Effetti biologici delle radiazioni: Siamo prossimi ad una nuova catastrofe?

A fronte degli 80 anni oramai trascorsi dal lancio dei primi ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cui hanno fatto seguito i due gravi incidenti rispettivamente occorsi nel 1986 e nel 2011 alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, nonché a quella nipponica di Fukushima, incombe ancora sull’intera umanità lo spettro di una o più “fughe radioattive” derivanti dai reiterati bombardamenti russi sulla centrale ucraina di Zaporizhzhia, oltre a quelli effettuati in questi giorni dall’aviazione militare israeliana e statunitense sulle centrali e sugli impianti di arricchimento dell’uranio siti in Iran.

In un siffatto contesto, incredibilmente dimentico delle sonore lezioni che la storia degli ultimi 80 anni ci ha consegnato, appare oltremodo giustificata una sintetica rassegna sui danni biologici provocati dalle radiazioni, già peraltro supportati da una pressoché monumentale letteratura scientifica.

Premesso che le radiazioni possono essere classificate in vario modo, sulla base della loro natura (radiazioni corpuscolate ed elettromagnetiche), intensità e lunghezza d’onda (radiazioni eccitanti e ionizzanti) e premesso, altresì, che i succitati danni si realizzerebbero con modalità sovrapponibili sia nell’uomo che negli animali, sarebbe necessario operare, in primis, una debita distinzione fra danni acuti e danni cronici.

I primi risulterebbero ascrivibili e simili al “danno da calore”, con la comparsa di più o meno estese ustioni di grado e d’intensità variabili in relazione al tempo di esposizione e alla distanza dalla fonte di energia radiante (Altucci et al., 2019).

Ben piu’ articolato e complesso si fa il ragionamento, di contro, allorquando ci si addentri nella disamina degli effetti “a lungo termine” delle radiazioni, ove una prima fondamentale distinzione attiene agli effetti “diretti” arrecati alle principali macromolecole organiche quali i lipidi presenti sulle membrane cellulari (con conseguente formazione di lipoperossidi altamente instabili), unitamente alle proteine (ad attività enzimatica e non), agli zuccheri e, soprattutto, agli acidi nucleici (DNA e RNA), con successiva comparsa di gravi ed estesi fenomeni di denaturazione/degradazione/rottura nonché di mutazioni a carico degli stessi (formazione di dimeri pirimidinici nel caso di radiazioni eccitanti quali le ultraviolette). Analoghi effetti, definiti “indiretti”, si realizzerebbero in virtù del danno primariamente generato dall’interazione delle radiazioni con l’acqua intra- ed extracellulare e dalla sua conseguente dissociazione/rottura (Altucci et al., 2019).

Fra gli oltre 200 citotipi di cui si compone il nostro organismo e, più in generale, quello di tutti gli altri mammiferi terrestri ed acquatici, sarebbero altresì presenti livelli di suscettibilità oltremodo variabili nei confronti del danno “cronico” da radiazioni, cosicché le cellule “costituivamente” caratterizzate da un’intensa attività replicativa (gameti, cellule midollari progenitrici di globuli rossi, leucociti e piastrine, linfociti, cellule dello strato basale dell’epidermide, etc.) risulterebbero ben più sensibili nei confronti degli elementi “stabili” e, soprattutto, rispetto alle cellule “perenni” (quali i neuroni), con conseguente sviluppo di fenomeni di aplasia/ipoplasia (c.d. “castrazione da raggi”) e/o di processi neoplastici (Honjo e Ichinohe, 2025; Lopes et al., 2025).

Ovviamente, poiché ogni organismo si caratterizza come un sistema biologico “dinamico”, esistono tutta una serie di dispositivi atti a fronteggiare i danni prodotti dalle radiazioni – oltre che da molteplici ulteriori “noxae” fisiche, chimiche e biologiche – sulle cellule e sui tessuti che compongono ciascun individuo. Un ruolo di primo attore spetta senza alcun dubbio, in tale ambito, alla proteina p53 (il c.d. “guardiano della cellula”), un fondamentale fattore di trascrizione che nelle cellule di Homo sapiens sapiens e’ codificato da un gene situato sul cromosoma 17 (Altucci et al., 2019). In seguito a un danno a carico del patrimonio genetico, la p53 interviene nella riparazione dello stesso e, ove l’alterazione genomica fosse di entità particolarmente significativa, la p53 opera avviando il ben noto processo dell’ “apoptosi”, alias “morte cellulare programmata”. Purtroppo anche il gene codificante per la p53 non risulterebbe risparmiato dagli eventi mutazionali conseguenti al danno da radiazioni, cosicché ne deriverebbe una proteina mutata, che anziché impartire un ordine/comando di “morte programmata” alla cellula-ospite, indirizzerebbe la stessa verso un percorso di trasformazione neoplastica. Ciò costituisce, invero, la principale motivazione per la quale la p53 “mutata” si caratterizzerebbe a sua volta come una “firma molecolare” precoce in grado di delineare l’avvio di un percorso di “instabilità genetica progressiva” culminante nella trasformazione tumorale (Altucci et al., 2019).

