Peste suina africana, è arrivata in Europa da quasi vent’anni

L’Istituto Zooprofilattico ha collaborato alla creazione e ha aderito alla associazione internazionale EVA(European Virus Archive)-AISBL (Associazione Internazionale Senza fini di Lucro). E’ una associazione composta da 14 membri che offrono competenze scientifiche elevate e diversificate in virologia, e un’infrastruttura di ricerca sostenibile a lungo termine, al servizio della leadership europea nella ricerca virologica e in grado di facilitare la preparazione e la risposta alle pandemie globali.
IZSLER partecipa all’associazione con la Biobanca, già WOAH Collaborating Centre for Veterinary Biologicals Biobank.
EVA-AISBL (https://www.european-virus-archive.com/), una risorsa unica per la ricerca virologica, è l’unica infrastruttura di ricerca al mondo dedicata alla raccolta, caratterizzazione, produzione e distribuzione di risorse virali di riferimento a supporto della ricerca virologica, secondo il concetto di “One Virology”, dal 2008.
Mentre “One Health” affronta l’interconnessione tra salute umana, animale e ambientale, “One Virology” si concentra sullo studio dei virus come attori chiave all’interno di questi sistemi, rendendo la virologia fondamentale per affrontare le sfide di “One Health” come le malattie zoonotiche, la biodiversità virale e la salute degli ecosistemi.
Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna
L’Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie (HERA) della Commissione Europea, attraverso l’Agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale (HaDEA), sostiene la creazione dell’European Vaccines Hub (EVH) for Pandemic Readiness, un centro paneuropeo dedicato al progresso nello sviluppo di vaccini rilevanti per la salute pubblica. L’accordo di finanziamento è stato firmato giovedì 22 maggio e rappresenta un passo avanti nello sviluppo dei vaccini rilevanti per la salute pubblica. Integrando l’eccellenza nella ricerca sui vaccini, nello sviluppo di anticorpi monoclonali umani (H-mAbs), negli studi clinici e nelle attività di produzione su larga scala, EVH crea un ambiente europeo dinamico e collaborativo.
Il consorzio EVH è composto da 11 enti beneficiari e 13 affiliati e associati, provenienti da 7 diversi Paesi, tra cui importanti organizzazioni europee direttamente coinvolte nello sviluppo di vaccini e responsabili della preparazione pandemica nei rispettivi Stati. Il progetto è coordinato dalla Sclavo Vaccines Association, un’organizzazione no-profit con sede a Siena impegnata nel sostegno alla ricerca e allo sviluppo vaccinale.
Il progetto EVH contribuisce allo sviluppo di vaccini prototipo per le pandemie e di tecnologie scalabili, attraverso un consorzio di importanti istituti europei di ricerca e sviluppo e di impianti produttivi farmaceutici, garantendo il coordinamento dei programmi nazionali di ricerca sui vaccini. L’EVH si ispira ad una visione largamente condivisa a livello internazionale, secondo la quale lo sviluppo di vaccini pandemici non può prescindere da una fase preliminare di sviluppo di prototipi, che consenta una rapida selezione e distribuzione di vaccini speficici per i patogeni emergenti nel corso di emergenze epidemiche o pandemiche.
Strutturato su quattro pilastri a supporto delle principali attività e infrastrutture della pipeline di sviluppo vaccinale, EVH integra istituzioni europee leader con competenze distinte e incarichi specifici di preparazione pandemica. In dettaglio: Pilastro 1 “Discovery”, guidato dalla Fondazione Biotecnopolo di Siena (Italia); Pilastro 2 “Studi preclinici” dall’Institut Pasteur (Francia); Pilastro 3 “Studi clinici” da Vaccinopolis (UAntwerpen, Belgio); Pilastro 4 “Produzione” dal German Center for Infection Research (DZIF) e dal Center for Pandemic Vaccines and Therapeutics (ZEPAI, Germania).
