Risultati di quattro generazioni di selezione per il comportamento igienico sensibile alla Varroa nelle api mellifere

La sopravvivenza delle api mellifere, fondamentali per l’impollinazione e la sicurezza alimentare globale, è minacciata da Varroa destructor, un acaro parassita che ha rivoluzionato le sfide dell’apicoltura moderna. Un recente studio esplora l’impatto biologico e produttivo dell’infestazione, le strategie di contenimento attuali e le prospettive offerte dall’allevamento selettivo, con un focus sui comportamenti naturali di resistenza che potrebbero rappresentare la chiave per un’apicoltura più sostenibile. Di seguito l’approfondimento.

 Il settore dell’apicoltura è da tempo confrontato con una grave minaccia biologica: Varroa destructor, un acaro parassita che compromette gravemente la sopravvivenza delle colonie di Apis mellifera in tutto il mondo. Originariamente ectoparassita dell’ape asiatica (Apis cerana), con cui si è coevoluto. V. destructor è passato ad A. mellifera nel XX secolo, diventando rapidamente la principale causa di perdita di colonie nelle regioni temperate. L’acaro si riproduce all’interno delle celle di covata opercolate delle api mellifere e funge da vettore per diversi virus, in particolare il virus delle ali deformate (DWV), rendendolo una delle principali minacce alla salute e alla produttività delle colonie. Gli acari si nutrono del tessuto adiposo delle api in fase di sviluppo e adulte, compromettendo la funzione immunitaria, riducendo la durata della vita e indebolendo la resilienza della colonia. In assenza di un controllo efficace, le colonie infestate spesso collassano nel giro di pochi mesi.

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Fonte: assaspa.org




Tra falchi e tartarughe, cresce il traffico illegale di animali selvatici

Pipistrelli e pesci tropicali

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Fonte: AGI




Uno studio One Health getta nuova luce sul complesso intreccio fra pipistrelli, allevamenti suini e virus

Studio dell’IZSVe individua come almeno otto specie di pipistrelli (chirotteri) utilizzino le aree degli allevamenti di suini dell’Italia settentrionale. Sebbene questa interazione possa presentare effetti positivi per entrambe le specie, l’assenza di barriere fisiche e le lacune nella biosicurezza all’interno delle aziende suinicole possono comportare un rischio residuo per la trasmissione inter-specifica di virus.

Legnaro (Padova) –  I pipistrelli, o chirotteri, sono riconosciuti come serbatoi naturali di diversi coronavirus (CoV), da alcuni dei quali potrebbero essersi evolute specie virali pericolose per l’uomo e per gli animali domestici, come il SARS-CoV-2 o il virus della diarrea epidemica nel suino. Tuttavia, le dinamiche e i meccanismi che permettono il passaggio di questi virus agli animali da allevamento o all’uomo rimangono per lo più sconosciute.

I ricercatori del Laboratorio di zoonosi virali emergenti dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, per valutare i fattori di rischio per la trasmissione di virus dai pipistrelli ai suini, usando come caso studio i coronavirus in alcuni allevamenti dell’Italia settentrionale. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ConVErgence e ha visto la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, Università di Padova, Università di Bari, Università del Sussex (UK) e Coop. STERNA di Forlì.

“L’interfaccia fra animali selvatici, animali domestici ed esseri umani, rappresenta un confine molto labile dove possono emergere malattie infettive a carattere epidemico”, spiega Stefania Leopardi, veterinaria dirigente e supervisore della ricerca. “Sappiamo che gli allevamenti suini rappresentano possibili ‘hotspot’ per la diffusione e la comparsa di varianti ricombinanti potenzialmente pericolose per gli animali o l’uomo. Per questo motivo, l’identificazione di nuovi coronavirus è fondamentale per valutare il loro adattamento nel suino e nell’uomo, ma è altrettanto importante cercare di comprendere i fattori di rischio che possono favorire i fenomeni di spillover nelle specie animali.”