A conclusione di questa sintetica rassegna sui principali effetti biologici esplicati dalle radiazioni, a supporto dei quali è disponibile una produzione bibliografica oltremodo significativa sia per qualità che per quantità, ivi compresi una serie di studi svolti su modelli animali particolarmente innovativi (Honjo e Ichinohe, 2025), ritengo doveroso sottolineare, anche e soprattutto a fronte dell’assenza di confini geografici che gli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima hanno chiaramente evidenziato, la necessità di un approccio “One Health” nella gestione e, nondimeno, nella prevenzione di siffatte catastrofi, tanto piu’ alla luce delle incombenti minacce rappresentate dai teatri bellici ucraino e iraniano.

Historia magistra vitae!

 

Bibliografia

Altucci L, Berton G, Stivala LA, Moncharmont B. (2019). Patologia Generale, Volume 1, Idelson-Gnocchi Editore.

Honjo Y, Ichinohe T. (2025). Neural crest cells are sensitive to radiation-induced DNA damage. Tissue Cell 94:102774.

DOI: 10.1016/j.tice.2025.102774.

Lopes R, Teles P, Santos J. (2025). A systematic review on the occupational health impacts of ionising radiation exposure among healthcare professionals. J. Radiol. Prot. 45(2).

DOI: 10.1088/1361-6498/added2.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Centro di Collaborazione WOAH dell’IZSLT confermato per il quinquennio 2025 – 2030

L’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (WOAH) ha rinnovato per altri cinque anni, dal 2025 al 2030, la designazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri” (IZSLT) come Centro di Collaborazione sulle Good Beekeeping Management Practices and Biosecurity Measures in the Apiculture Sector.

In una lettera firmata dalla dr.ssa Montserrat Arroyo, vice-direttrice generale WOAH per gli International Standards and Science, la Commissione degli Standard Biologici «ha esaminato con grande apprezzamento il rapporto di autovalutazione 2020-2025, riconoscendo i significativi progressi compiuti negli ultimi cinque anni» e rilevando che «la maggior parte degli obiettivi iniziali è stata raggiunta con successo». Il documento sottolinea inoltre il ruolo chiave del Centro nel sostenere la missione della WOAH di migliorare, su scala globale, la salute e il benessere animale, apprezzandone «dedizione, competenza e spirito di collaborazione».

«Il rinnovo della collaborazione WOAH è insieme un riconoscimento e un impegno», commenta il Commissario Straordinario dell’IZSLT, dr. Stefano Palomba. «Premia la qualità scientifica del nostro Istituto nel settore apistico, ma soprattutto ci sprona a investire ancora di più in ricerca, formazione nel piano della cooperazione internazionale per proteggere la salute delle api e, con essa, la sicurezza delle filiere agro-alimentari»

Per l’IZSLT questo risultato consolida una leadership maturata negli anni grazie a progetti di ricerca applicata, formazione tecnica e assistenza sul campo alle imprese apistiche. Il nuovo mandato quinquennale consentirà di:

  • ampliare le attività di sorveglianza e prevenzione delle patologie apiarie;
  • sviluppare ulteriori linee guida su biosicurezza e buone pratiche di allevamento;
  • rafforzare la cooperazione con gli altri Centri di Collaborazione e Reference Centre WOAH in una prospettiva One Health.

«Proseguiremo a lavorare fianco a fianco con il Ministero della Salute, le Regioni e gli stakeholder internazionali», conclude Palomba, «perché garantire l’efficienza degli alveari significa tutelare biodiversità, agricoltura e sicurezza alimentare: tre pilastri essenziali per il futuro dei sistemi produttivi e ambientali».

