Caratterizzazione di Photobacterium damselae subsp. piscicida isolato da un episodio di mortalità di massa nel cefalo comune (Mugil cephalus) nel mar Ionio

Il laboratorio di biologia molecolare della sezione di Putignano dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata ha recentemente sequenziato e depositato nel database NCBI la sequenza genomica (Identificativo NCBI: GCA_052601115.1) di un ceppo di Photobacterium damselae subsp. piscicida isolato presso il laboratorio di Diagnostica della sezione di Taranto dell’IZSPB.

Il Photobacterium damselae subsp. piscicida è un batterio Gram-negativo appartenente alla famiglia delle Vibrionaceae, noto per essere l’agente eziologico della fotobatteriosi o pseudotubercolosi, una malattia infettiva altamente diffusiva che colpisce diverse specie ittiche marine, causando elevata mortalità soprattutto in contesti di acquacoltura intensiva.
L’isolamento è avvenuto a seguito di un episodio di mortalità che, i primi di maggio dell’anno corrente, ha colpito numerosi esemplari di Mugil cephalus (Cefalo comune) nei pressi dell’estuario del fiume Agri, nel Mar Ionio, in località Scanzano Jonico (MT). Grazie all’azione coordinata tra i Servizi Veterinari locali e la sezione territoriale di Matera dell’IZSPB, alcuni esemplari deceduti sono stati prelevati e rapidamente trasferiti presso la sezione di Taranto dell’IZSPB e qui sottoposti ad esame autoptico e ad approfondite analisi microbiologiche.
I soggetti esaminati presentavano lesioni compatibili con setticemia da Photobacterium damselae subsp. piscicida. Il batterio è stato isolato da tutti gli organi sottoposti ad esame batteriologico.  L’analisi genomica ha rilevato la presenza di importanti fattori di patogenicità e l’assenza di geni associati a resistenza agli antibiotici.

Il risultato conseguito è il frutto di un’azione sinergica e tempestiva realizzata sul territorio dai laboratori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata (IZSPB), la cui missione comprende il monitoraggio della salute delle specie ittiche autoctone, la loro tutela e conservazione. L’intervento attuato si configura inoltre come un esempio concreto di come sia possibile sviluppare strategie di indagine scientifica basate su un approccio multidisciplinare, capaci di integrare in modo efficace le tecniche consolidate della microbiologia tradizionale con le più recenti e sofisticate metodologie della biologia molecolare. In ultima analisi, si tratta della prima sequenza genomica di Photobacterium damselae subsp. piscicida condivisa da un laboratorio italiano con la comunità scientifica. Il lavoro è stato presentato al XXIX Convegno annuale della Società Italiana di Patologia Ittica (SIPI), tenutosi a Sassari il 23-24 ottobre 2025.
Tale condivisione contribuirà alla miglior comprensione dei meccanismi di diffusione del patogeno e delle strategie di controllo della malattia.

Fonte: IZS Puglia e Basilicata




Diversità genetica dei virus influenzali suini nel Nord Est e identificazione di due nuovi genotipi

Ricercatori dell’IZSVe hanno identificato due genotipi di virus influenzali finora sconosciuti in Italia, denominati Novel 1 e Novel 2, in popolazioni di suini. La scoperta è avvenuta nell’ambito di uno studio di sorveglianza in allevamenti suini del Nord-Est, pubblicato sulla rivista Frontiers in Microbiology. Il genotipo Novel 1, appartenente al sottotipo H1avN2, è stato isolato in Friuli Venezia Giulia, mentre il genotipo Novel 2, riconducibile al sottotipo H1pdmN2, è stato identificato in Veneto. Lo studio prosegue una linea di ricerca che già nel 2018 aveva permesso di identificare altri genotipi virali.

L’influenza suina è una malattia respiratoria dei suini diffusa in tutto il mondo, con importanti implicazioni per la salute animale e umana.