EVH mira quindi non solo a creare un sistema reattivo di ricerca e sviluppo e un hub di conoscenza collegando potenti istituzioni leader, ma anche ad avviare progetti concreti di sviluppo vaccinale, perfezionando i processi e le procedure rilevanti all’interno del proprio quadro operativo. Il focus è su un gruppo selezionato di patogeni ritenuti critici per la preparazione anti-pandemica, come identificati nella recente lista dei patogeni più pericolosi dell’OMS per la regione Europea. Dalla progettazione dei prototipi all’applicazione clinica, l’EVH guida l’innovazione, rafforza le capacità di valutazione clinica e coordina gli sforzi con i produttori, ottimizzando al contempo la digitalizzazione dei processi di progettazione e distribuzione dei vaccini.
Fonte: IZS Venezie
I rappresentanti della task force interagenzia One Health composta da cinque agenzie dell’Unione europea (Ecdc, Ema, Efsa, Aea ed Echa), si sono riuniti a Bruxelles con funzionari della Direzione Generale Salute e Sicurezza Alimentare (DG Sante) e di altri servizi della Commissione Europea per promuovere il coordinamento e l’attuazione dell’approccio One Health nell’Ue.
La riunione, ospitata dalla DG Sante, mira a rafforzare il dialogo tra la task force e i servizi della Commissione, promuovendo uno scambio regolare sulle priorità relative al tema trattato. I partecipanti hanno discusso i progressi nell’attuazione del quadro d’azione della task force interagenzia One Health, delineando i prossimi passi per una maggiore collaborazione. Nella riunione è stata annunciata l’istituzione del gruppo di lavoro inter-agenzia sulla resistenza antimicrobica (Amr) per garantire un efficace scambio di informazioni sulla resistenza antimicrobica. La riunione ha discusso l’attuazione del parere del meccanismo di consulenza scientifica sulla governance One Health nell’Ue, con le agenzie, insieme ai servizi della Commissione, che hanno esplorato le modalità per supportare l’attuazione delle 6 raccomandazioni. Le discussioni hanno evidenziato l’importanza di un approccio coordinato alla salute pubblica, alla salute animale e alle sfide ambientali.
Con l’avvio della Scuola di Alta Formazione Regionale per l’Innovazione in One Health (SCALARE) è stato raggiunto un nuovo, importante traguardo nella collaborazione scientifica tra l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise e l’Università degli Studi di Teramo (UNITE).
Ad aprile 2025 le due Istituzioni hanno sottoscritto una Convenzione con il Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito dell’Avviso per la selezione di progetti di promozione della ricerca, del trasferimento tecnologico e della formazione universitaria da finanziare nelle regioni Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche interessate dagli eventi sismici del 2016.
Grazie al progetto SCALARE nasce a Teramo un polo di riferimento nazionale e internazionale per l’alta formazione e la ricerca in ambito One Health, rafforzato da una rete multidisciplinare e intersettoriale di collaborazioni con Istituzioni accademiche e non accademiche, sia italiane che estere.
L’obiettivo è formare una nuova generazione di ricercatori altamente qualificati, dotati di competenze scientifiche e tecnologiche d’avanguardia, capaci di contribuire attivamente all’innovazione nei settori della salute umana, animale e ambientale, in linea con l’approccio integrato della Salute Unica.
Per dare immediata operatività alla Scuola, è stato pubblicato oggi un bando di concorso per 12 borse di dottorato interamente finanziate nell’ambito del Progetto SCALARE, a valere sul XLI ciclo dei corsi di dottorato – A.A. 2025/2026.
I progetti di dottorato saranno afferenti a uno dei seguenti corsi dell’Università di Teramo: Biotecnologie Cellulari e Molecolari, Scienze degli Alimenti e Scienze Mediche Veterinarie, Sanità Pubblica e Benessere Animale.