Indagini ecologiche, modellistica ambientale, analisi virologiche

Per la ricerca è stato utilizzato un approccio multidisciplinare ispirato al paradigma ‘One Health’, in cui sono state combinate indagini ecologiche, di modellistica ambientale e di virologia molecolare. Una prima fase ha riguardato il monitoraggio bioacustico in 14 allevamenti suinicoli del Triveneto, mediante cui sono state identificate otto specie di pipistrelli negli allevamenti, con P. kuhlii, P. pipistrellus e H. savii come le più diffuse e attive.

L’analisi del paesaggio e delle strutture aziendali ha permesso di identificare i fattori che influenzano maggiormente l’attività dei pipistrelli. È emerso che gli allevamenti con strutture in grado di attrarre insetti registrano un’intensa attività dei pipistrelli, mentre l’habitat circostante incide in misura minore sulla ricchezza delle specie.

Parallelamente, le indagini virologiche hanno permesso di identificare tre nuove specie di CoV, rilevati in P. kuhlii e H. savii, di cui è stato possibile ottenere il sequenziamento completo del genoma. Fondamentale per questa fase l’analisi combinata di campioni raccolti su tre colonie di P. kuhli e di campioni di archivio provenienti da attività di sorveglianza della rabbia in popolazioni di animali selvatici, condotte negli anni dal Laboratorio.

Fra le specie di pipistrello più comuni, è stata osservata una circolazione attiva di CoV in P. kuhlii, anche in colonie situate all’interno delle aziende suinicole, con l’identificazione di due specie distinte di CoV in questi pipistrelli. I CoV sono stati rilevati durante tutta la stagione di attività dei pipistrelli, con picchi a maggio e ad agosto, e in alcuni casi sembrano essere condivisi tra specie diverse di pipistrelli (P. kuhlii e H. savii), aumentando ulteriormente il rischio di ricombinazione genetica.

Le analisi filogenetiche mostrano inoltre che i suini potrebbero essere esposti ad almeno otto specie distinte di CoV, dal momento che i CoV sono associati in modo specifico al proprio ospite.

Da una parte lo studio mette in evidenza come le aziende suinicole possono rappresentare delle oasi per la conservazione dei pipistrelli in ambienti rurali di agricoltura intensiva, dove la monotonia degli elementi ambientali sta inaridendo la biodiversità. In questi ambienti, i pipistrelli possono svolgere un servizio ecosistemico di controllo degli insetti dannosi, anche contribuendo alla riduzione dei pesticidi. Tuttavia, la circolazione dei pipistrelli è anche associata al rischio potenziale di esposizione ai virus che essi veicolano.

Un aspetto fondamentale rilevato dallo studio è la frequente assenza di barriere fisiche negli allevamenti, allestite per impedire il contatto tra i pipistrelli e i recinti dei suini, e un’applicazione disomogenea delle pratiche di biosicurezza. Rafforzare queste misure potrebbe mitigare il rischio di esposizione ai diversi CoV, e più in generale ai virus associati alla fauna selvatica, migliorando la convivenza tra l’uomo e gli animali domestici e selvatici.

 

Fonte: IZS Venezie




Nuovi strumenti per rilevare l’influenza aviare

L’influenza aviaria A (H5N1) è una malattia degli uccelli altamente contagiosa che ha già infettato milioni di uccelli e ora appare in alcuni mammiferi.

Si sta diffondendo rapidamente in tutto il mondo, portando a abbattimenti di massa di polli/galline negli allevamenti avicoli a causa della sua natura altamente contagiosa e mortale.

La preoccupazione per la diffusione di questo virus è legata al fatto che attraversare la barriera di specie e infettare i mammiferi, tra cui bovini, gatti e esseri umani. Sebbene non si sia in grado di diffondersi diffuso tra gli esseri umani, la sua capacità di infettare i mammiferi solleva problemi di salute pubblica e chiede un maggiore monitoraggio.

L’influenza aviaria ad alta patogenicità, nota anche come “aviaria” è senza dubbio quindi un problema sanitario a livello mondiale. La conoscenza della diffusione del virus e la sua rapida identificazione sono essenziali per controllare la malattia.

