“Attenti a quei 4!”: occhi aperti in mare per scovare gli alieni invasivi

La mappatura della presenza del pesce scorpione (Pterois miles) nel Mediterraneo aggiornata a marzo 2025, ci riporta 1.840 segnalazioni, provenienti dai diversi paesi del bacino. La specie si sta diffondendo anche nei mari italiani e il Mar Ionio si conferma come una delle aree più vulnerabili.

Oggi pescatori, subacquei e chiunque abbia osservato o catturato nei mari italiani un pesce scorpione o un’altra delle tre specie tropicali potenzialmente pericolose – pesce palla maculato, pesce coniglio scuro e pesce coniglio striato, sono chiamati nuovamente a fornire il loro supporto alla campagna di allerta “Attenti a quei 4!”, vòlta a informare la cittadinanza sulla presenza di queste specie invasive nei nostri mari.

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Ancona (CNR-IRBIM), in collaborazione con il progetto AlienFish, rilanciano la campagna “Attenti a quei4!”, fornendo anche indicazioni utili per riconoscerle, prevenire spiacevoli incidenti e contribuire al monitoraggio della loro diffusione e invitando a documentare con foto o video la specie, ed inviare la propria osservazione tramite il link.

In alternativa sarà possibile utilizzare WhatsApp al numero di telefono +320 4365210 o i gruppi Facebook Oddfish – e Fauna Marina Mediterranea in collaborazione con il progetto Alienfish utilizzando l’hashtag: #Attenti4.

E’ di poche settimane fa la pubblicazione sulla rivista scientifica Mediterranean Marine Science di uno studio, sempre a cura di CNR-IRBIM e ISPRA, che ha fornito un aggiornamento approfondito sulla distribuzione del pesce scorpione nel Mar Mediterraneo.

La campagna segue le precedenti edizioni già svolte dal 2022, anche in considerazione delle crescenti segnalazioni e catture di specie aliene nelle acque italiane, soprattutto del pesce scorpione, ad opera di subacquei e pescatori. I dati raccolti sono stati visualizzati in nuove mappe di distribuzione e confrontati con le previsioni fornite dai modelli di distribuzione delle specie precedentemente realizzati. Tutte le nuove osservazioni sono state integrate nel dataset del portale ORMEF, costituendo così la raccolta più aggiornata di dati sulla presenza del Pterois miles (o pesce scorpione) nel Mar Mediterraneo.

Manuela Falautano, ricercatrice dell’ISPRA, coordinatrice per l’Ente delle campagne “Attenti a quei 4!”: “L’aumento delle catture e segnalazioni da parte di pescatori e subacquei, da un lato conferma l’importante ruolo da loro svolto a supporto dei ricercatori nell’attività di sorveglianza della diffusione delle specie aliene, dall’altro evidenzia la necessità di ampliare il coinvolgimento degli operatori del mare e di promuovere una chiara attività di comunicazione alla cittadinanza sulle specie potenzialmente pericolose per la salute umana, senza creare allarmismi”.

Leggi l’articolo

Fonte: ISPRA




La Calabria vince la battaglia contro il coleottero Aethina tumida: un decennio di ricerca e innovazione per salvare le api

ape

Dopo dieci anni di lavoro incessante, studi scientifici all’avanguardia e una rete di collaborazioni internazionali, l’Italia celebra un importante successo nella gestione dell’invasione del coleottero Aethina tumida, una specie aliena che minacciava seriamente il patrimonio apistico nazionale. Un ruolo chiave in questa battaglia è stato giocato dalla sezione calabrese dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno, con sede a Reggio Calabria, dove è stato recentemente costruito un insettario sperimentale dedicato allo studio approfondito di questo pericoloso parassita.
Il caso della Calabria si distingue come un modello esemplare di gestione delle specie invasive, grazie a un mix vincente di prevenzione, monitoraggio rigoroso, interventi tempestivi e ricerca scientifica d’eccellenza. La notizia arriva direttamente dal prestigioso Journal of Management of Biological Invasions, che ha pubblicato uno studio dettagliato firmato da Giovanni Federico, Franco Mutinelli, Peter Neumann e colleghi (2025), frutto di una collaborazione tra istituzioni italiane ed europee.