“Il suino è una specie estremamente interessante per lo studio dei ceppi influenzali, dal momento che è suscettibile all’infezione di ceppi influenzali di diversa origine, suina, umana e aviare” spiega Lara Cavicchio, biotecnologa ricercatrice del Laboratorio di genomica e trascrittomica virale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), prima autrice dell’articolo“Per questa ragione il suino rappresenta un mixing vessel, una sorta di ‘miscelatore’ dove i virus influenzali di diversa origine possono andare incontro ad eventi di riassortimento, cioè si scambiano pezzi di materiale genetico, creando nuove varianti, potenzialmente pericolose per l’uomo.”

Un esempio tangibile delle conseguenze negative di questo meccanismo si è avuto con la prima pandemia del XXI secolo. Era il 2009 e a scatenarla fu un virus influenzale H1N1 originato dal riassortimento fra ceppi virali suini, umani e aviari. La sorveglianza è dunque fondamentale per monitorare la circolazione e l’evoluzione di questi virus, al fine di studiare il loro potenziale zoonosico ed eventualmente pandemico.

L’analisi genetica evidenzia la circolazione inter aziendale del virus

Grazie alla collaborazione tra veterinari aziendali e ricercatori, sono stati raccolti tra il 2013 e il 2022 oltre 3.000 campioni in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige da animali sintomatici: circa il 19% è risultato positivo a influenza suina. La maggior parte dei campioni positivi proviene dalle aree a più alta densità suinicola, nelle province di Padova, Verona, Treviso, Pordenone e Udine.

Con la caratterizzazione genetica dei due nuovi genotipi “italiani” Novel 1 e Novel 2, ad oggi i genotipi noti nel Nord est sono dodici, di cui dieci già descritti precedentemente (A, B, D, F, M, P, T, U, AH e Novel2013).

L’analisi filogenetica, effettuata per tracciare la storia evolutiva dei virus e le loro “parentele”, ha evidenziato la presenza di distinti cluster genetici, costituiti da virus strettamente correlati in allevamenti diversi, e ha rilevato una positività ricorrente a virus influenzali suini in numerose aziende nel corso del periodo di sorveglianza. Questi dati suggeriscono sia la persistenza intra-aziendale di specifici ceppi, sia reintroduzioni ricorrenti legate alle dinamiche di filiera.

La presenza di cluster genetici condivisi tra allevamenti, spesso localizzati in aree geografiche contigue o appartenenti alla stessa rete produttiva, indica fenomeni di diffusione inter-aziendale. In alcuni casi, le sequenze virali mostravano elevata similarità con ceppi umani, coerente con possibili eventi di trasmissione interspecifica.

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Fonte: IZS Venezie




A Bologna gatti malati di influenza aviaria. E l’Università avvia uno studio

Nemmeno i gatti sfuggono all’influenza aviaria. I  nostri animali domestici possono essere contagiati esattamente come gli essere umani e in provincia di Bologna per un micio è stato anche causa di morte. Per questo  il servizio di Anatomia patologica del Dipartimento di Scienze mediche veterinarie dell’Università di Bologna si è fatto carico di indagare il fenomeno e  ha avviato un un progetto di monitoraggio dell’influenza aviaria nei gatti finanziato dalla Fondazione Carisbo denominato «Influcat-Inbo».