Ogni percorso, della durata di tre anni, sarà co-supervisionato da docenti e ricercatori di UNITE e IZS di Teramo, garantendo un approccio intersettoriale alla formazione. È inoltre previsto un periodo di mobilità nazionale di tre mesi presso Aziende o Enti partner e un’esperienza di mobilità internazionale da 6 a 12 mesi presso Università o Centri di ricerca di eccellenza scientifica.
La scadenza del bando è fissata al 6 giugno 2025 alle ore 11:00 (CEST). Tutti i dettagli sono disponibili a questo link.
Il concetto di One Health – che promuove un approccio integrato alla salute umana, animale e ambientale – è oggi al centro delle principali strategie di sostenibilità e sanità pubblica a livello internazionale. Tuttavia, nonostante il suo ampliamento formale nel 2022 per includere anche la salute delle piante, il contributo del settore agricolo, e in particolare delle colture agrarie, rimane poco considerato nelle politiche concrete. Allo stesso tempo, l’agricoltura è chiamata a garantire la sicurezza alimentare, un bene pubblico essenziale che deve essere bilanciato con la sostenibilità ambientale. Comprendere quindi il contributo relativo di ciascun dominio all’uso di sostanze chimiche è cruciale non solo per diagnosticare correttamente il problema, ma anche per progettare regolamenti mirati e fondati su evidenze scientifiche, nonché per monitorarne nel tempo l’efficacia.
Un recente studio condotto da un team di ricerca italo-olandese, coordinato dalla Libera Università di Bolzano, in collaborazione con il Dipartimento di Diritto dell’Università di Wageningen e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, affronta questo squilibrio proponendo una visione più equilibrata tra domini e basata su dati condivisi.
Cosa ci dice lo studio
L’analisi ha messo a confronto i dati sull’uso di sostanze chimiche nei tre domini della One Health – umano, animale e vegetale – in cinque Paesi europei (Italia, Paesi Bassi, Germania, Spagna e Francia). Il risultato evidenzia grandi differenze nei sistemi di raccolta dati tra domini e Paesi, che ostacolano valutazioni attendibili sull’effettivo contributo di ciascun comparto al cosiddetto input chimico ambientale. Lo studio conferma che l’agricoltura rappresenta una componente significativa di questo input, ma segnala anche come i settori della sanità umana e veterinaria svolgano un ruolo altrettanto rilevante, benché spesso non considerato alla stessa stregua nei dibattiti pubblici. In molti casi, la mancanza di trasparenza e standardizzazione, anche per motivi di confidenzialità commerciale nei domini umano e veterinario, rende difficile un confronto equo tra i tre domini.
Fonte: gergofili.info
Negli spazi urbani di tutta Europa, i piccioni rappresentano una presenza onnipresente, spesso trascurata. Tuttavia, al di là del loro ruolo o delle problematiche logistiche che generano, questi uccelli si stanno rivelando attori inaspettati in una delle più preoccupanti questioni di sanità pubblica globale: la diffusione del virus dell’influenza aviaria.
Nel 2006, nel pieno dell’emergenza H5N1, si diffuse rapidamente l’idea che i piccioni fossero “immuni” all’influenza aviaria. Articoli divulgativi, come quello pubblicato su Seed Magazine con il titolo The Invincible, Flu-Immune Pigeon, minimizzavano i rischi, rafforzati da alcune evidenze scientifiche dell’epoca. Tuttavia, lo scenario ha subito un cambiamento radicale. Il virus Hpai H5 ha evoluto nuovi cladi, con una più ampia gamma di ospiti e una maggiore capacità di adattamento interspecie. Uno studio pubblicato su Viruses in questi giorni ha rilevato la presenza di ben 658 ceppi di virus aviari nei piccioni, tra cui 71 appartenenti al sottotipo H5, tutti classificati come altamente patogeni.
Gli impianti di depurazione potrebbero agire come centri nevralgici per la diffusione di batteri patogeni resistenti agli antibiotici. È quello che emerge da uno studio nato da una collaborazione tra l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) e il National Biodiversity Future Center (NBFC) di Palermo. I ricercatori hanno infatti rilevato la presenza del batterio Klebsiella pneumoniae in un depuratore urbano del Centro Italia.