Fonte: IZS Lazio e Toscana



Organoidi di pipistrello: un nuovo modello per studiare i virus zoonotici

Per la prima volta una collezione di organoidi derivati da diverse specie di pipistrello permette di isolare nuovi virus, studiare le infezioni e testare farmaci in un unico sistema

Dall’influenza spagnola al COVID-19, sono innumerevoli i virus di origine zoonotica, cioè trasmessi agli esseri umani da una specie diversa dalla nostra: in effetti, si stima che il 75% delle malattia emergenti sia zoonotica. E i pipistrelli sono un importante serbatoio di virus che, come hanno dimostrato epidemie passate, a un certo punto “imparano” a infettare anche gli umani, a volte approfittando di un ospite intermedio.

Eppure, della relazione tra questi virus e i pipistrelli, loro ospiti naturali, sappiamo relativamente poco; e questa mancanza di conoscenze è un ostacolo anche, per esempio, alle valutazioni del rischio di nuovi spillover. In questo contesto, gli animali da laboratorio non possono fornirci molte informazioni, per varie ragioni: questi virus non si replicano bene in specie diverse dal pipistrello né, d’altronde, altri animali potrebbero replicare le caratteristiche immunitarie uniche degli unici mammiferi in grado di volare. Infine, i pipistrelli non possono essere allevati in laboratorio. I vincoli sono sia etici sia logistici, perché si tratta di animali notturni, volatori, di lunga vita e con esigenze ambientali specifiche, quindi difficili da mantenere e studiare in modo sistematico.

Come saperne di più, allora, sulla relazione tra i pipistrelli e i molteplici virus che li possono infettare? Come ottenere un modello sperimentale realistico?

Un nuovo studio, da poco pubblicato su Science, mostra quanto preziose possano essere le New Approach Methodologies (NAM), quelle a volte chiamate più genericamente “metodi alternativi”: il nuovo lavoro, guidato dall’Institute for Basic Science (IBS) coreano, ha infatti creato per la prima volta una collezione diversificata di organoidi di pipistrello, derivati da cinque specie (insettivori dell’Asia orientale) e da quattro tipi di tessuti (trachea, polmone, rene e intestino tenue).

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Fonte: research4life.it




Se il commercio globale si fermasse, il vostro paese riuscirebbe ad alimentarvi?

Le politiche fragili, i conflitti in corso, i dazi doganali e l’emergenza climatica mettono a rischio le reti commerciali e rendono i paesi vulnerabili agli shock di mercato; di conseguenza, questi ultimi stanno dando priorità all’autosufficienza e alla sicurezza alimentare. Ma cosa succederebbe se il commercio si interrompesse bruscamente per una di queste ragioni? Il vostro paese è completamente autosufficiente e in grado di provvedere in maniera completa al fabbisogno alimentare della sua popolazione? Per rispondere a questa domanda, una squadra di ricercatori dell’Università di Göttingen in Germania e dell’Università di Edimburgo nel Regno Unito ha analizzato i dati sulla produzione alimentare relativi a 186 diverse nazioni, pubblicando successivamente i propri risultati sulla rivista «Nature Food».

Al di sopra degli altri

La Guyana, un piccolo paese del Sud America con una popolazione di circa 800 000 abitanti, è risultata l’unica nazione autosufficiente in tutti e sette i gruppi alimentari essenziali, ovvero cereali, legumi (ad esempio fagioli, piselli, lenticchie e ceci), frutta, verdura, latte, carne e pesce, essendo in grado di produrre da sola tutte le principali categorie di alimenti. Seguono Cina e Vietnam, che producono cibo a sufficienza in sei dei sette gruppi su cui si è concentrato il team di ricerca. Tre paesi su cinque non hanno prodotto abbastanza cibo all’interno dei propri confini in almeno quattro gruppi su sette, mentre circa un paese su sette, soprattutto in Europa e in Sud America, era autosufficiente in cinque o più gruppi. Il dato preoccupante è che un terzo delle nazioni analizzate è in grado di produrre solo due o meno gruppi di alimenti: 25 sono in Africa, 10 nei Caraibi e 7 in Europa. Sei Paesi, soprattutto in Medio Oriente, non producevano a sufficienza in un solo gruppo di alimenti per il proprio fabbisogno.