La sfida del piccolo ma dannoso coleottero

Aethina tumida, comunemente noto come “piccolo coleottero dell’alveare” , è un insetto originario dell’Africa sub-sahariana che, fin dal 1996, ha invaso tutti i continenti abitati causando gravi danni alle colonie di api mellifere. Il suo arrivo in Europa è avvenuto nel settembre 2014, quando è stato rilevato per la prima volta in Calabria, precisamente nella piana di Gioia Tauro, vicino a un porto internazionale. Da qui, il coleottero ha trovato terreno fertile per espandersi, raggiungendo anche la Sicilia poche settimane dopo.
Ma la risposta italiana non si è fatta attendere. Le autorità competenti hanno immediatamente attivato un piano di sorveglianza intensiva, compresa la distruzione degli apiari  infestati, l’istituzione di zone di protezione e sorveglianza e il monitoraggio costante attraverso nuclei sentinella. Oggi, a dieci anni di distanza, l’effetto delle attività poste in essere è chiaro: l’invasione è stata contenuta e il coleottero rimane confinato in un’area limitata della Calabria, senza ulteriori diffusioni. Si tratta di un “unicum” nella dinamica di diffusione del coleottero alloctono.

Leggi l’articolo

Fonte: IZS Mezzogiorno




Effetti biologici delle radiazioni: Siamo prossimi ad una nuova catastrofe?

A fronte degli 80 anni oramai trascorsi dal lancio dei primi ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cui hanno fatto seguito i due gravi incidenti rispettivamente occorsi nel 1986 e nel 2011 alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, nonché a quella nipponica di Fukushima, incombe ancora sull’intera umanità lo spettro di una o più “fughe radioattive” derivanti dai reiterati bombardamenti russi sulla centrale ucraina di Zaporizhzhia, oltre a quelli effettuati in questi giorni dall’aviazione militare israeliana e statunitense sulle centrali e sugli impianti di arricchimento dell’uranio siti in Iran.

In un siffatto contesto, incredibilmente dimentico delle sonore lezioni che la storia degli ultimi 80 anni ci ha consegnato, appare oltremodo giustificata una sintetica rassegna sui danni biologici provocati dalle radiazioni, già peraltro supportati da una pressoché monumentale letteratura scientifica.

Premesso che le radiazioni possono essere classificate in vario modo, sulla base della loro natura (radiazioni corpuscolate ed elettromagnetiche), intensità e lunghezza d’onda (radiazioni eccitanti e ionizzanti) e premesso, altresì, che i succitati danni si realizzerebbero con modalità sovrapponibili sia nell’uomo che negli animali, sarebbe necessario operare, in primis, una debita distinzione fra danni acuti e danni cronici.

I primi risulterebbero ascrivibili e simili al “danno da calore”, con la comparsa di più o meno estese ustioni di grado e d’intensità variabili in relazione al tempo di esposizione e alla distanza dalla fonte di energia radiante (Altucci et al., 2019).

Ben piu’ articolato e complesso si fa il ragionamento, di contro, allorquando ci si addentri nella disamina degli effetti “a lungo termine” delle radiazioni, ove una prima fondamentale distinzione attiene agli effetti “diretti” arrecati alle principali macromolecole organiche quali i lipidi presenti sulle membrane cellulari (con conseguente formazione di lipoperossidi altamente instabili), unitamente alle proteine (ad attività enzimatica e non), agli zuccheri e, soprattutto, agli acidi nucleici (DNA e RNA), con successiva comparsa di gravi ed estesi fenomeni di denaturazione/degradazione/rottura nonché di mutazioni a carico degli stessi (formazione di dimeri pirimidinici nel caso di radiazioni eccitanti quali le ultraviolette). Analoghi effetti, definiti “indiretti”, si realizzerebbero in virtù del danno primariamente generato dall’interazione delle radiazioni con l’acqua intra- ed extracellulare e dalla sua conseguente dissociazione/rottura (Altucci et al., 2019).

