una quantomai temibile diffusione da Sapiens a Sapiens!

 

Bibliografia

1) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). 1880-1959 Highlights in the History of Avian Influenza (Bird Flu) Timeline.

DOI: https://www.cdc.gov/bird-flu/avian-timeline/1880-1959.html.

2) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Emergence and Evolution of H5N1 Bird Flu. (2024).

DOI: https://www.cdc.gov/flu/avianflu/communication-resources/bird-flu-origin-infographic.html.

3) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). About Bird Flu. (2024).

DOI: https://www.cdc.gov/flu/avianflu/communication-resources/bird-flu-origin-infographic.html.

4) Huang P., Sun L., Li J., Wu Q., Rezaei N., Jiang S., Pan C. (2023). Potential cross-species transmission of highly pathogenic avian influenza H5 subtype (HPAI H5) viruses to humans calls for the development of H5-specific and universal influenza vaccines. Cell Discov. 9(1):58.

DOI: 10.1038/s41421-023-00571-x.

5) McKie R. (2024). Next pandemic likely to be caused by flu virus, scientists warn.

The Observer.

DOI: https://www.theguardian.com/world/2024/apr/20/next-pandemic-likely-to-be-caused-by-flu-virus-scientists-warn.

6) Mahase E. (2025). H5N1: UK reports world’s first case in a sheep. BMJ 388: r591.

DOI : https://doi.org/10.1136/bmj.r591.

7) Burrough E.R., Magstadt D.R., Petersen B., Timmermans S.J., Gauger P.C., Zhang J., Siepker C., Mainenti M., Li G., Thompson A.C., Gorden P.J., Plummer P.J., Main R. (2024). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Clade 2.3.4.4b Virus Infection in Domestic Dairy Cattle and Cats, United States, 2024. Emerg. Infect. Dis. 30(7):1335-1343.

DOI: 10.3201/eid3007.240508.

8) Garg S., et al. (2025). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus Infections in Humans. N. Engl. J. Med. 392(9):843-854.

DOI: 10.1056/NEJMoa2414610.

9) Gu C., Maemura T., Guan L., et al. (2024). A human isolate of bovine H5N1 is transmissible and lethal in animal models. Nature 636:711-718. DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08254-7.

10) Bauer L., Benavides F.F.W., Veldhuis Kroeze E.J.B., de Wit E., van Riel D. (2023). The neuropathogenesis of highly pathogenic avian influenza H5Nx viruses in mammalian species including humans. Trends Neurosci. 46(11):953-970.

DOI: 10.1016/j.tins.2023.08.002.

11) Di Guardo G. (2024). Central Nervous System Disorders of Marine Mammals: Models for Human Disease? Pathogens 13(8):684.

DOI: 10.3390/pathogens13080684.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Influenza aviaria: a che punto è la diffusione e perché bisogna agire ora

Che cos’è l’influenza aviaria?

L’influenza aviaria o “bird flu”, è una malattia virale causata dai virus influenzali di tipo A della famiglia Orthomyxoviridae, sono endemici negli uccelli acquatici selvatici, ma possono infettare anche altri volatili e, in alcuni casi, i mammiferi, compresi gli esseri umani. I virus dell’influenza aviaria sono classificati in base alla loro patogenicità negli uccelli in due categorie principali: influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI) e influenza aviaria altamente patogena (HPAI).

I virus LPAI generalmente causano una malattia lieve o possono persino non manifestare sintomi negli uccelli. Al contrario, i virus HPAI, in particolare i sottotipi H5 e H7, sono responsabili di malattie gravi che si diffondono rapidamente tra il pollame, portando a tassi di mortalità elevati in diverse specie di uccelli. È importante notare che alcuni ceppi LPAI possono mutare e diventare altamente patogeni nel pollame, sottolineando la necessità di un monitoraggio continuo.

La distinzione tra LPAI e HPAI è fondamentale per valutare il livello di minaccia per il pollame e le potenziali conseguenze economiche. La capacità di alcuni ceppi LPAI di trasformarsi in HPAI evidenzia l’importanza di una sorveglianza costante per prevenire focolai più gravi. I virus influenzali di tipo A sono ulteriormente suddivisi in sottotipi in base a due proteine presenti sulla superficie del virus: l’emagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA). Sono noti 18 sottotipi di HA (H1-H18) e 11 sottotipi di NA (N1-N11), che possono combinarsi in numerose varianti virali. Alcuni sottotipi specifici hanno dimostrato di poter infettare l’uomo, tra cui H5N1, H7N9, H5N6, H5N8, H3N8, H7N4, H9N2 e H10N3.

La diffusione dell’influenza aviaria tra uccelli e esseri umani

La trasmissione dell’influenza aviaria tra gli uccelli avviene principalmente tramite il contatto diretto tra uccelli infetti e sani. Gli uccelli infetti rilasciano il virus attraverso la saliva, le secrezioni nasali e le feci. Gli uccelli migratori, in particolare quelli acquatici, sono serbatoi naturali del virus e giocano un ruolo fondamentale nella sua diffusione su vaste aree geografiche. La loro capacità di migrare senza mostrare segni di malattia complica il controllo della diffusione del virus, rendendo necessaria una sorveglianza e monitoraggio internazionali.

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Fonte: ilsole24ore.com




Il virus dell’influenza aviaria H5N1 causa della prossima pandemia? Dalla Cina agli Stati Uniti, dai polli ai bovini, alle persone

Lectio magistralis di Maria Paola Landini già docente di Microbiologia e preside della Facoltà medico-chirurgica nell’Università di Bologna.

Ne discutono: Enrica Martini direttrice di U.O.C. di Veterinaria, sanità animale e igiene di allevamenti e produzioni zootecniche della AUSL di Bologna; Paolo Pandolfi direttore del Dipartimento di Sanità pubblica dell’AUSL di Bologna

A/H5N1: Orthomyxovirus a trasmissione respiratoria, identificato in uccelli selvatici in Cina nel 1996 che, da allora, ha causato epidemie in allevamenti di volatili in vari paesi, terminate con l’abbattimento di tutti i capi. Durante le epidemie si sono avuti casi umani in persone addette agli allevamenti ma assenza di trasmissione interumana certa.

Negli ultimi anni la frequenza di infezioni da H5N1  è aumentata e il virus ha fatto vari “salti di specie” anche in mammiferi. Di particolare preoccupazione è la situazione statunitense perché il virus sta dilagando nei polli (abbattimento record 150 milioni di polli)  e nei bovini che  funzionano come “mixing vessel” consentendo un “rimescolamento genetico” fra virus di origine aviaria ed umana, in stretta analogia con il comprovato ruolo svolto in tal senso dai suini.

La situazione statunitense non sembra essere sotto controllo e il recente divieto alle istituzioni sanitarie (CDC, NIH etc..) di fornire dati senza che prima non siano stati visionati a livello governativo, non conforta. Un’ altra pandemia sembra inevitabile. Da quale patogeno sarà causata, da dove partirà, e quando inizierà, è impossibile da prevedere, certamente il virus A/H5N1 è vicino alla meta mancando solo una mutazione aminoacidica nell’ emoagglutinina per renderlo in grado di riconoscere il recettore umano e di trasmettersi a livello interumano.

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Fonte: trucioli.it