OIE: pubblicata la “Quinta relazione annuale sull’uso degli antibiotici negli animali a livello globale”

valutare_antibioticiL’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (OIE) ha pubblicato la sua quinta relazione annuale sull’uso degli antibiotici negli animali a livello globale (in inglese).

Sulla base dei dati comunicati da 69 paesi per gli anni tra il 2015 e il 2017, è stata rilevata una diminuzione complessiva del 34% dell’indicatore globale mg/kg che indica una tendenza verso un uso sempre più razionale degli antimicrobici negli animali.

L’OIE sta attualmente sviluppando un sistema IT interattivo e automatizzato che fornirà ai paesi accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per rivedere, analizzare ed utilizzare i propri dati nazionali, consentendo all’OIE di mantenere il proprio impegno a fornire analisi dei dati globali al pubblico.

Fonte: alimenti-salute.it




Covid, i contagi calano, ma occhio agli animali

Seppur in un contesto di riduzione della circolazione del virus SARS-CoV-2, vale la pena chiedersi quali “traiettorie” caratterizzeranno, nei mesi a venire, il lungo viaggio del virus la cui culla d’origine s’identificherebbe, con ogni probabilità, in un serbatoio animale “primario” (pipistrelli del genere Rinolophus) e, forse, anche in uno “secondario” (non ancora identificato a tutt’oggi).

In particolare, se è vero che la tanto agognata “immunità di gregge” inibirà in modo significativo la capacità di acquisire ulteriori mutazioni da parte del virus, tale fenomeno andrà opportunamente valutato anche negli animali, con particolare riferimento alle diverse specie di mammiferi domestici e selvatici già dimostratesi sensibili nei riguardi dell’infezione. Prima fra tutte il visone.

Lettera di Giovanni Di Guardo, già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, pubblicata da Il Fatto Quotidiano.




Un nuovo metodo per la rilevazione delle tossine botuliniche senza l’impiego di animali da laboratorio

laboratorio di ricercaL’Istituto  Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha validato un  nuovo metodo per la rilevazione dell’attività biologica delle tossine botuliniche di tipo C e D ed i rispettivi mosaici  CD e DC alternativo all’uso di animali da laboratorio. Lo studio è stato condotto dai ricercatori dalla sezione di Treviso dell’IZSVe, in collaborazione con il Centro di riferimento nazionale per il botulismo dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta (USA), e pubblicato sulla rivista scientifica Toxins.

Le tossine botuliniche sono proteine neurotossiche, prodotte da batteri per lo più del genere Clostridium, che causano il botulismo, una malattia potenzialmente fatale che provoca paralisi flaccida. Sono attualmente conosciuti 7 sierotipi della  tossina botulinica, denominati con le lettere dalla A alla G. Le tossine di tipo A, B, E ed F sono principalmente  causa di botulismo nell’uomo, mentre i tipi C e D interessano gli animali.

Il test di riferimento per l’identificazione delle tossine botuliniche è la prova biologica su topo. L’IZSVe, in collaborazione con ISS e CDC, ha validato un nuovo metodo per la rilevazione dell’attività biologica delle tossine botuliniche di tipo C e D senza l’impiego di animali da laboratorio, basato sull’utilizzo di uno spettrometro di massa comunemente presente nei laboratori di microbiologia diagnostica.

La disponibilità di un metodo sensibile, affidabile e rapido per la rilevazione di queste tossine è determinante  sia per la salute umana sia per quella animale. Il test di riferimento per l’identificazione  delle tossine botuliniche è la prova biologica su topo. Tale metodo seppur molto sensibile e specifico grazie all’uso di antisieri per i singoli sierotipi, prevede però  il sacrificio di numerosi animali e richiede almeno quattro giorni per la conferma di un esito negativo. Il sacrificio di animali ad uso diagnostico pone inoltre numerosi problemi di carattere etico, e per tale motivo si stanno cercando sempre nuovi metodi alternativi che non prevedano l’uso di animali da laboratorio.

Il nuovo metodo denominato “EndoPep-MS” è stato inizialmente sviluppato dai ricercatori dei CDC di Atlanta utilizzando spettrometri di massa ad alta risoluzione, molto costosi e che possono essere utilizzati solo da personale altamente qualificato. Tale peculiarità lo rendeva poco impiegabile nei comuni laboratori di diagnostica. I ricercatori dell’IZSVe hanno invece validato e implementato il metodo “EndoPep-MS” utilizzando uno spettrometro di massa comunemente presente nei laboratori di microbiologia diagnostica sia in campo umano che veterinario.