Fra gli oltre 200 citotipi di cui si compone il nostro organismo e, più in generale, quello di tutti gli altri mammiferi terrestri ed acquatici, sarebbero altresì presenti livelli di suscettibilità oltremodo variabili nei confronti del danno “cronico” da radiazioni, cosicché le cellule “costituivamente” caratterizzate da un’intensa attività replicativa (gameti, cellule midollari progenitrici di globuli rossi, leucociti e piastrine, linfociti, cellule dello strato basale dell’epidermide, etc.) risulterebbero ben più sensibili nei confronti degli elementi “stabili” e, soprattutto, rispetto alle cellule “perenni” (quali i neuroni), con conseguente sviluppo di fenomeni di aplasia/ipoplasia (c.d. “castrazione da raggi”) e/o di processi neoplastici (Honjo e Ichinohe, 2025; Lopes et al., 2025).

Ovviamente, poiché ogni organismo si caratterizza come un sistema biologico “dinamico”, esistono tutta una serie di dispositivi atti a fronteggiare i danni prodotti dalle radiazioni – oltre che da molteplici ulteriori “noxae” fisiche, chimiche e biologiche – sulle cellule e sui tessuti che compongono ciascun individuo. Un ruolo di primo attore spetta senza alcun dubbio, in tale ambito, alla proteina p53 (il c.d. “guardiano della cellula”), un fondamentale fattore di trascrizione che nelle cellule di Homo sapiens sapiens e’ codificato da un gene situato sul cromosoma 17 (Altucci et al., 2019). In seguito a un danno a carico del patrimonio genetico, la p53 interviene nella riparazione dello stesso e, ove l’alterazione genomica fosse di entità particolarmente significativa, la p53 opera avviando il ben noto processo dell’ “apoptosi”, alias “morte cellulare programmata”. Purtroppo anche il gene codificante per la p53 non risulterebbe risparmiato dagli eventi mutazionali conseguenti al danno da radiazioni, cosicché ne deriverebbe una proteina mutata, che anziché impartire un ordine/comando di “morte programmata” alla cellula-ospite, indirizzerebbe la stessa verso un percorso di trasformazione neoplastica. Ciò costituisce, invero, la principale motivazione per la quale la p53 “mutata” si caratterizzerebbe a sua volta come una “firma molecolare” precoce in grado di delineare l’avvio di un percorso di “instabilità genetica progressiva” culminante nella trasformazione tumorale (Altucci et al., 2019).

A conclusione di questa sintetica rassegna sui principali effetti biologici esplicati dalle radiazioni, a supporto dei quali è disponibile una produzione bibliografica oltremodo significativa sia per qualità che per quantità, ivi compresi una serie di studi svolti su modelli animali particolarmente innovativi (Honjo e Ichinohe, 2025), ritengo doveroso sottolineare, anche e soprattutto a fronte dell’assenza di confini geografici che gli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima hanno chiaramente evidenziato, la necessità di un approccio “One Health” nella gestione e, nondimeno, nella prevenzione di siffatte catastrofi, tanto piu’ alla luce delle incombenti minacce rappresentate dai teatri bellici ucraino e iraniano.

Historia magistra vitae!

 

Bibliografia

Altucci L, Berton G, Stivala LA, Moncharmont B. (2019). Patologia Generale, Volume 1, Idelson-Gnocchi Editore.

Honjo Y, Ichinohe T. (2025). Neural crest cells are sensitive to radiation-induced DNA damage. Tissue Cell 94:102774.

DOI: 10.1016/j.tice.2025.102774.

Lopes R, Teles P, Santos J. (2025). A systematic review on the occupational health impacts of ionising radiation exposure among healthcare professionals. J. Radiol. Prot. 45(2).

DOI: 10.1088/1361-6498/added2.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Se il commercio globale si fermasse, il vostro paese riuscirebbe ad alimentarvi?

Le politiche fragili, i conflitti in corso, i dazi doganali e l’emergenza climatica mettono a rischio le reti commerciali e rendono i paesi vulnerabili agli shock di mercato; di conseguenza, questi ultimi stanno dando priorità all’autosufficienza e alla sicurezza alimentare. Ma cosa succederebbe se il commercio si interrompesse bruscamente per una di queste ragioni? Il vostro paese è completamente autosufficiente e in grado di provvedere in maniera completa al fabbisogno alimentare della sua popolazione? Per rispondere a questa domanda, una squadra di ricercatori dell’Università di Göttingen in Germania e dell’Università di Edimburgo nel Regno Unito ha analizzato i dati sulla produzione alimentare relativi a 186 diverse nazioni, pubblicando successivamente i propri risultati sulla rivista «Nature Food».