Oggi nuovi e accurati test possono rilevare il virus in modo molto specifico. Questi test sviluppati dal JRC (Joint Research Center) possono monitorare la diffusione del virus in varie tipologie di campioni, comprese le acque reflue.

Uno studio congiunto di vari enti a livello europeo ha sviluppato due saggi digitali RT-PCR, uno in grado di rilevare specificamente l’influenza ad alta patogenicità A (H5Nx) clade 2.3.4.4b, virus noti per la diffusione in tutto il mondo e il secondo in grado di rilevare una gamma più ampia di virus dell’influenza A, compresa l’influenza stagionale. Possono essere utilizzati separatamente o in combinazione come approccio diagnostico singolo (saggio duplex).

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Prima è arrivata la carne coltivata in laboratorio, ora è il turno del pesce

Lontano dalla costa, nella pittoresca città universitaria belga di Lovanio, una start-up scommette di poter portare il pesce coltivato in laboratorio sulle tavole degli europei entro il 2030. Nella città portuale tedesca di Amburgo, un’altra start-up si prepara a spedire caviale coltivato in laboratorio a Singapore entro pochi mesi.

Nel 2024, la carne prodotta in vitro coltivando cellule animali ha fatto notizia a Bruxelles dopo che un’azienda ha chiesto l’approvazione dell’UE per un foie gras coltivato in laboratorio, la prima richiesta di questo tipo nell’Unione. Un’altra è seguita lo scorso gennaio.

Alcune start-up europee sperano che il pesce sia la prossima conquista.

“Se lo cerchi su Google… trovi sempre questa capsula di Petri con dentro un filetto. Noi non facciamo così. Non lasciamo crescere un filetto vero e proprio, ma lasciamo crescere le cellule”, ha detto Cornelius Lahme, direttore marketing della start-up tedesca Bluu, fondata nel 2020.

“Le cellule devono sentirsi come se [vivessero] nel corpo del salmone atlantico, per esempio, e poi iniziano a dividersi”, ha aggiunto.

Gli scienziati di Bluu creano una massa di milioni di cellule pronte per essere miscelate con ingredienti vegetali per imitare prelibatezze come il caviale, che intendono lanciare l’anno prossimo a Singapore, centro globale per l’innovazione alimentare.

A differenza delle solite versioni vegetali dei prodotti animali, i pionieri del pesce e della carne coltivata sono orgogliosi di portare avanti il gioco dell’imitazione.

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Fonte: euractiv.it




Nuovi studi sul deterioramento della carne

Un’analisi dei recenti progressi delle strategie emergenti in tempo reale e non distruttive per il monitoraggio della qualità del prodotto e una revisione critica delle conoscenze finora acquisite, anche con l’obiettivo di diminuire gli sprechi.

Il monitoraggio e la valutazione della qualità degli alimenti, in particolare della qualità della carne, hanno ricevuto un crescente interesse per garantire la salute umana e ridurre gli sprechi di materie prime. Gli approcci analitici standard utilizzati per la valutazione del deterioramento della carne soffrono di consumo di tempo, alta intensità di manodopera, complessità operativa e distruttività.

Per superare le carenze di questi metodi tradizionali e monitorare i microrganismi deterioranti o i relativi metaboliti dei prodotti a base di carne lungo tutta la catena di approvvigionamento, stanno emergendo dispositivi/sistemi di analisi con maggiore sensibilità, migliore portabilità, proprietà online/in linea, non distruttive ed economicamente vantaggiose sono urgentemente necessari.

In questo articolo, vengono innanzitutto descritti i concetti di base, le cause e gli indicatori critici di monitoraggio associati al deterioramento della carne.

Successivamente, i metodi convenzionali di rilevamento del deterioramento della carne vengono delineati oggettivamente nei loro punti di forza e di debolezza. Inoltre, è posta l’attenzione sui recenti progressi della ricerca sui dispositivi e sistemi non distruttivi emergenti per la valutazione del deterioramento della carne.

