Campagna Safe2Eat: rafforzare la fiducia nella sicurezza alimentare dell’UE

Sulla scia del successo riscosso dalla scorsa edizione della campagna Safe2Eat, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e i suoi partner di tutta Europa lanciano oggi l’edizione 2025 con un obiettivo ancora più ambizioso: raggiungere un numero ancor maggiore di cittadini e continuare a fornire informazioni scientifiche affidabili sulla sicurezza alimentare. Quest’anno la campagna si allarga a 23 Paesi, in crescita rispetto ai 18 del 2024, segnando un traguardo significativo nel compito di aiutare sempre più europei a scegliere i propri alimenti in tutta fiducia.

I Paesi partecipanti per il 2025 sono Albania, Austria, Belgio, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Cipro, Cechia, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna e Turchia.

Alto impatto, nuovi comportamenti: i punti salienti del 2024

Safe2Eat ha registrato un impatto senza precedenti nel 2024. Secondo un sondaggio Ipsos condotto a dicembre la campagna ha raggiunto oltre il 45% del pubblico target in Europa, in forte crescita rispetto al 19% del 2023. Grazie a una combinazione di attività sui social media, collaborazioni con influencer e iniziative mirate sui media, Safe2Eat ha coinvolto con successo oltre 50 milioni di europei, rafforzando l’importanza della sicurezza alimentare nelle scelte quotidiane.

La campagna ha positivamente influenzato anche i comportamenti dei consumatori. I risultati dell’indagine hanno infatti rivelato che coloro che hanno seguito la campagna sono ora più inclini a tenere conto della sicurezza durante l’acquisto di prodotti alimentari. Inoltre, a seguito della campagna, è diminuita la percezione che le informazioni sulla sicurezza alimentare siano troppo tecniche o complesse, con un numero crescente di persone che dichiara oggi di sentirsi più informato sui rischi alimentari e su come prevenirli.

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Fonte: EFSA




L’epidemiologia nei piani pandemici

zoonosi viralePrima del 2020, nei confronti di un’eventuale pandemia avevamo forse un rametto di esperienza e tutti i nostri programmi e progetti erano basati su raccomandazioni e avvertenze formulate seguendo indicazioni razionali ma teoriche. Dal 2020 ci siamo trovati (e spesso anche persi) in una foresta di esperienza: 27 milioni di casi di una malattia infettiva, quasi 200mila morti, mezzo milione di casi tra gli operatori sanitari e una sequela, non prevista, di conseguenze sanitarie, sociali, economiche.

Uno degli aspetti teorici dei piani contro un’eventuale pandemia influenzale, prima del Covid-19, erano i piani di continuità assistenziale e produttiva. La situazione reale, di fronte alla valanga di eventi, è stata ben diversa, con un totale blocco di tutte le attività economiche, sociali, culturali, della vita di tutti i giorni, come soluzione migliore per spegnere un incendio indomabile. Avevamo avuto una foresta di avvertenze, ma non eravamo preparati.

L’unica cosa sensata da fare

Oggi non possiamo dire altrettanto. Per quanto imprevedibile sul quando, sappiamo che una pandemia non è un evento impossibile e che prepararci è l’unica cosa sensata da fare. La foresta di esperienze fatte non deve essere dimenticata e tornare a quanto vissuto e osservato deve guidare le decisioni sui nuovi piani pandemici. La disponibilità di una bozza di Piano Pandemico, al momento in valutazione alla conferenza Stato-Regioni, è l’occasione per valutare il ruolo dell’epidemiologia nel contrasto alla pandemia e verificare se la bozza di Piano nazionale risponde ai punti critici per migliorare la risposta dei nostri servizi sanitari all’emergenza. Un piano strategico e operativo dovrebbe fornire alle Regioni e PA le indicazioni essenziali per la redazione di piani locali che evitino frammentazioni inefficaci e inefficienti e potenzino le capacità di risposta.

Durante la pandemia l’epidemiologia ha fornito strumenti essenziali alla descrizione e comprensione della diffusione delle infezioni, ma molti sono stati gli ostacoli anche strutturali agli interventi di contrasto. Tra le lezioni apprese sottolineiamo qui quelle da tenere presente e per le quali l’epidemiologia può giocare un ruolo determinante.