I test hanno dimostrato che il metodo “EndoPep-MS” può essere applicato con risultati sovrapponibili o addirittura migliori in termini di sensibilità rispetto alla prova biologica per la rilevazione delle tossine botuliniche C e D e per le loro forme a mosaico CD e DC, anche su strumenti meno performanti di quelli con cui è stato sviluppato. I risultati permettono di considerare questo metodo come una valida alternativa alla prova biologica su topo, in quanto può essere facilmente eseguito nei laboratori di microbiologia senza la necessità di personale specializzato nella spettrometria di massa.

Fonte: IZS Venezie




Indagine sui potenziali vettori di Malaria in Italia

L’Italia è libera dalla malaria da diverse decadi, ma le zanzare che la trasmettevano sono ancora presenti sul nostro territorio. Queste zanzare possono essere in grado di trasmettere il Plasmodio all’arrivo di soggetti portatori di malattia, come accaduto recentemente in Grecia, con 109 casi localmente acquisiti dal 2009 al 2019.

Anche se la reintroduzione del ciclo della malattia è improbabile nel nostro paese; casi occasionali di malaria acquisiti localmente sono stati segnalati sporadicamente anche sul territorio Italiano. Dopo l’eradicazione della malaria l’interesse per le zanzare è venuto meno, e le informazioni sulla distribuzione delle specie di zanzare vettrici sono ormai datate. L’identificazione delle specie di zanzare presenti è inoltre complicata dalla presenza di complessi di specie indistinguibili morfologicamente, come il complesso Maculipennis, che raccoglie la maggior parte dei vettori che sostenevano, in passato, la trasmissione della malaria in Italia.

La ricerca svolta grazie alla collaborazione fra Istituti Zooprofilattici del nord Italia (IZS Lombardia ed Emilia Romagna, IZS delle Venezie, IZS del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), Istituto Superiore di Sanità, Università La Sapienza, CAA (Centro Agricoltura Ambiente) e IPLA (Istituto per le Piante e l’Ambiente).ha permesso di aggiornare l’elenco delle specie del complesso presenti nella Pianura Padana.

La specie più abbondante è risultata Anopheles daciae sp. inq. (specie dal rango tassonomico ancora dibattuto, affine ad An. messeae), seguita da An. maculipennis s.s. Meno diffuse sono risultate An. melanoon e An. atroparvus, quest’ultima specie era considerato un vettore primario di malaria in Nord Europa. Non è stata invece trovata An. sacharovi, storico vettore della malaria in nord Italia, confermando la sua probabile scomparsa dal nostro territorio.

La raccolta di dati su di un così ampio territorio ha premesso di modellizzare l’idoneità dell’area indagata ad ospitare le specie più abbondanti, identificando il delta del Po e le zone risicole presenti sulla Pianura Padana come le aree più vocate alla proliferazione di queste zanzare. La presenza di An. atroparvus, anche se principalmente circoscritta ad un’area limitata fra Lombardia e Veneto, merita di essere attentamente monitorata. Questi dati possono essere un valido strumento per valutare il rischio della potenziale trasmissione locale del Plasmodio della malaria e di altri patogeni ( Batai virus ), legati alla presenza delle diverse specie di queste zanzare.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Ancora alti i livelli di resistenza nei batteri che provocano infezioni alimentari

antibioticoresistenzaCome negli anni precedenti una parte considerevole dei batteri Salmonella Campylobacter è tuttora resistente agli antibiotici comunemente usati nell’uomo e negli animali, si afferma in un rapporto pubblicato oggi dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

Nell’uomo elevate percentuali di resistenza alla ciprofloxacina, un antibiotico comunemente usato per trattare diversi tipi di infezione, sono state riferite in un tipo specifico di Salmonella noto come S. Kentucky (82,1%). Negli ultimi anni S. Enteritidis resistente all’acido nalidixico e/o alla ciprofloxacina è stato segnalato sempre più spesso in parecchi Paesi. La crescente presenza di resistenza al fluorochinolone e/o al chinolone in questi tipi di Salmonella rispecchia probabilmente la diffusione di ceppi particolarmente resistenti.

Nel Campylobacter la resistenza alla ciprofloxacina è ormai così comune nella maggior parte dei Paesi che questo antibiotico è ormai di uso limitato nel trattamento delle infezioni da Campylobacter nell’uomo.

Il rapporto cita però anche alcuni risultati positivi. Nel periodo 2015-2019 è stato osservato in isolati umani di Salmonella un calo della resistenza all’ampicillina e alle tetracicline rispettivamente in otto e undici Stati membri.

Tra il 2015 e il 2019 è stata inoltre osservata una tendenza alla diminuzione della prevalenza di E. coli produttore di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL) in campioni di animali da reddito prelevati in 13 Stati membri. Si tratta di un dato importante poiché particolari ceppi di Escherichia coli produttore di ESBL provocano gravi infezioni  nell’uomo.