Al di sopra degli altri

La Guyana, un piccolo paese del Sud America con una popolazione di circa 800 000 abitanti, è risultata l’unica nazione autosufficiente in tutti e sette i gruppi alimentari essenziali, ovvero cereali, legumi (ad esempio fagioli, piselli, lenticchie e ceci), frutta, verdura, latte, carne e pesce, essendo in grado di produrre da sola tutte le principali categorie di alimenti. Seguono Cina e Vietnam, che producono cibo a sufficienza in sei dei sette gruppi su cui si è concentrato il team di ricerca. Tre paesi su cinque non hanno prodotto abbastanza cibo all’interno dei propri confini in almeno quattro gruppi su sette, mentre circa un paese su sette, soprattutto in Europa e in Sud America, era autosufficiente in cinque o più gruppi. Il dato preoccupante è che un terzo delle nazioni analizzate è in grado di produrre solo due o meno gruppi di alimenti: 25 sono in Africa, 10 nei Caraibi e 7 in Europa. Sei Paesi, soprattutto in Medio Oriente, non producevano a sufficienza in un solo gruppo di alimenti per il proprio fabbisogno.

Leggi l’articolo

Fonte: Commissione Europea




Resistenza all’amitraz nella varroa: uno studio pubblicato dal Centro di referenza nazionale per l’apicoltura fa il punto a livello globale

apicolturaLe api da miele (Apis mellifera) svolgono un ruolo cruciale nell’impollinazione delle colture agricole e nella conservazione degli ecosistemi naturali. Tuttavia, la sopravvivenza delle colonie è sempre più minacciata da numerosi fattori, tra cui l’infestazione da Varroa destructor, un acaro parassita considerato tra le principali cause di perdita delle colonie.

Per contrastare la varroa, gli apicoltori utilizzano strategie integrate, tra cui trattamenti chimici a base di acaricidi. Tra questi, l’amitraz è da anni uno dei principi attivi più utilizzati, considerato efficace e con basso rischio di sviluppo di resistenza.

Tuttavia, un recente studio realizzato dal Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), pubblicato sulla rivista scientifica Insects, evidenzia come anche l’uso diffuso dell’amitraz stia selezionando popolazioni resistenti di varroa.

Attraverso una revisione sistematica della letteratura, sono stati selezionati 74 studi globali riguardanti l’efficacia e la resistenza all’amitraz. I risultati mostrano che solo il 31,7% dei test in laboratorio raggiunge un’efficacia superiore al 95%, valore considerato ottimale. Inoltre, test condotti in diversi Paesi – inclusi Francia, Repubblica Ceca, USA e Argentina – segnalano un aumento progressivo dei livelli di resistenza.

Lo studio sottolinea la necessità urgente di programmi di monitoraggio a livello nazionale e strategie di gestione più consapevoli. In particolare, è fondamentale evitare un uso improprio degli acaricidi, promuovere la rotazione dei principi attivi nei trattamenti e investire nella ricerca su nuovi metodi di controllo.

Leggi l’articolo

Fonte: IZS Venezie




Influenza aviaria in Friuli Venezia Giulia, il ruolo dei cacciatori nella sorveglianza attiva

Un esempio di integrazione fra sorveglianza attiva e passiva negli uccelli selvatici grazie alla collaborazione con i cacciatori

La collaborazione tra autorità sanitarie pubbliche e mondo venatorio rappresenta un elemento chiave nelle attività di sorveglianza dell’influenza aviaria negli uccelli selvatici. L’Italia rappresenta una rotta privilegiata per gli uccelli migratori e un luogo importante di svernamento per molte specie di volatili acquatici, con potenziali risvolti sanitari sugli allevamenti avicoli e sulla salute dell’uomo. La collaborazione con i cacciatori può essere utile in fase di sorveglianza attiva per intercettare precocemente i segnali di rischio sanitario, contribuendo in modo concreto alla tutela della salute animale e pubblica.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate nel 2024 in Friuli Venezia Giulia 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1. È stata inoltre organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria. Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di campionare 466 animali, evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna nel 2024 prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate in Friuli Venezia Giulia complessivamente 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1.