Lo studio scientifico avviene attraverso autopsie su gatti deceduti nel territorio ma indipendentemente dalla presunta causa di morte. In Italia la malattia è ripetutamente osservata in specie aviarie, ma a gennaio 2025 si sono contati due casi di H5N1 in gatti (di cui uno letale) in provincia e sono, finora, gli  unici in Italia».  Lo fa sapere il professore  Giuliano Bettini, del Dipartimento di Scienze Mediche veterinarie, responsabile del progetto, che puntualizza: «Il potenziale ruolo dei felini domestici come ospiti intermedi e possibili vettori e amplificatori della diffusione del virus genera comprensibili preoccupazioni, in considerazione della stretta convivenza con l’uomo»
Lo studio è stato segnalato ai veterinari dall’Ordine di categoria per raccogliere le disponibilità ad eseguire le autopsie necessarie. Il percorso dell’indagine viene spiegato con un documento diffuso dall’Ordine in cui Bettini dettaglia: «Nell’epidemiologia dell’influenza aviaria desta preoccupazione la diffusione di sottotipi ad elevata patogenicità (H5N1) che hanno mostrato capacità di mutare rapidamente acquisendo geni da virus influenzali che infettano altre specie e contagiare così anche suini, bovini, gatti, cani, topi e uomo, rappresentando quindi un potenziale problema di sanità pubblica. Al momento la malattia ha diffusione mondiale, e in base al numero di focolai registrati i mammiferi domestici più sensibili all’infezione sono bovini e gatti».

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Fonte: corrieredibologna.it




Bluetongue in Europa e in Italia: vecchie conoscenze e nuovi scenari

La febbre catarrale degli ovini o Bluetongue (BT) è una malattia infettiva non contagiosa che colpisce alcune famiglie dell’ordine degli Artiodattili ed è trasmessa da vettori ematofagi appartenenti al genere Culicoides. Attualmente sono noti 36 sierotipi di BT, di cui solo alcuni sono considerati “atipici” vista la loro capacità di diffondersi tramite contatto diretto e non per mezzo dei Culicoides (Ries et al., 2020, 2021; The Pirbright Institute, 2015; WOAH, b).

Per comprendere al meglio l’evoluzione della malattia è stata elaborata la classificazione dei sierotipi di BTV in ceppi analizzandone le proprietà come il genotipo, la morbilità, la mortalità, la velocità di diffusione, il periodo e l’area geografica di diffusione (More et al., 2017). Oltretutto, i diversi ceppi dello stesso sierotipo di BT possono differire per topo-tipi, che si distinguono generalmente in ceppi orientali, di provenienza Australiana e dal Medio-Estremo Oriente, e in ceppi occidentali, di origine Africana o Americana. In Europa, soprattutto nel bacino del Mediterraneo, entrambi i ceppi sono stati responsabili di focolai di malattia nelle popolazioni suscettibili (Kundlacz et al., 2019).

Storicamente endemica nei paesi tropicali e subtropicali, il cambiamento climatico e gli scambi di bestiame, nell’era della globalizzazione, hanno reso possibile, grazie alla presenza del vettore, la diffusione della BT nel Mediterraneo e in Europa a partire dalla fine degli anni ’90 (Maclachlan et al., 2015; WOAH, b).

L’Italia, al centro del Mediterraneo, è stata interessata a partire dal 2000 da molteplici ondate epidemiche ascrivibili di volta in volta a ceppi differenti provenienti dai paesi confinanti, nord africani (Lorusso et al., 2013a, 2014, 2017) o dai limitrofi Balcani (Calistri et al., 2004; Lorusso et al., 2013a, 2014, 2017; Mellor, 2004; Niedbalski, Wiesław, 2022; WOAH, b).

Le nazioni quali Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania sono state colpite inaspettatamente per la prima volta nel 2006 dall’epidemia da sierotipo 8 (BTV-8), dimostrando lo slancio della malattia dal centro verso il nord Europa (Faes et al., 2013; Niedbalski, Wiesław, 2022; WOAH, b). A questa è conseguita, solo nel periodo compreso tra il 2007 e il 2010, la diffusione del BTV-8 in 28 paesi europei, i quali hanno riportato più di 58.000 focolai ed ingenti perdite economiche (Nicolas et al., 2018; WOAH, b).

Questo articolo si propone di fornire aggiornamenti sulla legislazione europea e italiana vigente e sulla recente situazione epidemiologica, con un focus particolare sugli anni 2023-2024.