Resta bassa la resistenza congiunta a due antibiotici di prima linea: i fluorochinoloni associati alle cefalosporine di terza generazione in Salmonella e i fluorochinoloni associati ai macrolidi in Campylobacter. Questi antibiotici di prima linea sono comunemente usati per trattare infezioni gravi da Salmonella Campylobacter nell’uomo.

Nei campioni di animali da reddito è aumentato anche il tasso di batteri E. coli sensibili a tutti gli antibiotici testati. Ciò è stato osservato in nove Stati membri nel periodo 2014-2019.

Il rapporto è basato sui dati di monitoraggio dell’antibiotico-resistenza raccolti dagli Stati membri nell’ambito dei loro obblighi normativi nei confronti dell’UE e analizzati congiuntamente dall’EFSA e dall’ECDC con l’assistenza di contraenti esterni.

 




Di Guardo: usiamo troppi antibiotici, ci saranno conseguenze

AntibioticoresistenzaSecondo un recente rapporto dell’OMS, nonostante il 15% dei pazienti con forme lievi o medio-gravi di Covid-19 necessiti della loro somministrazione, gli antibiotici sarebbero stati assunti dai tre quarti di essi, andando inevitabilmente ad alimentare l’antibiotico resistenza.

Ne parla, in un lettera pubblicata da Il Corriere della Sera, il Prof. Giovanni Di Guardo, già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo.

Andando avanti di questo passo, è probabile che buona parte, se non addirittura l’intero arsenale dei farmaci attualmente disponibili per combattere le infezioni batteriche, annovererà al proprio interno, di qui a breve, solo armi spuntate!

Afferma Di Guardo.




Covid e varianti: i pericoli per l’uomo e gli animali

Nell’ottica dell’approccio “One Health” sarebbe molto importante, in tema di varianti di SARS-CoV-2, analizzare non solo le “variants of concern” (VOC) di SARS-CoV-2 capaci di infettare l’uomo, ma anche le dinamiche d’interazione di ciascuna di esse con le diverse specie animali domestiche e selvatiche.

Ciò al fine di caratterizzarne i rispettivi gradi di suscettibilità (o di resistenza) nei confronti del virus e, cosa ancor più rilevante, l’eventuale capacità da parte delle varianti di consentire lo sviluppo e la conseguente propagazione di ulteriori nuove “VOC” di SARS-CoV-2, come  accaduto negli allevamenti di visoni olandesi e danesi dove questi animali avrebbero acquisito l’infezione dall’uomo (leggasi allevatori di visoni), dando luogo a una serie di eventi mutazionali a seguito dei quali si sarebbe selezionata la variante denominata “cluster 5” e contraddistinta dalla mutazione Y453F, che il visone avrebbe di lì a breve “restituito” all’uomo: un chiaro esempio di “spillover” versus “spillback”, cioè di “zoonosi inversa” o “antropozoonosi” versus “zoonosi”.

Ne ha scritto il Prof. Giovanni Di Guardo, già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, in un articolo per saperescienza.it

 

 




Quanti cinghiali abitano qui?

cinghialeRicercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Cnr e dell’Istituto per la ricerca e la protezione ambientale hanno rivisto le metodiche utilizzabili per il monitoraggio delle popolazioni di cinghiali, dimostrando che l’applicazione del Distance Sampling mediante visori termici consente una stima precisa ed accurata. Si aprono così nuove strade per una gestione sostenibile della specie e per la protezione delle colture e degli allevamenti. Il lavoro è pubblicato sulla rivista Wildlife Biology

Contrariamente a ciò che si può pensare, censire le popolazioni di animali selvatici non è banale, tanto più se la specie vive in foresta ed ha abitudini notturne come il Cinghiale. Ricercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isc) e dell’Istituto per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) hanno effettuato una serie di censimenti utilizzando il metodo del “distance sampling” e visori termici notturni in diverse aree protette italiane, dimostrando che stimare le popolazioni di cinghiale in maniera precisa ed accurata è possibile. Lo studio – pubblicato sulla rivista Wildlife Biology – è stato condotto in condizioni ambientali molto diverse, che vanno dai boschi mediterranei del Monte Arcosu (Sardegna) alle aree agricole di gran pregio nei Colli Euganei (Veneto), fino alle quote maggiori della montagna appenninica (Foreste Casentinesi, Toscana ed Emilia Romagna): tutti ambienti fortemente influenzati dalla presenza del Cinghiale.
“La disponibilità di stime delle popolazioni può permettere di programmare efficacemente le azioni di controllo necessarie al contenimento della specie e di valutare quanto tali azioni siano state efficaci”, spiega Stefano Focardi del Cnr-Isc, responsabile della ricerca. Infatti la ricerca dimostra che negli ambienti studiati, con uno sforzo accettabile, si possono ottenere stime precise al 20%, un notevole salto di qualità visto che in Europa oggi nessuno riesce a stimare le popolazioni di Cinghiale. “L’articolo presenta un’estesa discussione dei metodi che possono essere usati per il monitoraggio. Visto l’impatto negativo che la specie ha sulle colture e i costi che questo comporta”, aggiunge Barbara Franzetti dell’Ispra, “la possibilità di impostare una gestione adattativa su dati precisi e affidabili rappresenterebbe uno strumento operativo particolarmente utile”. “Un problema potenzialmente molto serio determinato dalla presenza del Cinghiale è la diffusione della peste suina africana, che può severamente impattare negativamente la suinicoltura europea”, conclude Focardi, “e la disponibilità di metodi precisi per la stima delle popolazioni può essere estremamente rilevante per la formulazione delle mappe di rischio”.