Klebsiella pneumoniae è un batterio naturalmente presente nel microbioma umano. Alcuni ceppi causano gravi infezioni respiratorie, urinarie e del sangue, che colpiscono soprattutto individui fragili e spesso in ambienti sanitari, come gli ospedali. Klebsiella pneumoniae è uno dei microrganismi che destano maggiore preoccupazione a livello mondiale per la sua resistenza all’azione di numerosi antibiotici, compresi quelli cosiddetti di ultima istanza, come la colistina.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Pollution”, si è basato sull’analisi di campioni prelevati dalle acque in entrata, dalla vasca di sedimentazione e dalle acque in uscita di un impianto di depurazione urbano. I campioni, raccolti in quattro periodi distinti durante il 2018, hanno mostrato la presenza di 42 ceppi di Klebsiella pneumoniae, in seguito caratterizzati attraverso sequenziamento dell’intero genoma. Numerosi ceppi isolati (47 %) mostravano un fenotipo di multi-resistenza ad almeno tre classi di antibiotici, con alcuni di essi resistenti anche alla colistina. Sono stati inoltre isolati i cloni ST307, ST35, ST45 noti per essere ad alto rischio e in rapida espansione in Italia.
“La Klebsiella pneumoniae – dice Alessandra Cornacchia, ricercatrice IZSAM e prima autrice dello studio assieme al ricercatore IRSA Andrea Di Cesare – è tra le principali cause di infezioni in contesti sanitari. Se gli impianti di trattamento delle acque reflue non vengono adeguatamente monitorati possono contribuire alla diffusione di questo pericoloso batterio nell’ambiente e nelle comunità. I monitoraggi, oltre a individuare il problema, forniscono indicazioni fondamentali per guidare le azioni correttive necessarie, come la modifica degli impianti, al fine di ridurre la diffusione del fenomeno”.
Fonte: IZS Lazio e Toscana
Prima del 2020, nei confronti di un’eventuale pandemia avevamo forse un rametto di esperienza e tutti i nostri programmi e progetti erano basati su raccomandazioni e avvertenze formulate seguendo indicazioni razionali ma teoriche. Dal 2020 ci siamo trovati (e spesso anche persi) in una foresta di esperienza: 27 milioni di casi di una malattia infettiva, quasi 200mila morti, mezzo milione di casi tra gli operatori sanitari e una sequela, non prevista, di conseguenze sanitarie, sociali, economiche.
Uno degli aspetti teorici dei piani contro un’eventuale pandemia influenzale, prima del Covid-19, erano i piani di continuità assistenziale e produttiva. La situazione reale, di fronte alla valanga di eventi, è stata ben diversa, con un totale blocco di tutte le attività economiche, sociali, culturali, della vita di tutti i giorni, come soluzione migliore per spegnere un incendio indomabile. Avevamo avuto una foresta di avvertenze, ma non eravamo preparati.
Oggi non possiamo dire altrettanto. Per quanto imprevedibile sul quando, sappiamo che una pandemia non è un evento impossibile e che prepararci è l’unica cosa sensata da fare. La foresta di esperienze fatte non deve essere dimenticata e tornare a quanto vissuto e osservato deve guidare le decisioni sui nuovi piani pandemici. La disponibilità di una bozza di Piano Pandemico, al momento in valutazione alla conferenza Stato-Regioni, è l’occasione per valutare il ruolo dell’epidemiologia nel contrasto alla pandemia e verificare se la bozza di Piano nazionale risponde ai punti critici per migliorare la risposta dei nostri servizi sanitari all’emergenza. Un piano strategico e operativo dovrebbe fornire alle Regioni e PA le indicazioni essenziali per la redazione di piani locali che evitino frammentazioni inefficaci e inefficienti e potenzino le capacità di risposta.