Abbiamo imparato che, anche se la pandemia si basa sulla completa suscettibilità di tutta la popolazione mondiale, non tutti hanno la stessa probabilità di sperimentare conseguenze severe al contagio e avere necessità di assistenza sanitaria. L’età media dei deceduti è stata di 40 anni più elevata dell’età media dei contagiati e lo studio delle cartelle cliniche condotto dall’Istituto superiore di sanità su circa 8.000 pazienti ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei deceduti fosse affetta da diverse patologie croniche. Si è parlato di sindemia per definire il sovrapporsi della diffusione di patologie croniche alle infezioni da Covid-19 e il loro potenziamento reciproco. La lotta alle malattie croniche è nell’agenda della sanità pubblica da diversi anni, e sono in corso diverse iniziative per stratificare la popolazione in livelli di rischio assistenziale. Le iniziative sono soprattutto a scopo programmatorio, ma la pandemia ha sottolineato come la spesso auspicata medicina di iniziativa, per indirizzare le raccomandazioni e gli interventi di mitigazione e prevedere le richieste di assistenza, dovrebbe basarsi sulla conoscenza della propria popolazione di assistiti, definita secondo metodi condivisi.

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Fonte: scienzainrete.




Resistenza ai carbapenemi nella catena alimentare

Sebbene non vi siano prove definitive che questi batteri si trasmettano all’uomo tramite il cibo, sono stati trovati ceppi identici sia negli animali che nell’uomo, il che farebbe supporre una possibile trasmigrazione.

I CPE sono batteri che producono enzimi (carbapenemasi) che inattivano gli antibiotici carbapenemici, utilizzati per trattare infezioni gravi nell’essere umano. La resistenza a tali farmaci rappresenta un rischio significativo per la salute pubblica data la scarsità di altenative terapeutiche efficaci.

Il più recente parere dell’EFSA, basato su una precedente valutazione del 2013, esamina dati e letteratura scientifica fino a tutto il febbraio 2025, attingendo anche a informazioni raccolte nei Paesi dell’UE e dell’EFTA con il contributo del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC).

Risultanze principali

  • Dal 2011 a oggi sono stati rilevati CPE nella catena alimentare in 14 dei 30 Paesi UE/EFTA;
  • i CPE più frequentemente segnalati sono E. coli, Enterobacter, Klebsiellae Salmonella, provenienti principalmente da animali terrestri da reddito (suini, bovini e, in misura minore, pollame – le specie animali monitorate di routine nell’UE quanto a resistenza agli antimicrobici);
  • il numero di casi di CPE segnalati è cresciuto sia nei suini che nei bovini e nel pollame, con aumenti significativi in diversi Stati membri nel 2021 e nel 2023;
  • 10 dei 30 Paesi dell’UE/EFTA hanno istituito piani di emergenza per il controllo e le indagini su questi batteri.

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Fonte: EFSA




Accordo nazionale sulla trasparenza nella ricerca con l’impiego di animali

Il Ministero della Salute, su iniziativa del Comitato nazionale per la protezione degli animali usati a fini scientifici, promuove la sottoscrizione, da parte dei soggetti che svolgono ricerca mediante l’utilizzo di animali a fini scientifici, del Concordato di Trasparenza per l’impiego degli animali nella ricerca scientifica in Italia.

L’accordo, indirizzato ai legali rappresentanti delle istituzioni aderenti, nasce con l’obiettivo di garantire maggiore trasparenza, informazione e consapevolezza pubblica riguardo all’uso degli animali nella ricerca scientifica. La sperimentazione animale, sebbene oggetto di continuo miglioramento attraverso lo sviluppo di metodi alternativi, rimane un elemento fondamentale per il progresso della biomedicina e per il miglioramento della salute umana e animale, nel rispetto del principio One Health.