Fonte: CNR




ISS: uno studio dimostra che i coronavirus dei ricci possono acquisire i geni dell’ospite

coronavirusUn recente studio condotto da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca la Ambientale (ISPRA), dell’Università di Bologna (UNIBO), e dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZLER) ha dimostrato la capacità di acquisire geni dell’ospite, da parte di Coronavirus (CoV) del riccio comune (Erinaceus europaeus).

Lo studio, pubblicato su Viruses descrive l’acquisizione del gene CD200 del riccio da parte di un gruppo di CoV identificati in una popolazione di ricci selvatici, campionati in nord Italia. Tali virus appartengono allo stesso gruppo dei CoV responsabili di COVID-19 e MERS, con i quali hanno una stretta somiglianza genetica.

Nei mammiferi, il CD200 ed il suo recettore agiscono come importanti checkpoint della risposta immunitaria che regolano negativamente al fine di prevenire l’eccessivo stimolo infiammatorio che si osserva talvolta nei confronti degli agenti infettivi, compreso SARS-CoV-2, il coronavirus responsabile di COVID-19.

La capacità dei virus di acquisire geni dell’ospite è un fenomeno noto, tuttavia è la prima volta che viene descritto nei CoV. Sebbene il ruolo del CD200 non sia lo stesso in ogni virus, è stato dimostrato che la sua integrazione nel genoma di alcuni virus (Herpesvirus 8 dell’uomo, Rhesus rhadinovirus R15 e Myxoma Virus), ne aumenta la fitness rispetto alla risposta immunitaria dell’ospite.

Il risultato dello studio è di grande rilevanza poiché dimostra l’esistenza, tra i CoV, di un meccanismo evolutivo estremamente raffinato, potenzialmente in grado di conferire proprietà patogenetiche nuove e più vantaggiose a tali agenti infettivi e indica il valore dello studio delle malattie degli animali quali insostituibili modelli di comprensione della patologia nell’uomo.

Fonte: ISS




Omicron: per quanto tempo ancora l’alfabeto greco designera’ le varianti di SARS-CoV-2?

L’identificazione della variante “omicron”, alias “B.1.1.529”, recentemente avvenuta in Sudafrica – sebbene la stessa fosse gia’ presente nei Paesi Bassi -, ha reso ancora piu’ esiguo il numero delle lettere dell’alfabeto greco non ancora utilizzate per designare le varianti di SARS-CoV-2 che progressivamente emergono sulla scena epidemiologica mondiale. Contemporaneamente si accresce, altresì, il numero delle specie animali suscettibili al betacoronavirus responsabile della CoViD-19.

In alcune di queste (gatto, cane, cervo a coda bianca) e’ stata parimenti segnalata la presenza di varianti (“alfa”, “B.1.2”, “B.1.311” ed altre ancora), verosimilmente acquisite da nostri conspecifici SARS-CoV-2-infetti.

In un siffatto contesto, risulta particolarmente degna di attenzione la variante “cluster 5”, comparsa oltre un anno fa negli allevamenti intensivi di visoni olandesi e danesi, per esser quindi ritrasmessa dai visoni stessi all’uomo.

In considerazione di quanto sopra esposto e, nondimeno, in una quantomai opportuna prospettiva di “One Health” – la “salute unica di uomo, animali ed ambiente” -, sarebbe a dir poco miope e riduttivo considerare Homo sapiens sapiens quale “unico attore” coinvolto nelle intricate e complesse dinamiche d’interazione virus-ospite, tanto piu’ alla luce della probabile quanto plausibile origine di SARS-CoV-2 dal mondo animale.

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria
all’Universita’ di Teramo