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Fonte: IZS Teramo




L’evoluzione genetica del virus dell’influenza aviaria HPAI H5N1 e il timore per una futura trasmissione interumana

Identificati per la prima volta in Cina nel 1996, i virus dell’influenza aviaria ad alta patogenecità HPAI A (H5Nx) appartenenti al lineage A/Goose/Guangdong/1/1996 (Gs/Gd) si sono rapidamente evoluti in una delle principali minacce sanitarie globali. I virus H5Nx, a partire dai primi anni 2000, hanno causato gravi e numerose epidemie avicole con ingenti perdite economiche e hanno dimostrato di essere in grado di infettare un’ampia gamma di specie di uccelli selvatici e mammiferi, compreso l’uomo (1).

Fino al 1997, i virus ad alta virulenza HPAI erano confinati al pollame, e i focolai potevano essere controllati con l’abbattimento degli animali infetti e la vaccinazione preventiva dei sani; fino ad allora i virus HPAI del pollame non si erano diffusi ai volatili selvatici e quest’ultimi non avevano avuto nessun ruolo nella trasmissione ai volatili domestici (1).

Le continue moltiplicazioni e i frequenti eventi di riassortimento tra i virus HPAI H5 del lineage Gs/Gd e i virus LPAI circolanti negli uccelli selvatici, hanno contribuito a modificare profondamente la sequenza genetica codificante l’emoagglutinina HA. Questo processo ha portato alla formazione di numerose linee evolutive distinte, denominate “clade” e “subclade”: cioè gruppi di virus strettamente correlati tra loro che condividono caratteristiche genetiche simili e che si sono evoluti da un antenato comune (1).

Dalla fase inziale circoscritta al Sud-est asiatico, il virus ha rapidamente esteso il proprio raggio d’azione. Fin dal 2003 infatti, i virus HPAI H5 Gs/Gd sono diventati enzootici in diversi paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale (1). Un punto di svolta si è verificato nel 2005 con il primo grande evento di mortalità di massa di uccelli migratori nel Lago Qinghai, in Cina, che ha segnato l’inizio della diffusione intercontinentale del lineage Gs/Gd e la comparsa per la prima volta in Europa e in Africa durante la migrazione autunnale degli uccelli (1).

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Due agenti patogeni decimarono l’esercito di Napoleone durante la ritirata dalla Russia nel 1812

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Fonte: AGI




Zanzare Culex pipiens e virus West Nile: nuovo studio riscrive la storia evolutiva

Zanzare Culex pipiens e virus West Nile: nuovo studio riscrive la storia evolutiva

Nel 2025 l’Italia ha registrato un aumento significativo dei casi di virus trasmessi all’uomo dalle zanzare. Tra le specie più diffuse, la Culex pipiens ha infettato oltre 700 persone, metà delle quali ha sviluppato la forma neuroinvasiva del virus, con 69 decessi. Questo scenario preoccupa le autorità sanitarie e pone l’accento sulla necessità di comprendere meglio i meccanismi di trasmissione e adattamento delle zanzare vettori.

Le due forme di Culex pipiens presenti in Italia

Nel nostro Paese la Culex pipiens è presente in due varianti distinte. La forma molestus, che punge prevalentemente l’uomo durante le ore serali e notturne, e la forma pipiens, che invece preferisce nutrirsi del sangue degli uccelli. Queste differenze di comportamento influenzano il ruolo delle due forme nella diffusione dei virus, in particolare del West Nile, che si trasmette attraverso il passaggio del patogeno dagli uccelli agli esseri umani.

Lo studio che smentisce la “zanzara della metropolitana”

Per decenni si è creduto che la forma molestus si fosse evoluta solo negli ultimi due secoli, adattandosi agli ambienti sotterranei e urbani del Nord Europa, tanto da essere soprannominata la “zanzara della metropolitana di Londra”. Tuttavia, un nuovo studio internazionale, guidato dai ricercatori dell’Università di Princeton con la partecipazione della Sapienza di Roma e di altri atenei mondiali, ha ribaltato questa teoria.