I casi hanno riguardato esemplari di cigno reale (9), oca selvatica (2), canapiglia (1), fenicottero (1), garzetta (1), poiana (1) e volpoca (1). Un gabbiano comune è risultato invece positivo per un virus a bassa patogenicità (LPAI). Queste attività sono state svolte in collaborazione con le Aziende sanitarie locali, Servizio recupero fauna, Corpo Forestale Regionale e Centri di recupero della fauna selvatica

Per questo motivo in Friuli Venezia Giulia nel 2024 è stata organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria, integrando in tal modo i risultati della sorveglianza passiva.

Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di approfondire le conoscenze sulla diffusione dei virus influenzali evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati (71 positivi su 466 animali campionati, nelle province di Udine e Gorizia), con una diffusione particolarmente elevata nei fischioni (positività del 21,4%), seguiti da alzavola (8%) e germano reale (5,6%).

Leggi l’articolo

Fonte: IZS Venezie




Trentino: femmine di orso accompagnate dai piccoli, online la nuova mappa con le segnalazioni

E‘ online da oggi la nuova mappa che raccoglie le segnalazioni di presenza delle femmine di orso accompagnate dai piccoli nati in inverno. Come di consueto, i primi avvistamenti dei gruppi familiari da parte del personale forestale e degli escursionisti avvengono proprio nel corso del mese di maggio.
La mappa sul sito Grandicarnivori.provincia.tn.it è aggiornata dal Servizio Faunistico della Provincia autonoma di Trento in base alle informazioni raccolte e verificate e rappresenta un servizio informativo importante per frequentare la montagna con la necessaria consapevolezza. In tutte le aree del Trentino occidentale è fondamentale segnalare ai selvatici la propria presenza facendo rumore e seguendo le diverse regole di comportamento approvate dagli esperti a livello internazionale. È inoltre importante ricordarsi di tenere il proprio cane al guinzaglio.

Leggi l’articolo

Fonte: grandicarnivori.provincia.tn.it




Gli impatti del cambiamento climatico portano a una maggiore esposizione alle micotossine

Cambiamenti climaticiSecondo un documento pubblicato in questi giorni dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), l’innalzamento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici sta aumentando il rischio di esposizione umana alle micotossine, tossine naturali prodotte da funghi presenti in alcuni alimenti, mangimi e colture.

Il clima più caldo e umido riscontrato in tutte le regioni europee sta infatti favorendo una maggiore prevalenza di queste micotossine di origine fungina che possono danneggiare la salute.

Il rapporto dell’EEA “Esposizione alle micotossine in un clima europeo in evoluzione esamina le problematiche sanitarie associate alle micotossine, in particolare il loro impatto sulle colture alimentari e come un approccio europeo più coordinato possa contribuire a contrastarne la diffusione e a prevenirne la contaminazione.

Rischi per la salute 

Le micotossine, composti nocivi prodotti naturalmente dai funghi, rappresentano rischi significativi per la salute. Le tossine fungine possono alterare gli ormoni, indebolire il sistema immunitario, danneggiare fegato e reni, aumentare il rischio di aborto spontaneo, danneggiare il feto e agire come cancerogeni.

Le prove suggeriscono che alcuni gruppi potrebbero essere maggiormente a rischio di esposizione alle micotossine. I bambini piccoli (1-3 anni) e i neonati (sotto i 12 mesi) sono particolarmente vulnerabili a causa del loro maggiore apporto alimentare rispetto al peso corporeo, così come le donne in gravidanza e i lavoratori del settore agricolo, alimentare e mangimistico.

Secondo il  progetto europeo di biomonitoraggio chimico umano HBM4EUil 14% della popolazione adulta europea è esposta alla micotossina deossinivalenolo (DON) a livelli considerati dannosi per la salute umana. Questa particolare micotossina, il DON, si trova spesso naturalmente nel grano, nel mais e nell’orzo nelle regioni temperate.