Queste nuove strategie dimostrano il loro potente potenziale nella valutazione in tempo reale del deterioramento della carne.

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Fonte: alimentinews.it




Prima segnalazione di una nuova specie di Pesce Chirurgo per il Mediterraneo Centrale

Continua incessantemente l’attività del team internazionale di ricercatori zoologi affiliati al Museo Civico di Storia Naturale di Comiso, riuscendo a scoprire e pubblicando una nuova specie di Pesce Chirurgo (Acanthurus xanthopterus) di origine indopacifica, rinvenuto l’anno scorso lungo le coste del ragusano, esattamente a Torre di Mezzo.

Il ritrovamento è stato effettuato grazie alla tempestiva segnalazione di un collaboratore della citizen science del museo Federico Brugaletta (di Donnalucata, Ragusa), il quale non è la prima volta a segnalare il rinvenimento di particolari specie marine.
Il Team di ricerca è composto Gianni Insacco e Bruno Zava (Museo di Storia Naturale di Comiso, Italy), Maria Corsini-Foka (Institute of Oceanography, Rodi, Grecia ), Valentina Crobe e Fausto Tinti (Università Bologna) e Alan Deidun (Università Msida, Malta). L’articolo è uscito oggi sulla rivista BIR (BioInvasions Records).
E’ stato necessario quasi un anno affinché questo esemplare di pesce chirurgo venisse studiato e indagato geneticamente per attribuirne la specie con esattezza. L’identificazione tassonomica è stata effettuata attraverso analisi morfologiche e molecolari integrate.

Questo ritrovamento è molto importante perché rappresenta la prima segnalazione per le acque italiane e per il Bacino Centrale Mediterraneo, ma rappresenta anche la terza per l’intero Mediterraneo. Questa segnalazione, arriva a soli tre anni dalla sua prima raccolta nelle acque del mediterraneo egiziano, sembra indicare una rapida espansione verso ovest,  sebbene si possano prendere in considerazione ulteriori (e indipendenti) eventi di introduzione, a causa dell’attuale scarsità di dati sulla distribuzione della specie.
Lo studio tratta anche il rinvenimento e le possibili cause di introduzione anche di altre specie di pesci chirurgo, appartenenti ad altre specie, rinvenuti recentemente in mediterraneo. Considerando le acque costiere italiane, fino ad oggi infatti sono stati segnalati solo Acanthurus chirurgus e Zebrasoma xanthurum, il primo all’isola d’Elba nel 2012 e il secondo nelle acque della Sardegna orientale nel 2015 entrambi nel Mar Tirreno.

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Fonte: lescienze.it




La prossima pandemia? Un nuovo studio identifica gli hotspot globali delle minacce zoonotiche

La prossima pandemia? Un nuovo studio identifica gli hotspot globali delle minacce zoonotiche

Il clima che cambia e l’impatto delle attività umane sulla natura e sull’ambiente aumentano il rischio di epidemie. Uno studio recente di JRC (Joint Research Center) mappa il rischio di epidemie in tutto il mondo e individua i territori più esposti e la loro capacità di rispondere. Lo studio che utilizza l’apprendimento automatico e i dati satellitari rivela che il 9,3% della superficie terrestre globale è ad alto, o molto alto, rischio di epidemia di malattie come Ebola, Zika e febbre emorragica Crimea-Congo, insieme ad altre cinque malattie elencate come priorità dall’OMS per il loro potenziale nel causare epidemie e pandemie.

L’immagine illustra con i colori le zone con più o meno alto rischio di essere punti partenza di epidemie.

Lo studio analizza anche i fattori che possono essere causa dell’emergere di malattie con caratteristiche epidemiche: l’aumento delle temperature, i livelli di precipitazioni annuali più elevati in alcune aree e i deficit idrici in altre, aumentano il rischio di epidemie; inoltre, i cambiamenti di uso del suolo, gli insediamenti umani in prossimità delle aree boschive, l’aumento della popolazione e della densità del bestiame e la perdita di biodiversità – tutti contribuiscono a questo rischio.