Le origini antiche della Culex pipiens form molestus

La ricerca, pubblicata sulla rivista Science lo scorso 23 ottobre, ha analizzato il DNA di migliaia di esemplari di Culex pipiens provenienti da diverse aree geografiche. I risultati dimostrano che la forma molestus si è evoluta e adattata all’uomo tra 1.000 e 10.000 anni fa, in una società agricola dell’Antico Egitto. È in questo contesto che la specie avrebbe sviluppato la capacità di vivere a stretto contatto con gli insediamenti umani, abilità che nei secoli successivi le ha permesso di colonizzare anche gli ambienti sotterranei europei.

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Fonte: ambienteinsalute.it




Un breath test per la leishmaniosi canina

La leishmaniosi è una malattia parassitaria che minaccia la salute sia degli animali che degli esseri umani in Europa, Africa, Asia e Sud America. Trasmessa dalla puntura di mosche infette, si manifesta come leishmaniosi cutanea, che causa gravi ulcerazioni cutanee, o come leishmaniosi viscerale, una forma potenzialmente letale che colpisce organi vitali come milza, fegato e midollo osseo. I cani sono il principale serbatoio del parassita, perciò la diagnosi rapida e precisa delle infezioni canine è essenziale per proteggere la nostra salute e quella degli animali. Tuttavia, i metodi diagnostici convenzionali sono spesso invasivi e costosi o producono risultati ambigui.

Identificare i biomarcatori volatili

Con il sostegno del programma di azioni Marie Skłodowska-Curie, il progetto CANLEISH(si apre in una nuova finestra) si prefigge di indagare nuovi approcci non invasivi per migliorare l’individuazione della leishmaniosi canina. Combinando l’analisi dei composti organici volatili (COV), un prototipo di naso elettronico e l’analisi dei dati guidata dall’intelligenza artificiale, il consorzio ha sviluppato una piattaforma che potrebbe rivoluzionare la diagnostica veterinaria. «L’obiettivo principale era cercare e identificare le impronte chimiche della leishmaniosi canina», spiega la coordinatrice del progetto Violeta Elena Simion. Attraverso la gascromatografia-spettrometria di massa(si apre in una nuova finestra), il gruppo di ricerca ha analizzato i composti volatili rilasciati nell’alito e nel pelo dei cani infettati dalla leishmaniosi. Dai risultati sono emersi un potenziale biomarcatore del respiro e cinque possibili biomarcatori del pelo per la leishmaniosi cutanea, oltre a nove e quattro biomarcatori rispettivi per la forma viscerale. Un dato interessante è che il composto gliceril monooleato è apparso in entrambe le forme, il che lo renderebbe un potenziale marcatore universale. Questo lavoro, pubblicato su Analytical and Bioanalytical Chemistry(si apre in una nuova finestra) suggerisce che l’analisi dei COV è una strada promettente per la diagnosi non invasiva e dovrebbe contribuire al processo decisionale clinico.

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Fonte: cordi.europa.eu




Oms lancia il nuovo quadro globale per la gestione delle emergenze sanitarie: “Prepararsi meglio per rispondere più rapidamente”

L’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato il National Health Emergency Alert and Response Framework, una guida operativa pensata per aiutare i Paesi a rafforzare i propri sistemi di allerta e risposta alle emergenze sanitarie. Il documento – frutto di due anni di lavoro e di un’ampia consultazione con esperti e governi – rappresenta il nuovo punto di riferimento per la gestione delle crisi, dalle epidemie ai disastri naturali, fino alle emergenze climatiche.