Le organizzazioni aderenti al concordato si impegnano a:

  • Comunicare chiaramente quando, come e perché vengono utilizzati gli animali nella ricerca, pubblicando informazioni accessibili sui propri siti web.
  • Fornire al pubblico e ai media dati aggiornati e trasparenti sui risultati della ricerca che coinvolge animali, nel rispetto della normativa vigente.
  • Promuovere il dialogo con la società per favorire una maggiore comprensione del valore scientifico e delle implicazioni etiche della sperimentazione animale.
  • Monitorare i progressi e condividere le esperienze, pubblicando annualmente un report sulle azioni intraprese per rispettare gli impegni del concordato.

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Fonte: Ministero della Salute




Afta epizootica: 11 i focolai, rafforzate le misure di controllo

muccaConsiderato che allo stato attuale sono consentite movimentazioni verso il territorio nazionale solo se provenienti da territori al di fuori della zona di ulteriore restrizione, tenuto conto dell’aumentato rischio di introduzione della malattia sul territorio nazionale nonché delle misure di prevenzione e controllo previste dalla vigente normativa unionale e nazionale, la Direzione Generale della Salute Animale dispone le seguenti misure:

1) Per tutti gli automezzi che trasportano animali aftoso sensibili in ingresso nel territorio nazionale attraverso la regione Friuli Venezia Giulia e provenienti da Ungheria e Slovacchia, è necessario procedere, con l’ausilio del personale dell’esercito, alla disinfezione delle ruote bloccando gli automezzi in luoghi idonei all’esecuzione di tale attività.
2) Tali automezzi potranno essere successivamente movimentati unicamente con canalizzazione diretta ad un singolo stabilimento (allevamento) o impianto di macellazione.
3) Gli UVAC a cui sono affidate sulla base delle precedenti note la predisposizione dei controlli a destino su tutte le partite provenienti da Ungheria e Slovacchia, nonché dalle due regioni dell’Austria più volte indicate, verificheranno l’effettivo arrivo delle partite, tramite le ASL competenti sull’allevamento o macello di destinazione.
4) Qualora, invece, tali automezzi dovessero passare attraverso un Centro di raccolta, gli animali ivi spediti saranno sottoposti al loro arrivo al prelievo di campioni per gli esami di laboratorio per l’afta epizootica e dovranno rimanere in tale Centro per almeno 14 giorni al termine dei quali, dopo aver eseguito un ulteriore prelievo di campioni per gli esami di laboratorio per l’afta epizootica, ad esito favorevole degli stessi potranno essere inviati nella struttura di destinazione finale. Durante lo stesso periodo è vietata anche la movimentazione di tutti gli animali aftoso-sensibili nazionali e/o di altri Paesi dell’UE presenti nel Centro di Raccolta.

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Formazione pratica per allevatori e medici veterinari: nuove misure per combattere la resistenza agli antimicrobici

Per sostenere l’obiettivo della strategia Farm to Fork (F2F) e garantire un’applicazione efficace sul campo delle nuove misure per combattere la resistenza agli antimicrobici (AMR) (HaDEA/2023/OP/0009), la Commissione europea ha lanciato una formazione rivolta ad allevatori e medici veterinari che lavorano con animali destinati alla produzione di alimenti nell’ambito del programma Single Market – settore alimentare.

L’obiettivo della formazione è sensibilizzare allevatori e medici veterinari sui nuovi obblighi previsti dalla normativa dell’UE in materia di prescrizione e uso di antimicrobici veterinari e dei mangimi medicati e fornire informazioni sulle possibili misure concrete necessarie per garantire la conformità.

Il corso ha anche lo scopo di promuovere la condivisione di conoscenze sulle migliori pratiche per le diverse specie e sistemi di allevamento, contribuendo a ridurre le malattie e la necessità di utilizzo degli antimicrobici.

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Fonte: Ministero della Salute




Influenza aviaria da virus A(H5N1): fatti reali e potenziali scenari evolutivi

Mentre la pandemia da CoViD-19 non può ritenersi ancora del tutto estinta, complice la reiterata comparsa di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più abili ad eludere l’immunità di popolazione conferita dalle pregresse vaccinazioni e/o infezioni da SARS-CoV-2, il virus dell’influenza aviaria A(H5N1) ad elevata patogenicita’ (highly pathogenic avian influenza/HPAI virus) sembra vieppiu’ rappresentare una minaccia globale.