Le persone sono esposte a queste tossine mangiando alimenti contaminati (in particolare cereali e prodotti che li contengono, come pane o pasta). Lavare e cuocere questi alimenti non rimuove necessariamente le micotossine. Questo è particolarmente problematico perché alcuni dei funghi che producono micotossine non sono visibili né rilevabili tramite odore o sapore. Altre vie di esposizione sono l’acqua potabile contaminata da scarichi agricoli, e l’inalazione e l’assorbimento cutaneo per le persone che lavorano con le colture o gli alimenti contaminati.

Leggi l’articolo

Fonte: Ruminantia.it




Il pesce palla argenteo arriva nell’Adriatico del Nord: attenzione al suo veleno!

Un pesce palla argenteo è stato pescato nella baia di Medulin, nel sud dell’Istria, segnando una nuova e preoccupante tappa nella diffusione di questa specie aliena nel Mediterraneo. La cattura dell’esemplare, effettuata da un pescatore sportivo a maggio 2024, è diventata di pubblico dominio solo nel marzo 2025, quando uno studio dell’Università di Pola con l’Istituto oceanografico di Spalato, pubblicato sulla rivista Acta Ichthyologica et Piscatoria ne ha confermato l’identificazione: “Lagocephalus sceleratus”.

 Si tratta del primo avvistamento di pesce palla argenteo nel nord dell’Adriatico e il più settentrionale mai registrato in tutto il bacino mediterraneo. La sua cattura rappresenta un campanello d’allarme per biologi marini, pescatori e autorità sanitarie, dato che si tratta di un pesce altamente tossico per l’uomo e dannoso per l’ecosistema marino.

Una minaccia per la salute pubblica

Il “Lagocephalus sceleratus” è un pesce appartenente alla famiglia dei Tetraodontidae, originario dell’Oceano Indiano e del Pacifico. La sua caratteristica principale, oltre all’aspetto inconfondibile con “guance argentate” e un becco simile a quello di un pappagallo, è la presenza di una neurotossina mortale: la tetrodotossina. Questa sostanza, mille volte più potente del cianuro, può causare paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ed è termostabile, cioè resistente alla cottura. In passato, le autorità sanitarie hanno registrato casi mortali in Egitto e in Italia, con episodi documentati negli anni ’70 e ’80. In Giappone, dove alcune specie di pesce palla vengono consumate come prelibatezze (fugu), esistono regolamenti severissimi per la preparazione, ma in Europa la commercializzazione è vietata dal Regolamento CE n. 853/2004.

Leggi l’articolo

Fonte: ilfattoalimentare.it




Inquinamento da microplastiche: in arrivo un nuovo regolamento Ue

microplastiche È stato raggiunto un accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sulla proposta di regolamentazione avanzata dalla Commissione rispetto al problema dell’inquinamento da microplastiche che si verifica durante le operazioni di trasporto, in particolare via mare.

“Ancora oggi, molti pellet di plastica vengono persi durante le operazioni quotidiane negli impianti di movimentazione o durante il trasporto che finiscono nell’ambiente, anche in mare, a causa di una manipolazione inadeguata da parte degli operatori marittimi e di altri operatori”, si legge in una nota diffusa dalla Commissione. “Le nuove norme dovrebbero ridurre le perdite di pellet di plastica fino al 74%, il che contribuirà a preservare gli ecosistemi e la biodiversità, ridurre i rischi per la salute umana e migliorare la reputazione del settore”.

Al fine di ridurre gli oneri amministrativi per le piccole imprese, la Commissione proposto di limitare gli obblighi di certificazione alle imprese che trattano più di 1.500 tonnellate di pellet di plastica all’anno. Al di sotto di tale soglia sarà richiesta solo un’autodichiarazione. Le imprese più piccole beneficeranno di un’assistenza speciale per conformarsi al nuovo regolamento. Il Parlamento europeo e il Consiglio dovranno ora adottare formalmente il nuovo regolamento prima che possa entrare in vigore, 20 giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Ue.

Leggi l’articolo

Fonte: alimentando.info