La pandemia di Covid, sottolinea l’Oms, ha messo in luce “le vulnerabilità del sistema sanitario globale” e la necessità di un approccio “multisettoriale e integrato”, che coinvolga non solo le autorità sanitarie, ma anche i settori sociali, economici e ambientali. Da questa esperienza nasce una cornice che unisce in modo coerente i diversi strumenti sviluppati in questi anni: dal Health Emergency Preparedness, Resilience and Response (HEPR) alle linee guida sui centri operativi di emergenza sanitaria (Pheoc), fino al nuovo Global Health Emergency Corps (Ghec) – una rete mondiale di professionisti pronti a intervenire rapidamente in caso di crisi.
Il quadro dell’Oms individua cinque pilastri fondamentali per un sistema efficace di gestione delle emergenze:
– sorveglianza collaborativa, per individuare rapidamente nuovi focolai e condividerne i dati;
– protezione delle comunità, basata su comunicazione trasparente e coinvolgimento locale;
– assistenza sicura e scalabile, capace di mantenere i servizi essenziali anche sotto pressione;
– accesso tempestivo ai contromisure mediche, come vaccini, test e dispositivi;
– coordinamento delle emergenze, che garantisca risposte coerenti tra livelli locali, nazionali e internazionali.

Ogni fase della crisi – dal rilevamento alla valutazione del rischio, fino all’attivazione delle risposte – è accompagnata da strumenti pratici: checklist operative, diagrammi di flusso e linee guida su come istituire strutture di comando e controllo efficienti. Il documento prevede inoltre l’uso sistematico del modello 7-1-7, che stabilisce obiettivi precisi di performance: 7 giorni per rilevare un focolaio, 1 giorno per notificarlo alle autorità e 7 giorni per completare le azioni iniziali di risposta.

Una rete globale interoperabile
Uno degli elementi innovativi del framework è l’enfasi sull’interoperabilità: ogni sistema nazionale deve potersi connettere con i livelli regionali e globali. I Centri Operativi per le Emergenze Sanitarie (Public Health Emergency Operations Centres) diventano così il fulcro del coordinamento, collegando istituzioni, ministeri, agenzie umanitarie e partner internazionali.

“Solo un approccio integrato, basato su una leadership condivisa e una catena di comando chiara, può assicurare una risposta tempestiva ed efficace”, ha dichiarato Chikwe Ihekweazu, direttore esecutivo del Programma per le emergenze sanitarie dell’OMS, nel suo messaggio di prefazione al documento.

Il nuovo quadro è pensato non solo per reagire alle crisi, ma per prevenirle e rafforzare la resilienza dei sistemi sanitari. Include raccomandazioni per l’analisi dei rischi, la pianificazione di risposte multi-pericolo (all-hazard), la formazione del personale e la valutazione delle prestazioni tramite revisioni intra-action e after-action.

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Fonte: quotidianosanita.it




Uno studio One Health getta nuova luce sul complesso intreccio fra pipistrelli, allevamenti suini e virus

Studio dell’IZSVe individua come almeno otto specie di pipistrelli (chirotteri) utilizzino le aree degli allevamenti di suini dell’Italia settentrionale. Sebbene questa interazione possa presentare effetti positivi per entrambe le specie, l’assenza di barriere fisiche e le lacune nella biosicurezza all’interno delle aziende suinicole possono comportare un rischio residuo per la trasmissione inter-specifica di virus.

Legnaro (Padova) –  I pipistrelli, o chirotteri, sono riconosciuti come serbatoi naturali di diversi coronavirus (CoV), da alcuni dei quali potrebbero essersi evolute specie virali pericolose per l’uomo e per gli animali domestici, come il SARS-CoV-2 o il virus della diarrea epidemica nel suino. Tuttavia, le dinamiche e i meccanismi che permettono il passaggio di questi virus agli animali da allevamento o all’uomo rimangono per lo più sconosciute.

I ricercatori del Laboratorio di zoonosi virali emergenti dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, per valutare i fattori di rischio per la trasmissione di virus dai pipistrelli ai suini, usando come caso studio i coronavirus in alcuni allevamenti dell’Italia settentrionale. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ConVErgence e ha visto la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, Università di Padova, Università di Bari, Università del Sussex (UK) e Coop. STERNA di Forlì.