Tale agente patogeno, affacciatosi per la prima volta sulla scena epidemiologica mondiale nel lontano 1959 in allevamenti di pollame in Scozia (1), sarebbe stato successivamente identificato nel 1996 in allevamenti intensivi di volatili in Cina (2), per essere infine isolato per la prima volta dall’uomo nel 1997. A tutt’oggi ammonterebbero a circa un migliaio gli episodi umani di malattia da HPAI virus A(H5N1), che sono stati segnalati in 23 Paesi e che sarebbero altresì caratterizzati, nel 50% dei casi, da una grave polmonite associata talvolta ad encefalite, nonché da esito fatale (3).

La recente comparsa sulla scena epidemiologica del clade 2.3.4.4b del virus A(H5N1), che si sarebbe diffuso in Eurasia, nelle Americhe e financo all’Artide e all’Antartide grazie alle rotte migratorie seguite dagli uccelli selvatici (4), rappresenterebbe in questo momento secondo il parere della Comunità Scientifica, congiuntamente alle infezioni sostenute da batteri antibiotico-resistenti, una delle più serie minacce pandemiche a livello globale. Ciò risulterebbe ascrivibile alla consistente diffusione geografica, alla notevole virulenza dell’agente patogeno e all’elevato indice di letalita’ dell’infezione, da un lato, nonché all’ampio e progressivamente crescente spettro d’ospite del clade virale 2.3.4.4b, complici le continue e reiterate mutazioni genetiche dello stesso (5).

In particolare, per quanto specificamente attiene al genoma di A(H5N1), sarebbero state sin qui identificate almeno 30 distinte mutazioni a carattere “non silente” – in corrispondenza, soprattutto, dell’emoagglutinina e delle polimerasi virali -, che avrebbero consentito il passaggio dell’infezione a numerose specie di volatili e di mammiferi domestici e selvatici, anche filogeneticamente (e geograficamente) distanti le une dalle altre, l’ultima delle quali sarebbe rappresentata dalla specie ovina, con un caso d’infezione riportato nei giorni scorsi in una pecora dello Yorkshire, nel Regno Unito (6). Sempre fra gli animali domestici si segnalano in special modo i bovini, nel cui latte non pastorizzato e’ stato identificato il virus e la cui ghiandola mammaria albergherebbe al proprio interno recettori in grado di riconoscere i ceppi virali di origine sia aviaria sia umana. Dai bovini allevati in Texas, Michigan ed in altre regioni statunitensi l’infezione si sarebbe quindi diffusa ai gatti attraverso il consumo di latte crudo (7) nonché all’uomo (allevatori in primis), con frequente sviluppo di congiuntivite e, occasionalmente, di sindromi febbrili e di blandi disturbi respiratori (8). Nonostante la documentata assenza di evidenza sin qui ottenuta a supporto della trasmissione di HPAI virus A(H5N1) da uomo a uomo (8), desta tuttavia preoccupazione la dimostrata suscettibilità di topi e furetti nei confronti dell’infezione sperimentalmente indotta con un ceppo virale isolato dalla congiuntiva di un allevatore texano (9). Negli animali esposti, infatti, il virus si sarebbe propagato in maniera sistemica agli organi respiratori, così come a numerosi distretti extra-respiratori (compreso il sistema nervoso centrale) dei medesimi, producendo una malattia ad esito fatale (9).

In un siffatto contesto, lo spiccato neurotropismo e la marcata neuropatogenicita’ del virus A(H5N1) nell’uomo, nel gatto ed in altri animali (10), costituirebbero ulteriori elementi di giustificato allarme per tutte quelle specie suscettibili all’infezione il cui stato di conservazione risulti gia’ più o meno seriamente minacciato. Oltremodo degni di segnalazione appaiono, al riguardo, gli episodi di mortalità collettiva segnalati nella popolazione di leoni marini (Otaria flavescens) lungo le coste di Peru’, Cile e Argentina, oltre che in alcuni esemplari di focena (Phocoena phocoena) e di tursiope (Tursiops truncatus) in Svezia ed in Florida, nonché in un orso polare in Alaska (11).

Cosa ci richiama alla mente e c’insegna al contempo tutto ciò?