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




La malattia X fa paura: servono risposte immediate dall’Europa e dal mondo

Servizi veterinari in prima linea per la prevenzione pandemica. Un avamposto che, però, deve essere sostenuto da scelte politiche orientate verso la realizzazione della One health.

“Non è solo un concetto, sta diventando un principio che unisce tutti i servizi sanitari a livello globale. Ma i buoni principi non sono sufficienti se non vengono traslati in azioni concrete soprattutto quando emergono i primi segni di una malattia”, dichiara Emmanuelle Soubeyran, direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la salute animale (Woah).

La pandemia Covid-19, al riguardo, ha rappresentato uno stress test che ha mostrato dolorosi gap nella sorveglianza dei servizi veterinari, nei sistemi sanitari pubblici e nella coordinazione multi-settoriale. Questi gap, sottolinea Soubeyran, sono ancora presenti.

La one health non rimanga (soltanto) sulla carta

È necessario che la politica si faccia carico del problema: un invito emerso con forza nel corso della conferenza “Preventing Disease X” che si è tenuta a Bruxelles a luglio. “Dobbiamo far crescere il profilo della animal health – dice la direttrice della Woah – e dobbiamo convincere i decisori politici e privati che è molto importante investire in questo settore.

La salute animale non riguarda solo gli animali. Ha un impatto sul commercio, sulla sicurezza alimentare, sulla salute pubblica, sulla resistenza agli antimicrobici e impatta anche sull’ambiente e sulla biodiversità. Purtroppo troppo spesso le conversazioni sono limitate ai ministri della salute in assenza dei ministri dell’agricoltura, dell’economia o della finanza che, invece, dovrebbero essere coinvolti”.

Senza il loro engagement, l’agenda One health rischia di restringersi al concetto One human health. “Abbiamo perso un elefante nella stanza”, aggiunge Roxane Feller, segretario generale di Animal health Europe. “Noi continuiamo a pensare che persista una mancanza di comprensione dell’intrinseca correlazione tra la salute umana, animale e ambientale”.

Qualcosa comunque si sta muovendo nei palazzi europei, secondo la dirigente che cita al riguardo un report del Parlamento sulla sostenibilità degli allevamenti e un dibattito che si è svolto presso il Concilio europeo sulle vaccinazioni e il controllo delle malattie. Ma forse il problema non è tanto il grado di consapevolezza, quanto (come emerso durante il convegno) la frustrazione degli addetti ai lavori al cospetto della frammentazione del sistema.

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Fonte: aboutpharma.com




Alimenti etnici: studio rivela presenza di ingredienti non dichiarati

Lo studio, primo in Italia a impiegare su larga scala la tecnica del metabarcoding su campioni raccolti nell’ambito dei controlli ufficiali, ha analizzato 62 alimenti venduti tra Lazio e Toscana, individuando anche la presenza di specie allergeniche non dichiarate, come pesci e molluschi, con potenziali rischi per la salute dei consumatori.

La ricerca, durata due anni e finanziata dal Ministero della Salute, è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri” (IZSLT). Il contributo del FishLab è stato cruciale per sviluppare e applicare protocolli innovativi basati sulle tecnologie NGS, capaci di affiancare i metodi ufficiali già in uso e rafforzare così i sistemi di sorveglianza sulla qualità e sulla trasparenza degli alimenti.

Dai risultati sono emersi casi sorprendenti: prodotti etichettati come vegetariani contenevano DNA di maiale, pollo o pesce; in un campione dichiarato “solo pollo” sono state trovate tracce di manzo, anatra e persino cervo; un alimento a base di riso riportava la presenza di molluschi come vongole e ostriche che, però, non risultavano dichiaratiin altri casi ingredienti indicati sull’etichetta – ad esempio gamberi o uova – non sono stati rilevati affatto.

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Fonte: unipi.it