Rapporto Unep: il mondo sulla rotta dei 2,5 gradi di riscaldamento globale

La prossima settimana, a Belém in Brasile, si aprirà la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop30. Delegazioni governative, organizzazioni della società civile, scienziati ed esperti si riuniranno per cercare di rilanciare l’azione climatica globale in un contesto geopolitico sempre più complesso. A pochi giorni dall’inizio dei lavori, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) ha pubblicato il rapporto annuale Emissions Gap, che analizza la distanza tra gli obiettivi internazionali di riduzione delle emissioni e le reali promesse dei governi.

L’allarme del rapporto Emissions Gap

Il nuovo documento dell’Unep mostra che, con gli impegni attuali, la temperatura media globale continuerà a crescere ben oltre i limiti fissati dall’Accordo di Parigi. Anche se tutti i Paesi rispettassero pienamente le loro promesse, il riscaldamento globale si attesterebbe tra 2,3 e 2,5 gradi. In assenza di ulteriori azioni, potrebbe raggiungere i 2,8 gradi.

Secondo il rapporto, solo 60 Stati, responsabili del 63% delle emissioni globali, hanno presentato o annunciato le nuove Nationally Determined Contributions (Ndc), documenti in cui ciascun Paese illustra le proprie strategie per ridurre le emissioni di gas serra. Tali piani avrebbero dovuto essere aggiornati da tutti i governi entro il 30 settembre, ma la maggior parte non ha ancora adempiuto a questo obbligo.

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Fonte: ambienteinsalute.it




Sicurezza alimentare, benessere e sostenibilità: al via l’accordo IZSLT–API per l’acquacoltura del futuro

Rafforzare la sicurezza sanitaria, promuovere il benessere animale e sostenere la sostenibilità delle produzioni ittiche: sono questi gli obiettivi principali dell’accordo triennale siglato tra l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri” (IZSLT) e l’Associazione Piscicoltori Italiani (API), la principale organizzazione di categoria del settore.

L’intesa mira a consolidare, attraverso ricerca, innovazione e formazione, un comparto che in Italia conta oltre 700 impianti e una produzione annua di 54.400 tonnellate di pesce appartenente a venti specie, per un valore economico stimato di circa 400 milioni di euro. In mare, le concessioni marittime sono 19, con una produzione di 17.000 tonnellate.

Le attività congiunte si articoleranno in quattro ambiti strategici: prevenzione sanitaria e sorveglianza epidemiologica, d

iagnostica e monitoraggio sanitario per una risposta tempestiva alle emergenze infettive, benessere animale e biosicurezza con l’adozione di pratiche gestionali avanzate, e supporto tecnico-scientifico e formativo rivolto agli operatori e alle imprese del settore.

Un ruolo di rilievo è affidato all’Officina Farmaceutica dell’IZSLT di Siena, specializzata nella produzione di vaccini autologhi per specie ittiche. L’attività consentirà di sviluppare soluzioni mirate per le principali patologie di allevamento, riducendo l’uso di antimicrobici e contribuendo alla qualità e alla sostenibilità complessiva della filiera.

«Questo accordo rappresenta un passo avanti concreto nella costruzione di un sistema di acquacoltura più sicuro, sostenibile e competitivo — ha dichiarato il Commissario Straordinario dell’IZSLT, Dr. Stefano Palomba —. Lavorare insieme agli operatori del settore significa condividere conoscenze e responsabilità per garantire salute animale, qualità alimentare e tutela ambientale.»

«Questo accordo si inserisce pienamente nella visione strategica del Consiglio Direttivo — ha dichiarato il Presidente dell’API, Dr. Matteo Leonardi — e rappresenta un passo importante verso una sempre più stretta integrazione tra ricerca pubblica e comparto produttivo. È un modo concreto per valorizzare le competenze scientifiche nazionali e metterle al servizio di un’acquacoltura sostenibile, moderna e resiliente, capace di garantire qualità, sicurezza e innovazione lungo tutta la filiera.»