La prima riflessione che viene avanti attiene alla necessità, assolutamente inderogabile ed improcrastinabile, di un approccio multidisciplinare, ispirato al concetto-principio della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – nella gestione del “rischio pandemico” e, più in generale, di qualsivoglia “rischio epidemico”, tanto piu’ in presenza di infezioni/malattie sostenute da agenti a documentata capacità zoonosica, come nello specifico caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1).

Nel fare e nel predisporre tutte le azioni “ad hoc” finalizzate a fronteggiare in maniera adeguata i rischi anzidetti, la collaborazione intersettoriale fra servizi medici e servizi veterinari assumerebbe inoltre una rilevanza strategica, che verrebbe ulteriormente avvalorata e potenziata dalla condivisione dei medesimi “tavoli di lavoro” da parte degli uni e degli altri. Fattispecie quest’ultima, mi preme sottolinearlo, che non ha neppure lontanamente riguardato il “Comitato Tecnico-Scientifico per la Pandemia da CoViD-19” (alias “CTS”), che non soltanto si è guardato bene dall’accogliere al proprio interno figure e competenze professionali veterinarie, ma che e’ stato invece incomprensibilmente disciolto due anni dopo la sua istituzione!

Quanto sarebbe stato utile, di contro, poter continuare a disporre di un siffatto organismo governativo, opportunamente rivisitato nella propria composizione, anche e soprattutto quando si pensi che i due terzi delle “malattie infettive emergenti” avrebbero la propria culla d’origine in uno o più serbatoi animali.

Tutto ciò mentre le mutazioni genetiche cui progressivamente ed inarrestabilmente soggiace il clade 2.3.4.4b del virus dell’influenza aviaria A(H5N1) lo starebbero rendendo sempre più in grado, con ogni probabilità, di attuare una quantomai temibile diffusione da Sapiens a Sapiens!

 

Bibliografia

1) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). 1880-1959 Highlights in the History of Avian Influenza (Bird Flu) Timeline.

DOI: https://www.cdc.gov/bird-flu/avian-timeline/1880-1959.html.

2) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Emergence and Evolution of H5N1 Bird Flu. (2024).

DOI: https://www.cdc.gov/flu/avianflu/communication-resources/bird-flu-origin-infographic.html.

3) USA Centers for Disease Control and Prevention (CDC). About Bird Flu. (2024).

DOI: https://www.cdc.gov/flu/avianflu/communication-resources/bird-flu-origin-infographic.html.

4) Huang P., Sun L., Li J., Wu Q., Rezaei N., Jiang S., Pan C. (2023). Potential cross-species transmission of highly pathogenic avian influenza H5 subtype (HPAI H5) viruses to humans calls for the development of H5-specific and universal influenza vaccines. Cell Discov. 9(1):58.

DOI: 10.1038/s41421-023-00571-x.

5) McKie R. (2024). Next pandemic likely to be caused by flu virus, scientists warn.

The Observer.

DOI: https://www.theguardian.com/world/2024/apr/20/next-pandemic-likely-to-be-caused-by-flu-virus-scientists-warn.

6) Mahase E. (2025). H5N1: UK reports world’s first case in a sheep. BMJ 388: r591.

DOI : https://doi.org/10.1136/bmj.r591.

7) Burrough E.R., Magstadt D.R., Petersen B., Timmermans S.J., Gauger P.C., Zhang J., Siepker C., Mainenti M., Li G., Thompson A.C., Gorden P.J., Plummer P.J., Main R. (2024). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Clade 2.3.4.4b Virus Infection in Domestic Dairy Cattle and Cats, United States, 2024. Emerg. Infect. Dis. 30(7):1335-1343.

DOI: 10.3201/eid3007.240508.

8) Garg S., et al. (2025). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus Infections in Humans. N. Engl. J. Med. 392(9):843-854.

DOI: 10.1056/NEJMoa2414610.

9) Gu C., Maemura T., Guan L., et al. (2024). A human isolate of bovine H5N1 is transmissible and lethal in animal models. Nature 636:711-718. DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08254-7.