Durante la pandemia l’epidemiologia ha fornito strumenti essenziali alla descrizione e comprensione della diffusione delle infezioni, ma molti sono stati gli ostacoli anche strutturali agli interventi di contrasto. Tra le lezioni apprese sottolineiamo qui quelle da tenere presente e per le quali l’epidemiologia può giocare un ruolo determinante.
Abbiamo imparato che, anche se la pandemia si basa sulla completa suscettibilità di tutta la popolazione mondiale, non tutti hanno la stessa probabilità di sperimentare conseguenze severe al contagio e avere necessità di assistenza sanitaria. L’età media dei deceduti è stata di 40 anni più elevata dell’età media dei contagiati e lo studio delle cartelle cliniche condotto dall’Istituto superiore di sanità su circa 8.000 pazienti ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei deceduti fosse affetta da diverse patologie croniche. Si è parlato di sindemia per definire il sovrapporsi della diffusione di patologie croniche alle infezioni da Covid-19 e il loro potenziamento reciproco. La lotta alle malattie croniche è nell’agenda della sanità pubblica da diversi anni, e sono in corso diverse iniziative per stratificare la popolazione in livelli di rischio assistenziale. Le iniziative sono soprattutto a scopo programmatorio, ma la pandemia ha sottolineato come la spesso auspicata medicina di iniziativa, per indirizzare le raccomandazioni e gli interventi di mitigazione e prevedere le richieste di assistenza, dovrebbe basarsi sulla conoscenza della propria popolazione di assistiti, definita secondo metodi condivisi.
Fonte: scienzainrete.
Che cos’è l’influenza aviaria?
L’influenza aviaria o “bird flu”, è una malattia virale causata dai virus influenzali di tipo A della famiglia Orthomyxoviridae, sono endemici negli uccelli acquatici selvatici, ma possono infettare anche altri volatili e, in alcuni casi, i mammiferi, compresi gli esseri umani. I virus dell’influenza aviaria sono classificati in base alla loro patogenicità negli uccelli in due categorie principali: influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI) e influenza aviaria altamente patogena (HPAI).
I virus LPAI generalmente causano una malattia lieve o possono persino non manifestare sintomi negli uccelli. Al contrario, i virus HPAI, in particolare i sottotipi H5 e H7, sono responsabili di malattie gravi che si diffondono rapidamente tra il pollame, portando a tassi di mortalità elevati in diverse specie di uccelli. È importante notare che alcuni ceppi LPAI possono mutare e diventare altamente patogeni nel pollame, sottolineando la necessità di un monitoraggio continuo.
La distinzione tra LPAI e HPAI è fondamentale per valutare il livello di minaccia per il pollame e le potenziali conseguenze economiche. La capacità di alcuni ceppi LPAI di trasformarsi in HPAI evidenzia l’importanza di una sorveglianza costante per prevenire focolai più gravi. I virus influenzali di tipo A sono ulteriormente suddivisi in sottotipi in base a due proteine presenti sulla superficie del virus: l’emagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA). Sono noti 18 sottotipi di HA (H1-H18) e 11 sottotipi di NA (N1-N11), che possono combinarsi in numerose varianti virali. Alcuni sottotipi specifici hanno dimostrato di poter infettare l’uomo, tra cui H5N1, H7N9, H5N6, H5N8, H3N8, H7N4, H9N2 e H10N3.
La trasmissione dell’influenza aviaria tra gli uccelli avviene principalmente tramite il contatto diretto tra uccelli infetti e sani. Gli uccelli infetti rilasciano il virus attraverso la saliva, le secrezioni nasali e le feci. Gli uccelli migratori, in particolare quelli acquatici, sono serbatoi naturali del virus e giocano un ruolo fondamentale nella sua diffusione su vaste aree geografiche. La loro capacità di migrare senza mostrare segni di malattia complica il controllo della diffusione del virus, rendendo necessaria una sorveglianza e monitoraggio internazionali.
Leggi l’articolo
Fonte: ilsole24ore.com