“L’interfaccia fra animali selvatici, animali domestici ed esseri umani, rappresenta un confine molto labile dove possono emergere malattie infettive a carattere epidemico”, spiega Stefania Leopardi, veterinaria dirigente e supervisore della ricerca. “Sappiamo che gli allevamenti suini rappresentano possibili ‘hotspot’ per la diffusione e la comparsa di varianti ricombinanti potenzialmente pericolose per gli animali o l’uomo. Per questo motivo, l’identificazione di nuovi coronavirus è fondamentale per valutare il loro adattamento nel suino e nell’uomo, ma è altrettanto importante cercare di comprendere i fattori di rischio che possono favorire i fenomeni di spillover nelle specie animali.”

Indagini ecologiche, modellistica ambientale, analisi virologiche

Per la ricerca è stato utilizzato un approccio multidisciplinare ispirato al paradigma ‘One Health’, in cui sono state combinate indagini ecologiche, di modellistica ambientale e di virologia molecolare. Una prima fase ha riguardato il monitoraggio bioacustico in 14 allevamenti suinicoli del Triveneto, mediante cui sono state identificate otto specie di pipistrelli negli allevamenti, con P. kuhlii, P. pipistrellus e H. savii come le più diffuse e attive.

L’analisi del paesaggio e delle strutture aziendali ha permesso di identificare i fattori che influenzano maggiormente l’attività dei pipistrelli. È emerso che gli allevamenti con strutture in grado di attrarre insetti registrano un’intensa attività dei pipistrelli, mentre l’habitat circostante incide in misura minore sulla ricchezza delle specie.

Parallelamente, le indagini virologiche hanno permesso di identificare tre nuove specie di CoV, rilevati in P. kuhlii e H. savii, di cui è stato possibile ottenere il sequenziamento completo del genoma. Fondamentale per questa fase l’analisi combinata di campioni raccolti su tre colonie di P. kuhli e di campioni di archivio provenienti da attività di sorveglianza della rabbia in popolazioni di animali selvatici, condotte negli anni dal Laboratorio.

Fra le specie di pipistrello più comuni, è stata osservata una circolazione attiva di CoV in P. kuhlii, anche in colonie situate all’interno delle aziende suinicole, con l’identificazione di due specie distinte di CoV in questi pipistrelli. I CoV sono stati rilevati durante tutta la stagione di attività dei pipistrelli, con picchi a maggio e ad agosto, e in alcuni casi sembrano essere condivisi tra specie diverse di pipistrelli (P. kuhlii e H. savii), aumentando ulteriormente il rischio di ricombinazione genetica.

Le analisi filogenetiche mostrano inoltre che i suini potrebbero essere esposti ad almeno otto specie distinte di CoV, dal momento che i CoV sono associati in modo specifico al proprio ospite.

Da una parte lo studio mette in evidenza come le aziende suinicole possono rappresentare delle oasi per la conservazione dei pipistrelli in ambienti rurali di agricoltura intensiva, dove la monotonia degli elementi ambientali sta inaridendo la biodiversità. In questi ambienti, i pipistrelli possono svolgere un servizio ecosistemico di controllo degli insetti dannosi, anche contribuendo alla riduzione dei pesticidi. Tuttavia, la circolazione dei pipistrelli è anche associata al rischio potenziale di esposizione ai virus che essi veicolano.

Un aspetto fondamentale rilevato dallo studio è la frequente assenza di barriere fisiche negli allevamenti, allestite per impedire il contatto tra i pipistrelli e i recinti dei suini, e un’applicazione disomogenea delle pratiche di biosicurezza. Rafforzare queste misure potrebbe mitigare il rischio di esposizione ai diversi CoV, e più in generale ai virus associati alla fauna selvatica, migliorando la convivenza tra l’uomo e gli animali domestici e selvatici.

 

Fonte: IZS Venezie