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Fonte: Commissione Europea




West Nile Virus, la sorveglianza integrata One Health è efficace nelle regioni endemiche

Il virus del Nilo Occidentale (West Nile Virus, WNV) e il virus Usutu (USUV) sono Orthoflavivirus neurotropi trasmessi da zanzare, mantenuti in un ciclo selvatico in cui gli uccelli rappresentano ospiti amplificatori/serbatoio, mentre gli esseri umani e gli equidi sono ospiti accidentali a fondo cieco.

Poiché il Nord Italia, in particolare il Veneto, è considerata un’area endemica per la circolazione di WNV e USUV, dal 2008 è stato implementato un piano di sorveglianza basato su un approccio One Health. In un recente studio condotto dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e pubblicato sulla rivista Pathogens, i risultati delle sorveglianze entomologica, veterinaria e umana per WNV e USUV in Veneto negli anni 2022 e 2023, riportano che l’eccezionale circolazione del WNV è dovuta alla reintroduzione del WNV lineaggio 1 e alla co-circolazione con il WNV lineaggio 2.

Lo studio è stato condotto in collaborazione con la Direzione prevenzione, sicurezza alimentare e veterinaria della Regione del Veneto e il Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova. Lo studio conferma l’efficacia della sorveglianza integrata come strumento di allerta precoce per la circolazione virale, e offre nuove informazioni sugli ospiti aviari coinvolti nel ciclo selvatico degli ortoflavivirus nell’area endemica italiana.

Il successo di WNV-1 rispetto a WNV-2

Negli ultimi anni, l’Italia ha registrato una delle più significative ondate di West Nile Virus in Europa, con un picco critico nel 2022. Tra i principali elementi in gioco c’è la coesistenza di due lineaggi virali, WNV-1 e WNV-2. Mentre WNV-2 è stato prevalente per un decennio, dal 2011 al 2021, la ricomparsa di WNV-1 in Veneto nell’autunno del 2021 ha segnato un punto di svolta. Questo ceppo si è rapidamente diffuso nel 2022, risultando associato a una maggiore neuroinvasività nell’uomo, con conseguente aumento di casi gravi e decessi, soprattutto in Veneto. Gli ultimi dati ufficiali riportano che nel 2024 il lineaggio 1 è stato quattro volte superiore rispetto al 2023.

Nel 2022 in Veneto sono state registrate 531 infezioni umane da WNV e sono stati testati virologicamente 93.213 zanzare e 2.193 uccelli, con tassi di infezione (IR) rispettivamente del 4,85% e dell’8,30%. Nel 2023 sono state confermate 56 infezioni umane da WNV e sono stati testati virologicamente 133.648 zanzare e 1.812 uccelli (IR rispettivamente dell’1,78% e del 4,69%). A completamento del quadro epidemiologico vi sono infine i dati dell’ultimo bollettino della Regione del Veneto – non inclusi nello studio – secondo cui le infezioni umane confermate nel 2024 sono state 130, con 138.800 zanzare e 2.329 uccelli testati virologicamente (IR rispettivamente del 0,38% e del 4,42%).

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Fonte: IZS Venezie




Helicobacter pylori e Alzheimer, un paradosso intrigante

Un articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla prestigiosa Rivista “Science Advances” restituisce un’immagine inedita di Helicobacter pylori, un batterio ritenuto responsabile fino a questo momento, nella nostra specie, di gastriti ulcerative e, a seguire, di neoplasie maligne dello stomaco (Jin et al., 2025).

Si tratta, in particolare, di una tossina rilasciata dal succitato microorganismo, denominata “cytotoxin-associated gene A protein” (CagA) e la cui regione N-terminale sarebbe in grado d’inibire la formazione di depositi/aggregati di sostanza amiloide, sia “funzionale” sia “patologica”.

Grazie ai primi, batteri quali Pseudomonas aeruginosa (unitamente ad altri membri del genere Pseudomonas) ed Escherichia coli, frequentemente responsabili di gravi infezioni resistenti alle terapie antibiotiche nell’uomo e negli animali, formerebbero “biofilm” che, una volta circondata la cellula batterica, la proteggerebbero dalla risposta infiammatoria ed immunitaria dell’ospite, così come dall’azione dei farmaci ad attività battericida e/o batteriostatica.