10) Bauer L., Benavides F.F.W., Veldhuis Kroeze E.J.B., de Wit E., van Riel D. (2023). The neuropathogenesis of highly pathogenic avian influenza H5Nx viruses in mammalian species including humans. Trends Neurosci. 46(11):953-970.

DOI: 10.1016/j.tins.2023.08.002.

11) Di Guardo G. (2024). Central Nervous System Disorders of Marine Mammals: Models for Human Disease? Pathogens 13(8):684.

DOI: 10.3390/pathogens13080684.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Stress da caldo: uno studio rivaluta e approfondisce gli indicatori comportamentali nelle bovine da latte

Lo “stress da caldo” negli animali allevati è uno dei fenomeni che si stanno studiando con maggiore attenzione negli ultimi anni. Infatti, questa condizione riguarda non solo il benessere animale, ma anche la sua salute e, infine, la sua produttività. Date inoltre le frequenti, a volte imprevedibili, variazioni climatiche, questo fenomeno è un oggetto di studio e approfondimenti molto interessante. Di seguito i risultati di un recente studio effettuato sulle bovine da latte.

 Le condizioni di caldo e umidità nella stalla possono causare stress da calore, che rappresenta una delle principali preoccupazioni per il benessere delle bovine da latte. È noto che lo stress da caldo riduce la produzione di latte e aumenta il rischio di problemi di salute (come zoppia e mastite) e di abbattimento; pertanto, non è solo un problema etico ma anche economico. La temperatura e l’umidità sono generalmente riconosciute come i principali fattori determinanti dello stress da calore, con la conseguente adozione diffusa dell’indice di temperatura-umidità (THI) come indicatore dello stress da calore. Tuttavia, anche altri parametri ambientali, come la radiazione solare e la velocità del vento, giocano un ruolo significativo nel determinare la gravità dello stress da calore.
Per un’efficace strategia di gestione dello stress da calore, è essenziale una diagnosi precoce dello stesso. Mentre molti allevamenti monitorano la temperatura e l’umidità nella stalla per adottare strategie di raffreddamento quando le condizioni nella stalla diventano troppo calde, gli indicatori basati sugli animali, come il comportamento delle vacche, consentirebbero un monitoraggio più accurato del carico di calore sperimentato dalle singole vacche.
Ad esempio, le vacche sottoposte a stress da calore riducono il tempo trascorso sdraiate, a mangiare e a ruminare e aumentano il tempo trascorso in piedi.

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Fonte: assaspa.org




Affrontare le sfide sanitarie dell’acquacoltura grazie alle alghe marine

Un recente studio condotto da un team di ricercatori norvegesi e spagnoli esplora il potenziale ruolo svolto dalle alghe marine nel ridurre l’infiammazione intestinale dei pesci d’allevamento. Sostenuta dai progetti BlueRemediomics e ALEHOOP, finanziati dall’UE, la ricerca dispone del potenziale di contribuire ad affrontare le sfide poste dinanzi all’industria dell’acquacoltura al fine di mantenere la salute dei pesci. L’indagine ruota intorno a una famiglia di enzimi, chiamati metalloproteinasi di matrice (MMP) e normalmente presenti nei vertebrati, che rivestono ruoli di vitale importanza in molti processi diversi, come il rimodellamento tissutale, un processo che governa il ripristino di tessuti e organi. È stato tuttavia scoperto che questi enzimi sono implicati anche in diversi disturbi infiammatori, compresi quelli che colpiscono l’intestino. Il team di ricerca si è prefisso di scoprire se l’inclusione nella dieta di determinate specie di alghe marine dotate di proprietà di inibizione delle MMP fosse in grado di ridurre l’infiammazione intestinale che si osserva di norma quando ingredienti di origine vegetale vengono integrati nei mangimi per pesci.