L’accordo, già operativo, prevede la definizione di protocolli tecnici specifici per ciascun progetto congiunto nelle regioni Lazio e Toscana. Il primo protocollo, siglato subito dopo la firma, coinvolge anche l’Organizzazione di Produttori del Pesce (OP), rappresentata dal presidente Claudio Pedroni, e riguarda le attività di supporto che l’IZSLT fornirà alla produzione ittica, con particolare attenzione alla prevenzione sanitaria, alla formazione, alla diagnostica e al benessere animale.

Comunicato stampa

Fonte: IZS Lazio e Toscana




Dieci anni dall’Accordo di Parigi, si può fare di più

Con l’Accordo di Parigi (dicembre 2015), i Paesi si sono impegnati a elaborare i propri piani di riduzione delle emissioni di gas serra, noti come Contributi determinati a livello nazionale (NDC). Nel loro insieme, questi impegni  non bastano a garantire nemmeno l’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi: avere una probabilità del 66% di restare sotto i 2 °C di riscaldamento entro la fine del secolo. Nel 2024 la soglia di 1,5 °C è già stata superata, anche se temporaneamente. Sebbene ciò non rappresenti ancora un superamento di lungo periodo, indica che esiste il forte rischio di oltrepassare il limite in modo permanente nel prossimo futuro. Le ragioni del ritardo sono di due tipi: un deficit di attuazione e uno di ambizione degli stessi impegni presi a livello nazionale.

Secondo l’IPCC, prima della crisi energetica legata alla guerra in Ucraina nel 2022, la produzione di energia era responsabile del 34% delle emissioni nette totali di gas serra di origine antropica a livello mondiale, cioè 20 gigatonnellate di CO2 equivalente all’anno; l’industria rappresentava il 23% (14 Gt), l’agricoltura, l’uso delle foreste e gli altri usi del suolo il 22% (13 Gt), i trasporti il 15% (8,7 Gt) e gli edifici il restante 6% (3 Gt). Raggiungere emissioni nette zero entro metà secolo è l’obiettivo comune, ma i percorsi per arrivarci differiscono profondamente tra i settori. La ricerca ha chiarito che passare alle fonti di energia rinnovabile e alla mobilità elettrica di corto raggio è molto più fattibile rispetto alla decarbonizzazione in ambito industriale, agricolo o nel trasporto aereo, a causa delle difficoltà tecniche nella transizione dei settori hard-to-abate, della mancanza di alternative scalabili per il trasporto a lunga distanza, dell’inefficienza dei combustibili alternativi per l’aviazione, e delle complessità legate a fattori rilevanti per il settore agricolo, come  le tendenze demografiche, i sistemi alimentari, la competizione per l’uso del suolo.

Per questi motivi, tutti i percorsi verso emissioni nette zero elaborati da IPCC e IEA includono almeno una parte di mitigazione da realizzare mediante le strategie di rimozione dell’anidride carbonica (CDR), come l’afforestazione, la bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio (BECCS), il potenziamento dell’assorbimento del carbonio nel suolo o la cattura diretta della CO2 dall’aria. La rimozione della CO₂ (CDR) è indispensabile per compensare le emissioni residue, ma non può sostituire un abbattimento  profondo alla fonte. L’IPCC AR6 la definisce “inevitabile” per raggiungere lo zero netto, ma solo come integrazione a una rapida decarbonizzazione. Livelli troppo elevati di CDR potrebbero infatti incoraggiare un maggiore consumo di combustibili fossili, soprattutto nel breve-medio termine, prima che il calo dei costi delle energie rinnovabili consenta di alimentare la CDR con energia pulita. Inoltre, gli impatti sull’uso del suolo potrebbero essere molto significativi: in uno scenario estremo di mitigazione con CDR molto elevato, la superficie agricola diminuirebbe dell’86% tra il 2050 e il 2100.