Per quanto attiene invece all’interferenza esplicata da CagA nei riguardi della formazione e della conseguente deposizione di amiloide “patologica”, i risultati di questo studio offrirebbero una serie di prospettive, oltremodo interessanti e al tempo stesso promettenti, nei confronti della cura di gravi quanto invalidanti patologie neurodegenerative primariamente contraddistinte da “misfolding proteico”, quali la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson e la corea di Huntington, tanto per citare alcuni eloquenti esempi (Jin et al., 2025).

Quasi a mo’ di paradosso, fatto salvo il sensazionale dato relativo all’attività anti-batterica efficacemente svolta da CagA (Jin et al., 2025), andrebbe tuttavia sottolineato che anche l’amiloide-beta (A-beta), costantemente rinvenuta sotto forma di placche e in associazione con aggregati neurofibrillari di proteina tau nel tessuto cerebrale di pazienti affetti da malattia di Alzheimer (Di Guardo, 2018), risulterebbe a sua volta capace di conferire un’efficace protezione nei riguardi delle infezioni microbiche, quantomeno nei modelli animali di Alzheimer – topi ed ospiti invertebrati – sperimentalmente utilizzati (Kumar et al., 2016).

A questo punto una domanda sorge spontanea, sulla scia dell’intrigante paradosso dianzi esplicitato:

Abbiamo a che fare con uno speciale esempio di “convergenza evolutiva” fra l’azione anti-microbica esplicata da un peptide batterico ad attività anti-Alzheimer e quella contemporaneamente svolta dall’amiloide-beta, “hallmark” biochimico nonché “minimo comune denominatore” patogenetico della malattia di Alzheimer?

Parafrasando, sarebbe nato prima l’uovo o la gallina?

 

 

Bibliografia citata

Di Guardo G. Alzheimer’s disease, cellular prion protein, and dolphins. Alzheimers Dement. 2018;14(2):259-260.

DOI: 10.1016/j.jalz.2017.12.002.

Jin Z, Olsen WP, Mörman C, Leppert A, Kumar R, Møllebjerg A, et al. Helicobacter pylori CagA protein is a potent and broad-spectrum amyloid inhibitor.

Sci. Adv. 2025;11(24):eads7525.

DOI: 10.1126/sciadv.ads7525.

Kumar DK, Choi SH, Washicosky KJ, Eimer WA, Tucker S, Ghofrani J, et al. Amyloid-β peptide protects against microbial infection in mouse and worm models of Alzheimer’s disease.

Sci. Transl. Med. 2016;8:340ra72.

DOI: 10.1126/scitranslmed.aaf1059.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




AGENAS: 40 ore di formazione annue e formazione obbligatoria ECM

EcmL’obiettivo di performance delle 40 ore di formazione/anno per dipendente può essere conseguito con qualsiasi tipo di formazione: formazione sulle competenze trasversali nelle aree di competenza indicate dalla Direttiva 14 gennaio 2025; formazione su competenze specialistiche. Concorre al conseguimento dell’obiettivo formativo individuale, ovvero delle 40 ore anche la formazione obbligatoria ECM.
Tutta la formazione è riconosciuta a prescindere dalle modalità di erogazione (formazione in auto-apprendimento; formazione in presenza; formazione blended; “training on the job”; etc.) e dal soggetto erogatore (soggetto istituzionale, fornitore contrattualizzato dalla singola amministrazione, docenti interni all’amministrazione, etc.). In coerenza con le indicazioni tecnico-metodologiche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la formazione riconosciuta per il conseguimento dell’obiettivo formativo individuale deve essere completata ed attestata dal superamento di uno specifico momento di verifica finale (test/prova post formazione).

Fonte: AGENAS




Cooperazione sanitaria, la Rete degli IIZZSS. IZS Teramo capofila del modello italiano che studia i virus prima che arrivino in Europa

zoonosi viraleLa cooperazione internazionale non è più una scelta opzionale, ma una delle leve più strategiche per garantire la sicurezza sanitaria in un mondo dove persone, merci e patogeni viaggiano senza frontiere. Lo sa bene l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise «G. Caporale», che da oltre quarant’anni lavora fianco a fianco con numerosi Paesi dell’Africa e del Mediterraneo, portando competenze, tecnologie e formazione nei territori dove le malattie infettive nascono e si diffondono.