Il valore degli estratti di alghe marine

Per lo studio sono state scelte tre specie di pesci carnivori, ovvero il salmone atlantico, la spigola e l’orata. I ricercatori hanno aggiunto alla dieta estratti di alghe marine brune e rosse fresche e lavorate, rilevando che questi composti bioattivi inibivano significativamente le MMP intestinali nelle tre specie bersaglio. L’équipe ha inoltre eseguito test in vitro simulando le condizioni digestive del salmone atlantico e dell’orata per scoprire che i mangimi sperimentali contenenti farina di alghe mantenevano questi effetti inibitori sulle MMP intestinali. «Le nostre simulazioni in vitro del processo digestivo nel salmone atlantico e nell’orata mediterranea dimostrano la loro elevata efficacia», riferisce Neda Gilannejad, co-autrice dello studio e ricercatrice senior presso NORCE Norwegian Research Centre AS, istituto partner del progetto BlueRemediomics, in un articolo intitolato «Tide of change: Can seaweed help with fish inflammation?» (L’onda del cambiamento: le alghe marine possono aiutare a ridurre l’infiammazione nei pesci?) di Jane Byrne, pubblicato sulla rivista «Feed Navigator». La ricerca mette in evidenza i notevoli vantaggi che l’acquacoltura può ottenere sfruttando il potenziale di risorse come le alghe. «I risultati dimostrano l’importanza rivestita dalla bioprospezione delle risorse marine per affrontare le pressanti sfide sanitarie poste dinanzi all’acquacoltura» osserva Gilannejad nello stesso articolo. Il progetto ALEHOOP (Biorefineries for the valorisation of macroalgal residual biomass and legume processing by-products to obtain new protein value chains for high-value food and feed applications), che ha sostenuto questa ricerca, si è concluso nel febbraio del 2025. In un periodo di quasi 5 anni, ha dimostrato la fattibilità della gestione della biomassa e dell’estrazione di proteine dai sottoprodotti dei legumi e ha convalidato l’utilizzo delle macroalghe verdi e di altre proteine di origine vegetale nei mangimi per animali e nei prodotti alimentari destinati agli esseri umani.

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Fonte: Commissione Europea




Antibiotici in veterinaria. In Italia aumenta consumo, ma rimane sotto media Ue.

Per la prima volta, tutti i 27 paesi dell’Unione Europea (UE27), insieme a Islanda e Norvegia, hanno raccolto e segnalato dati sia sulle vendite che sull’uso di antimicrobici negli animali nei loro paesi. I risultati sono presentati nel primo rapporto annuale di sorveglianza sulle vendite e l’uso di antimicrobici per la medicina veterinaria (ESUAvet) in Europa. I dati coprono l’anno 2023, segnando l’inizio di un esercizio regolare che si tradurrà in rapporti annuali. A comunicarlo è l’Agenzia europea dei medicinali (Ema).

Secondo il rapporto, le vendite di antibiotici per animali destinati alla produzione alimentare hanno rappresentato il 98% delle vendite totali dell’Ue di medicinali veterinari contenenti sostanze con attività antibiotica. La classe di antimicrobici più venduta per gli animali destinati alla produzione alimentare è stata la penicillina, seguita da tetracicline e sulfonamidi.

I dati sull’uso sono stati raccolti per quattro principali specie animali destinate alla produzione alimentare nel 2023: bovini, suini, polli e tacchini, ma i dati condivisi non erano sufficientemente completi e accurati per iniziare a segnalare informazioni quantitative. Gli Stati membri si sono impegnati a consolidare i loro sistemi di raccolta dati sull’uso, con l’obiettivo di aumentare l’accuratezza e la copertura.

Il rapporto ESUAvet si basa sul progetto European Surveillance of Veterinary Antimicrobial Consumption (ESVAC), un’iniziativa volontaria tra le autorità nazionali e l’Ema per raccogliere dati affidabili sulle vendite in tutta Europa nel corso di 12 anni. Durante questo periodo è stato osservato un calo del 50% nelle vendite di antibiotici veterinari, grazie agli sforzi collettivi dei paesi che hanno fornito i dati e sviluppato strategie nazionali per incoraggiare un uso responsabile, nonché ai professionisti e agli agricoltori sul campo. I dati nei report annuali ESUAvet, raccolti tramite la piattaforma ASU, aiuteranno a identificare le tendenze nel consumo di antimicrobici negli animali in modo più accurato e con maggiore granularità, consentendo ai decisori di affrontare la crescente complessità della resistenza antimicrobica e di adottare misure appropriate per proteggere la salute sia degli animali che degli esseri umani in Europa.

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Fonte: quotidianosanita.it