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Fonte: scienzainrete.it




Tutela delle acque e dei mari. Rete Izs: “La scienza al servizio della salute pubblica e dell’ambiente”

La tutela delle acque e dei mari rappresenta una delle grandi sfide del nostro tempo: cambiamenti climatici, inquinamento, diffusione di plastiche e specie aliene, resistenza antimicrobica e nuove esigenze produttive dell’acquacoltura mettono alla prova la salute degli ecosistemi acquatici e, con essa, la sicurezza alimentare e la salute collettiva. In questo scenario, la Rete degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali Italiani è impegnata, anche con progetti di cooperazione internazionale, in un ampio programma di sorveglianza epidemiologica, diagnostica, monitoraggio e ricerca per la salvaguardia del benessere delle acque e degli ambienti marini, un ambito in cui ambiente, salute animale e salute umana si intrecciano profondamente.

“Tutelare le acque e i mari significa garantire un patrimonio naturale da tramandare alle future generazioni – spiega Simonetta Cherchi, Direttore Generale dell’IZS della Sardegna – e assicurare un ecosistema sostenibile, ancor di più in ragione delle caratteristiche specifiche della nostra Regione. Le acque rappresentano, per la Sardegna in particolare, un patrimonio naturale di inestimabile valore, essenziale per la tutela della biodiversità e per attività come acquacoltura, pesca e turismo. In tale contesto la condivisione di know-how ed esperienze è fondamentale. Progetti come Aquae Strength rafforzano le capacità diagnostiche, migliorano la sorveglianza epidemiologica e promuovono un uso più responsabile dei medicinali veterinari nella produzione ittica, riducendo l’impatto ambientale e migliorando la qualità delle produzioni”.

Un impegno condiviso anche dall’IZS delle Venezie, che dal 1994 è Centro di Referenza Nazionale per lo studio e la diagnosi delle malattie dei pesci, molluschi e crostacei, parte del Centro Specialistico Ittico (CSI), che ospita anche il Laboratorio di Referenza dell’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (WOAH) per l’encefalo-retinopatia virale dei pesci. “Gli Istituti sono oggi protagonisti di una rete di collaborazioni dal Mediterraneo fino all’Asia centrale e al Sud-Est asiatico – sottolinea Giuseppe Arcangeli, direttore del Centro. Iniziative come Aquae Strength e Central Aqua rafforzano la sicurezza alimentare dei prodotti ittici, Tarta-Net tutela la biodiversità del Mediterraneo monitorando lo stato di salute della tartaruga marina comune e la diffusione di geni di antibiotico-resistenza. Oltre alla ricerca e alla diagnostica avanzata, l’Istituto è impegnato su progetti mirati come quello sul granchio blu, che minaccia la biodiversità del Delta del Po, e partecipa a programmi europee come FuturEUAqua, per rendere l’acquacoltura più resiliente e sostenibile. È un lavoro di squadra che mette la scienza al servizio della salute pubblica e della tutela ambientale”.

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Fonte: quotidianosanita.it




L’evoluzione genetica del virus dell’influenza aviaria HPAI H5N1 e il timore per una futura trasmissione interumana

Identificati per la prima volta in Cina nel 1996, i virus dell’influenza aviaria ad alta patogenecità HPAI A (H5Nx) appartenenti al lineage A/Goose/Guangdong/1/1996 (Gs/Gd) si sono rapidamente evoluti in una delle principali minacce sanitarie globali. I virus H5Nx, a partire dai primi anni 2000, hanno causato gravi e numerose epidemie avicole con ingenti perdite economiche e hanno dimostrato di essere in grado di infettare un’ampia gamma di specie di uccelli selvatici e mammiferi, compreso l’uomo (1).

Fino al 1997, i virus ad alta virulenza HPAI erano confinati al pollame, e i focolai potevano essere controllati con l’abbattimento degli animali infetti e la vaccinazione preventiva dei sani; fino ad allora i virus HPAI del pollame non si erano diffusi ai volatili selvatici e quest’ultimi non avevano avuto nessun ruolo nella trasmissione ai volatili domestici (1).

Le continue moltiplicazioni e i frequenti eventi di riassortimento tra i virus HPAI H5 del lineage Gs/Gd e i virus LPAI circolanti negli uccelli selvatici, hanno contribuito a modificare profondamente la sequenza genetica codificante l’emoagglutinina HA. Questo processo ha portato alla formazione di numerose linee evolutive distinte, denominate “clade” e “subclade”: cioè gruppi di virus strettamente correlati tra loro che condividono caratteristiche genetiche simili e che si sono evoluti da un antenato comune (1).

Dalla fase inziale circoscritta al Sud-est asiatico, il virus ha rapidamente esteso il proprio raggio d’azione. Fin dal 2003 infatti, i virus HPAI H5 Gs/Gd sono diventati enzootici in diversi paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale (1). Un punto di svolta si è verificato nel 2005 con il primo grande evento di mortalità di massa di uccelli migratori nel Lago Qinghai, in Cina, che ha segnato l’inizio della diffusione intercontinentale del lineage Gs/Gd e la comparsa per la prima volta in Europa e in Africa durante la migrazione autunnale degli uccelli (1).

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Due agenti patogeni decimarono l’esercito di Napoleone durante la ritirata dalla Russia nel 1812

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Fonte: AGI




Cambiamenti climatici: anche i mammiferi del deserto sempre più vulnerabili all’aumento delle temperature

Nonostante il termine deserto si associ a un’idea di vuoto o disabitato, gli ecosistemi desertici ospitano una componente importante di biodiversità, unica nel suo genere.

Da animali ormai noti ai più come la volpe del deserto a simboli della conservazione come l’orice (antilope africana e del Medio Oriente), fino a piccoli roditori: sono solo alcuni esempi della biodiversità che caratterizza i deserti del nostro Pianeta.

Le condizioni estreme alle quali queste specie sono esposte hanno portato nel tempo alla selezione di tratti che le rendono adatte alla vita di deserto. Tuttavia, nemmeno tali specifici adattamenti potrebbero essere abbastanza per far fronte alla crisi climatica.

A rivelarlo è uno studio pubblicato sulla rivista Global ecology and biogeography, condotto dai ricercatori della Sapienza Università di Roma sui mammiferi della penisola arabica.

La ricerca sui mammiferi della Penisola arabica

I risultati dimostrano che le tolleranze termiche e gli adattamenti dei mammiferi di deserto all’aridità potrebbero rivelarsi inefficaci contro l’aumento delle temperature, esponendo questa componente unica della biodiversità a conseguenze potenzialmente disastrose.

“Abbiamo scelto per il nostro studio – spiega Chiara Serafini, ricercatrice del Dipartimento di biologia e biotecnologie Charles Darwin – una delle zone più aride della Terra. Non a caso qui si trova il più esteso deserto sabbioso al mondo, il Rub’ al-Khali. Questo ci ha consentito di indagare sulla risposta al cambiamento climatico delle specie che oggi vivono ai limiti termici del nostro Pianeta”.

Partendo dalla tolleranza termica delle singole specie, i ricercatori hanno constatato che i mammiferi della penisola arabica non soltanto si trovano a vivere ai confini termici della Terra. Ma sfidano anche i limiti concessi dalla loro stessa fisiologia. In altre parole, le condizioni climatiche in cui questi animali storicamente vivono sono estremamente vicine alla loro massima tolleranza possibile.

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Fonte: aboutpharma.it




Passi avanti

AntibioticoresistenzaSebbene l’uso degli antimicrobici sia ancora molto elevato in zootecnia, il sistema veterinario del nostro Paese ha fatto negli ultimi anni notevoli progressi

L’antimicrobicoresistenza (Amr) continua a rappresentare una delle principali minacce per la salute pubblica a livello globale. Nello scenario europeo i dati più recenti evidenziano progressi significativi nella riduzione del consumo di antimicrobici negli animali da produzione alimentare, ma una sostanziale stabilità nel settore umano.

In Europa. Il rapporto congiunto delle tre agenzie europee (Efsa, Ema ed Ecdc), noto come Jiacra IV, analizza in modo integrato i dati su consumo di antimicrobici (Amc) e Amr in batteri isolati da esseri umani e animali, raccolti tramite le reti di sorveglianza Ue tra il 2019 e il 2021. Lo studio adotta l’approccio One Health, riconoscendo l’interconnessione tra salute umana, animale e ambientale.

Nel 2021, il consumo di antimicrobici è stato pari a 125 mg/kg di biomassa umana (nei 28 paesi Ue/See analizzati) e 92,6 mg/kg di biomassa animale (29 paesi), con ampie variazioni nazionali. Come si evince dal report, l’Italia è fra i paesi con il più alto consumo di antibiotici sia in medicina umana che in veterinaria.

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Fonte: panoramadellasanita.it




Italia leader nell’economia circolare, ma in difetto sulla bio diversità

economia circolareE’ il quadro ambientale che emerge dall’analisi del Rapporto europeo “Europe’s Environment 2025” dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, del Rapporto Ispra “Stato dell’Ambiente in Italia 2025: Indicatori e Analisi” e il Rapporto Ambiente SNPA.

L’economia circolare «va bene», la biodiversità è invece «una sfida aperta», mentre la qualità ambientale «presenta risultati ancora contrastanti».

È il quadro ambientale dell’Italia che emerge dall’analisi e dal confronto del Rapporto europeo “Europe’s Environment 2025” dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, del Rapporto Ispra “Stato dell’Ambiente in Italia 2025: Indicatori e Analisi” e il Rapporto Ambiente SNPA. Tre Rapporti che, come sottolineano i promotori, «non sono studi isolati, ma parte di un’unica cornice conoscitiva fondata su indicatori ambientali ufficiali, costantemente aggiornati dall’Ispra e dal Snpa».

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Fonte: ilsole24ore.com



Zanzare Culex pipiens e virus West Nile: nuovo studio riscrive la storia evolutiva

Zanzare Culex pipiens e virus West Nile: nuovo studio riscrive la storia evolutiva

Nel 2025 l’Italia ha registrato un aumento significativo dei casi di virus trasmessi all’uomo dalle zanzare. Tra le specie più diffuse, la Culex pipiens ha infettato oltre 700 persone, metà delle quali ha sviluppato la forma neuroinvasiva del virus, con 69 decessi. Questo scenario preoccupa le autorità sanitarie e pone l’accento sulla necessità di comprendere meglio i meccanismi di trasmissione e adattamento delle zanzare vettori.

Le due forme di Culex pipiens presenti in Italia

Nel nostro Paese la Culex pipiens è presente in due varianti distinte. La forma molestus, che punge prevalentemente l’uomo durante le ore serali e notturne, e la forma pipiens, che invece preferisce nutrirsi del sangue degli uccelli. Queste differenze di comportamento influenzano il ruolo delle due forme nella diffusione dei virus, in particolare del West Nile, che si trasmette attraverso il passaggio del patogeno dagli uccelli agli esseri umani.

Lo studio che smentisce la “zanzara della metropolitana”

Per decenni si è creduto che la forma molestus si fosse evoluta solo negli ultimi due secoli, adattandosi agli ambienti sotterranei e urbani del Nord Europa, tanto da essere soprannominata la “zanzara della metropolitana di Londra”. Tuttavia, un nuovo studio internazionale, guidato dai ricercatori dell’Università di Princeton con la partecipazione della Sapienza di Roma e di altri atenei mondiali, ha ribaltato questa teoria.

Le origini antiche della Culex pipiens form molestus

La ricerca, pubblicata sulla rivista Science lo scorso 23 ottobre, ha analizzato il DNA di migliaia di esemplari di Culex pipiens provenienti da diverse aree geografiche. I risultati dimostrano che la forma molestus si è evoluta e adattata all’uomo tra 1.000 e 10.000 anni fa, in una società agricola dell’Antico Egitto. È in questo contesto che la specie avrebbe sviluppato la capacità di vivere a stretto contatto con gli insediamenti umani, abilità che nei secoli successivi le ha permesso di colonizzare anche gli ambienti sotterranei europei.

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Fonte: ambienteinsalute.it