Il ruolo della Rete IZS nella cooperazione internazionale

Un approccio pionieristico che oggi, anche grazie alla sinergia con la Rete degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali, si traduce in un modello strutturato di cooperazione sanitaria, capace di anticipare rischi globali e proteggere la salute pubblica europea.

Ne abbiamo parlato con il Direttore Generale dell’Istituto, Nicola D’Alterio, in un’intervista raccolta a margine della partecipazione dell’IZS di Teramo al CODEWAY Expo 2025 di Roma, dove l’Istituto ha portato il proprio contributo sui temi dell’innovazione e della cooperazione nell’ambito One Health.

«Quello dell’IZS di Teramo – ci ha spiegato D’Alterio – e dunque della Rete, non è solo un esempio di cooperazione efficace, ma una strategia concreta di difesa della salute pubblica italiana ed europea. Studiare le malattie là dove nascono è l’unico modo per anticiparle e, se possibile, prevenirle». Conoscenza condivisa e credibilità scientifica costruita in decenni di lavoro sono dunque oggi il patrimonio più prezioso per un modello modello unico nel panorama internazionale, come quello offerti dagli Istituti Zooprofilattici Italiani.

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Fonte: onehealthfocus.it




Test sugli animali. L’industria farmaceutica europea disegna la road map verso l’addio in 3 fasi

laboratorio

“Ridisegnare da zero le basi della valutazione della sicurezza dei farmaci è una sfida colossale, ma sempre più concreta. Con la pubblicazione delle nuove raccomandazioni dell’Efpia—la Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche—sul superamento della sperimentazione animale per la sicurezza chimica, il futuro appare più vicino”. E’ quanto scrive Kirsty Reid, Director for Science Policy della Federazione europea delle industrie farmaceutiche (Efpia), parlando del nuovo documento messo a punto dall’organizzazione per superare i test animali per la sicurezza dei farmaci.

Negli ultimi anni si è assistito a un profondo mutamento di paradigma: la questione non è più “se” ridurre i test sugli animali, ma “come” farlo in modo responsabile, strategico e condiviso. La società civile chiede modelli più umani, la scienza si fa più precisa e le istituzioni europee iniziano ad aprirsi al cambiamento, si evidenzia.


Alla base del lavoro dell’Efpia c’è il principio delle 3R- Replacement (sostituzione), Reduction (riduzione) e Refinement (affinamento). Il nuovo report propone un approccio strutturato per avviare la transizione verso un sistema di valutazione della sicurezza chimica senza animali, attraverso un modello classificatorio definito “3 Baskets”. Questo schema prevede una primategoria di test che possono essere interrotti già da ora, in quanto considerati obsoleti, ridondanti o privi di reale utilità scientifica. Una seconda categoria comprende invece i test per cui sono in fase di sviluppo valide alternative, che tuttavia necessitano ancora di validazione. Infine, una terza categoria riconosce l’esistenza di test complessi, per i quali la scienza non ha ancora raggiunto soluzioni adeguate, ma dove la ricerca d’avanguardia potrebbe aprire nuove possibilità.

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Fonte: quotidianosanita.it




Studio degli indicatori di benessere nelle fasi di macellazione dei volatili

Il Centro di Referenza Europeo per il benessere dei volatili e delle piccole specie (EURCAW-SFA) al quale IZSLER partecipa, ha avviato uno studio tecnico per valutare la prevalenza e la ripetibilità tra diversi osservatori degli indicatori più validi e fattibili basati sugli animali, per valutare lo stato di coscienza nelle anatre dopo lo stordimento con bagno d’acqua, sia prima che durante il dissanguamento.

Lo studio mira inoltre a valutare l’efficacia dello stordimento dei principali parametri elettrici attualmente utilizzati in diversi macelli. Le visite ai macelli commerciali in Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi proseguiranno nei prossimi mesi. Oltre alla revisione finale, la cui consegna è prevista entro la fine del 2026, verrà pubblicata una specifica scheda informativa. Questi materiali proporranno indicatori affidabili e pratici per valutare lo stato di coscienza nelle anatre dopo lo stordimento con bagno d’acqua in condizioni commerciali. Allo studio partecipano anche esperti IZSLER sul benessere dei volatili allevati. Il gruppo ha pubblicato di recente un articolo dedicato agli indicatori di coscienza nello stordimento dei volatili sulla rivista Animals.(foto EURCAW-SFA)

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna