Uova sostenibili ed economiche? Sono oggi possibili, grazie alle larve di mosca soldato nera

uova

Abbattere le emissioni di gas serra derivate dalla filiera avicola e offrire ai consumatori uova più sostenibili è oggi possibile e può essere persino conveniente, sia per i produttori che per i consumatori. Uno strumento particolarmente promettente per ottenere questo risultato è l’allevamento delle mosche soldato nere. Questi insetti, infatti, consentono di fornire alle galline ovaiole mangimi proteici senza nessun dispendio energetico, impiegando solo rifiuti organici. Lo dimostra la startup innovativa di Cambridge (UK) Better Origin che, come racconta il notiziario Great Italian Food Trade, negli ultimi mesi ha fornito alla catena di supermercati Morrisons, la quinta nel Regno Unito, mangime destinato alle galline ovaiole tramite micro allevamenti di mosche soldato nutrite con scarti alimentari.

La mosca soldato nera (Hermetia illucens), di cui abbiamo già parlato, è diversa dalla mosca domestica ed è tra le pochissime specie non autoctone di insetti che è possibile allevare in Ue. Nell’ultimo decennio l’interesse nei suoi confronti è cresciuto notevolmente, perché si è scoperto che la sua larva è capace di convertire gli scarti organici, inclusi i sottoprodotti di origine vegetale e animale (compreso il letame), in materie prime per mangimi, fertilizzanti, biodiesel, cosmetici.

I vantaggi di quest’operazione sono importanti. In primo luogo 1.500 tonnellate all’anno di rifiuti vengono trasformati in proteine. Inoltre la sostituzione della soia con le larve autoprodotte evita l’emissione di 5.737 tonnellate all’anno di anidride carbonica, riduzione che arriverebbe a 33 mila tonnellate l’anno se Morrisons estendesse quest’approccio a tutti i fornitori di uova con il suo marchio. L’eliminazione dell’uso di soia proveniente dal Brasile, poi, comporta anche una riduzione delle deforestazioni, visto che le proteine offerte dai 10 box di Better Origin corrispondono a circa 56 ettari di terra coltivata a soia in Sud America.

Si tratta insomma di un progetto molto efficiente, che sarebbe raccomandabile esportare, anche in considerazione del fatto che la stessa Fao indica il settore avicolo come la prima fonte al mondo di proteine animali, con un consumo che negli ultimi 60 anni è quintuplicato e per il quale prevede un aumento ulteriore. Gli insetti, da sempre nella dieta di queste specie, hanno un ruolo essenziale nello sviluppo di una zootecnia più sostenibile da tutti i punti di vista, anche quello del prezzo pagato a scaffale dai consumatori, visto che i prodotti in questione sono venduti a meno. Come abbiamo raccontato in un precedente articolo, una sperimentazione di questo tipo di alimentazione è stata condotta lo scorso anno anche in Italia, dall’Università di Torino.

In prospettiva, poi, nel rispetto di appositi disciplinari a garanzia della sicurezza alimentare, queste larve potranno anche venire autorizzate come novel food ed essere quindi ammesse nell’alimentazione umana. Su tale fronte, reso in Europa certamente più complesso dalla mancanza di una tradizione legata al consumo umano di insetti, le prime specie sono già state autorizzate (larva della farina, grillo domestico e locusta migratoria).  La scorsa estate la Commissione Ue si è espressa sul suo profilo Twitter promuovendo gli insetti come cibo nutriente e salutare, utile in una dieta sana e sostenibile, mentre in Italia sottosegretario alle Politiche agricole Gian Marco Centinaio ha commentato le dichiarazioni della Commissione contrapponendo i nuovi alimenti ai prodotti della tradizione made in Italy.

Non c’è però alcuna competizione. I novel food si possono tranquillamente affiancare agli alimenti classici della tradizione. Lo conferma anche la scelta della prima azienda autorizzata a commercializzare in Italia alimenti contenenti ingredienti derivati dagli insetti. Fucibo, questo il nome dell’azienda, ha infatti scelto di introdurre la polvere di larva della farina miscelandola come arricchimento proteico in alimenti diffusi e conosciuti. Il primo passo è stato il lancio degli snack avvenuto lo scorso aprile. Quest’estate sono invece stati proposti dall’azienda i primi biscotti: una ricetta a base di farina di mais, con un contenuto di farina di larve tra il 6% nella versione classica e il 5% in quella al cacao.

Fonte: ilfattoalimentare.it




Non solo carne, arrivano anche i formaggi sintetizzati in laboratorio

Nei laboratori europei non si stanno sperimentando solo le alternative “sintetiche” alla carne, ma anche ai formaggi. Nel futuro prossimo dovremo dunque abituarci ad assaporare caciotte e yogurt il cui latte non proviene direttamente dalla mammelle di una mucca o di una pecora? La possibilità si sta facendo sempre più concreta, come spiega un articolo pubblicato dal quotidiano britannico Times che è andato a testare gli esperimenti in corso presso l’azienda Better Dairy, nella zona est di Londra. Nei suoi uffici un team di scienziati sta cercando di creare prodotti lattiero-caseari in condizioni di laboratorio.

Alternative vegane

L’idea alla base non è quella di offrire alimenti vegetariani o vegani alternativi, come il latte d’avena o hamburger a base di piselli e ceci, ma di realizzare cibi il cui gusto riproduca esattamente quello di origine animale, rendendolo indistinguibile al palato umano rispetto all’originale. A spingere per questa rivoluzione alimentare ci sarebbe la lotta al cambiamento climatico. Secondo le Nazioni Unite nel 2015 l’industria lattiero-casearia ha prodotto oltre 1.700 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Quasi quanto la Russia, il quarto Paese che inquina di più. Caposaldo di queste sperimentazioni è la biologia sintetica, che è l’ambito in cui si è specializzato Christopher Reynolds, co-fondatore di Better Dairy, con l’ex collega universitario Jevan Nagarajah.

Milioni di fondi

L’azienda, grazie ad un finanziamento di 22 milioni di dollari, ha potuto rapidamente ampliare il suo team da nove a venticinque persone trasferendosi anche in un laboratorio più spazioso dove si produce la caseina, la proteina che conferisce ai formaggi morbidezza ed elasticità. Gli scienziati dapprima hanno osservato il genoma delle mucche per vedere come la producono, in seguito hanno riprogrammato geneticamente i microbi del lievito per ricrearla sinteticamente. “Se si pensa a un microrganismo come a un codice, si può iniziare a tagliare il codice e a spostarlo dentro e fuori”, ha spiegato Nagarajah.

Fermentazione di precisione

Come funziona questa riprogrammazione? Gli scienziati parlano di fermentazione di precisione: ossigenano i microrganismi e li alimentano con zucchero, affinché sia stimolati a produrre determinate molecole. In sostanza vengono fatti fermentare proprio come avviene con le colture per produrre birra. Dalla miscela zuccherina che si crea vanno ad estrarre la caseina. Alle proteine del latte vengono poi aggiunti altri due ingredienti: zuccheri e grassi. Infine si fa stagionare il tutto proprio come succede nella produzione di un normale formaggio. Nel laboratorio di Better Dairy, in corso d’opera, hanno apportato una correzione, sostituendo il lattosio, a cui molte persone sono intolleranti, con zuccheri di origine vegetale al fine di ampliare il proprio pubblico. “Questo non fa alcuna differenza per il prodotto finale, ma significa che possiamo abbassare il livello di colesterolo. L’idea che sta alla base del nome Better Dairy è che, facendo quello che stiamo facendo, si potrebbe ottenere un prodotto migliore dei latticini” sostiene il co-fondatore.

Assaggi insoddisfacenti

Secondo il giornalista del Times, però, “l’azienda non è ancora all’altezza del suo nome”. Sia la loro versione di cheddar che di gouda non avrebbero “un gran sapore”. Secondo il responsabile, l’assenza di gusto deriverebbe da una stagionatura troppo breve pari a un solo un mese. Solo la terza tipologia assaggiata avrebbe avuto, secondo l’autore dell’articolo, una consistenza ed un gusto che si avvicinano ad un cheddar di fascia economica. L’azienda starebbe tentando di imitare anche formaggi tipici italiani come il gorgonzola e la mozzarella, uno dei latticini più esportati dall’Italia, spesso imitato male nel nostro Paese anche quando prodotto con latte vero. Prima di poter essere commercializzati nel Regno Unito, questi alimenti dovranno essere approvati dalla Food Standards Agency e da enti equivalenti in altri Paesi, che però a livello Ue potrebbero impedirne la diffusione sotto la dicitura di “formaggi”.

Dovrebbe invece essere più semplice il via libera negli Stati Uniti, dove “diverse aziende hanno già immesso sul mercato prodotti che utilizzano la fermentazione di precisione, che si tratti di proteine del latte, proteine dell’uovo o gelatina” come dichiara l’imprenditore britannico. Secondo i calcoli, questi formaggi sintetici costerebbero all’inizio circa il doppio rispetto ai loro equivalenti naturali, ma ci sarebbe già una nicchia di clienti disposti a spendere di più. L’obiettivo è quello nel tempo di abbassare i costi e di estendere la propria fetta di mercato. Se questo avvenisse per le varie start-up che stanno realizzando esperimenti analoghi a livello globale, gli scossoni per l’industria lattiero-casearia, accusata in questi anni di sfruttare eccessivamente gli animali con allevamenti intensivi e ritmi produttivi folli, potrebbero essere notevoli e profondi. Secondo studi sul settore alimentare sono circa 600 milioni le persone nel mondo che lavorano in queste aziende, mentre altri 400 milioni sono connesse economicamente a questo settore. Lo sconvolgimento sociale potrebbe essere enorme.
Fonte: Agrifoodtoday.it



Per sfamare il pianeta dovremmo allevare roditori?

 Per sfamare una popolazione mondiale in continua crescita in maniera sostenibile dovremmo allevare i roditori? Ne parla un articolo di Giovanni Ballarini su Georgofili.info, notiziario di informazione a cura dell’Accademia dei Georgofili

Cutty Sark è il nome di uno delle più famose navi a vela veloci adibite al trasporto delle merci sulle rotte oceaniche (da New York a San Francisco via Capo Horn), utilizzate fin sul finire del XIX secolo prima della ferrovia transcontinentale americana e l’apertura del Canale di Panama. Una leggenda su questa nave racconta che l’equipaggio non soffriva di scorbuto, perché durante la navigazione il cibo a bordo veniva  integrato con i ratti, le cui carni contengono vitamina C. Secondo la leggenda, si tratta di un’abitudine  dei marinai di origine africana, che seguivano antiche abitudini alimentari delle terre d’origine, dove i topi e i ratti sono denominati ‘quaglie dei poveri’.

Mangiare piccoli animali non è comunque una cosa così strana. Ad esempio nel Medioevo europeo l’alimentazione a base di carne comprendeva: cervi, caprioli, daini e altri grandi ruminanti destinati ai signori, mentre cinghiali e maiali erano per commercianti e artigiani. Il popolo si accontentava delle carni minute di una miriade di piccoli animali che comprendevano conigli e altri roditori, uccelli di ogni taglia dai colombi ai passeri, gatti e altre bestiole catturate con i più diversi mezzi. Oggi il solo pensiero di mangiare un topo o un ratto innesca una forte reazione di disgusto nella maggior parte degli occidentali, ma per molte persone nel mondo un roditore è una delizia culinaria come ha fatto notare anche Karl Gruber (*).

Cibarsi di roditori non è quindi una nuova tendenza: le cavie sono i primi roditori addomesticati e allevati in Perù nel 2.500 a. C. In Cina, durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), i ratti sono denominati cervi domestici e si mangiano anche appena nati ripieni di miele, in una maniera che ricorda i ghiri al miele degli antichi romani. Roditori di piccola taglia non sono quindi sgraditi ma ricercati anche dai ricchi. I ratti sono un alimento anche in alcuni Paesi dell’Indocina. In Sud e Centro America diverse specie di roditori sono molto apprezzate in cucina anche in preparazioni gastronomiche e alcune sono allevate in modo simile agli animali domestici.

I ratti della canna da zucchero (Thryonomys swinderianus), presenti in tutta l’Africa occidentale e centrale, sono roditori che raggiungono i sessanta centimetri di lunghezza e un peso di dieci chilogrammi. Sono cacciati come altri animali selvatici o allevati in Benin, Togo, Camerun, Costa d’Avorio, Gabon, Ghana, Nigeria, Senegal e altri paesi. Per i curiosi, sono già serviti in alcuni ristoranti africani in Europa, a Londra come a Parigi.  L’agouti (Dasyprocta punctata), il capibara (Hydrochoerus hydrochoerus) e la nutria (Myocastor coypus) sono trasformati in piatti in diversi paesi dell’America Latina. In Perù il cuy, cavia o porcellino d’India (Cavia porcellus), è una prelibatezza gastronomica. In Italia istrici e scoiattoli sono stati a lungo tempo considerati cibo. In molti paesi e regioni, la carne di roditori è quindi una componente della dieta delle persone, non solo dei poveri, ed è apprezzata per il suo gusto.

I roditori sono l’ordine di mammiferi più numeroso in termini di specie (probabilmente non in termini di biomassa), comprendente circa il 43% delle specie totali attualmente esistenti. Il loro successo è dovuto alla piccola taglia, al breve ciclo riproduttivo e all’abilità di rosicchiare e mangiare un’ampia varietà di cibo. L’uso alimentare dei roditori da parte dell’uomo è quasi esclusivamente un fenomeno culturale e per questo, almeno nelle molte aree del mondo dove questi animali già da tempo immemorabile sono consumati come cibo, alcuni esperti suggeriscono che allevare e mangiare roditori potrebbe essere una soluzione per alleviare i problemi di fame e malnutrizione. Un’idea non nuova, perché secondo un rapporto della Fao, almeno undici specie di roditori sono utilizzate in tutto il Centro e Sud America come fonti di carne, e un numero simile di specie viene consumato in Africa, creando allevamenti di animali di piccola taglia, ma di grande produttività e con la capacità di usare alimenti di scarto e sottoprodotti non competitivi con l’alimentazione umana.

Secondo le stime della Fao, la popolazione sulla Terra dovrebbe raggiungere i nove miliardi entro il 2050, richiedendo un aumento del 50% della produttività alimentare, soprattutto di carne. I roditori potrebbero essere un modo per contribuire ad affrontare il problema di un pianeta che non può sostenere la prevista domanda di proteine della carne. Questi animali potrebbero essere trasformati in cibo, in modo analogo a quanto sta avvenendo per gli insetti. Tutto questo considerando gli importanti se non determinanti aspetti culturali , sapendo che per una parte della popolazione mondiale mangiare roditori non sarebbe una novità, ma un ‘ritorno al futuro’.

Fonte: ilfattoalimentare.it




Il ruolo dei pipistrelli nella tutela delle foreste. E delle aree agricole circostanti

Un recente studio italiano analizza la dieta di due rare specie di pipistrelli forestali, il barbastello e l’orecchione bruno, mostrando come sia basata su una grande quantità d’insetti nocivi per la vegetazione. La predazione da parte di questi due chirotteri risulta un vantaggio sia per il bosco in cui vivono sia per le aree coltivate circostanti. Tutelare il barbastello e l’orecchione bruno, quindi, significa salvaguardare non solo le foreste, con i servizi ecosistemici che ci offrono, ma anche l’agricoltura.

Su Scienza in rete abbiamo più volte scritto di come i pipistrelli, pur spesso percepiti negativamente (per esempio, in relazione alle zoonosi), abbiano in realtà un enorme valore per gli ecosistemi, per esempio per il controllo che possono esercitare sugli insetti nocivi. La maggior parte degli studi sul ruolo dei chirotteri insettivori si è finora svolta negli Stati Uniti e si è concentrata soprattutto su alcune specie piuttosto diffuse e sugli ambienti di maggior valore economico per le nostre attività, come le aree agricole. Ora, un lavoro condotto da ricercatori e ricercatrici dell’Università Federico II di Napoli, Università di Milano Bicocca e dell’Istituto per la protezione sostenibile delle piante del CNR inizia a raccogliere alcune informazioni importanti anche per l’Italia, informazioni tanto più preziose perché riguardano due specie di chirotteri già rare e minacciate.

Lo studio, che vede come primo autore Leonardo Ancillotto ed è guidato da Danilo Russo, entrambi dell’Università Federico II di Napoli, analizza la dieta del barbastello (Barbastella barbastellus) e dell’orecchione bruno (Plecotus auritus) mostrando come le due specie, pur essendo legate all’ambiente forestale – e in particolare quello delle foreste non gestite dagli umani – possano contribuire a tutelare tanto il bosco quanto le aree agricole circostanti, perché si nutrono di numerose specie di insetti nocivi per le piante.

Il rifugio nelle foreste antiche

«Questo studio s’innesta su due filoni di ricerca che abbiamo in corso, l’uno riguardante l’ecologia dei pipistrelli forestali, relativamente poco conosciuti, e l’altro sulla dieta dei chirotteri, per la quale le tecniche molecolari messe a punto negli ultimi vent’anni hanno consentito di raggiungere un dettaglio molto maggiore di quello possibile in precedenza», spiega Russo. «Sia il barbastello sia l’orecchione bruno sono insettivori strettamente legati alle foreste mature: per questa ragione, il nostro studio si è svolto nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che comprende faggete rimaste indisturbate per almeno cinquant’anni».

In questo ecosistema si trovano quindi molte generazioni forestali, alberi morti e altri elementi che sostengono una notevole biodiversità (non a caso, si trovano qui anche altre specie rare come il picchio di Lilford e la rosalia delle Alpi). Si tratta di un ambiente non unico, ma certo non molto diffuso in Europa dove, sebbene la copertura forestale sia aumentata nel corso degli ultimi anni, le foreste indisturbate, cioè non soggette alla gestione umana da almeno cinquant’anni, si attesta solo intorno al 2,2%. Nelle faggete del Parco, la presenza di alberi maturi, dal tronco molto più spesso di quello che potrebbe trovarsi, per esempio, nei boschi cedui, consente ai pipistrelli di reperire rifugi idonei: in particolare, il barbastello è legato alle cavità di desquamazione dei tronchi morti, mentre l’orecchione bruno utilizza cavità più profonde, come quelle scavate dai picchi.

Una dieta ricca di specie nocive

Per un mese (tra giugno e luglio 2019), autori e autrici dello studio hanno catturato i pipistrelli e li hanno tenuti per breve tempo in borse di cotone, dalle quali hanno poi prelevato gli escrementi prima di liberare gli animali. Gli escrementi sono quindi stati analizzati per identificare il DNA degli insetti ingeriti, dal quale è stato poi possibile risalire alla specie, o almeno al genere.

«Ci aspettavamo che la dieta dei pipistrelli comprendesse molti insetti essenzialmente forestali, e potesse quindi avere un ruolo nella tutela del bosco dalle specie nocive», spiega Russo. «Ma dall’analisi sono emersi due elementi importanti. Il primo è che questi pipistrelli si alimentano di insetti che non sono nocivi solo per l’ecosistema forestale ma anche per le aree agricole circostanti, tra cui molti lepidotteri (l’ordine che comprende falene e farfalle), ditteri che sono noti per il loro impatto sulle coltivazioni e anche specie nocive emergenti, in particolare il Nysius cymoides o ligeide della colza, un emittero fitofago che ha creato importanti danni alle coltivazioni negli ultimi anni. E, anche se le tecniche molecolari impiegate non ci consentono di ottenere stime quantitative, abbiamo visto che la frequenza di questi insetti nella dieta dei pipistrelli è significativa e può avere un impatto importante nella tutela delle piante: per esempio, la dieta dell’orecchione bruno può includere fino all’85% di insetti nocivi».

Primo messaggio chiave che emerge dall’analisi, quindi, è che tutelare l’habitat dell’orecchione bruno e del barbastello significa non solo proteggere la foresta da questi insetti, ma anche le aree agricole circostanti che possono esserne danneggiate. Infatti, non solo alcuni di questi insetti popolano entrambi gli ecosistemi, ma almeno il barbastello si spinge a cacciare anche su areali ampi, uscendo dal bosco e nutrendosi sui campi intorno.

Diete complementari

«Un secondo elemento interessante emerso dall’indagine è che la dieta del barbastello e dell’orecchione bruno risultano complementari, cioè vi è una sovrapposizione solo parziale delle specie di cui si nutrono», spiega ancora Russo. Infatti, dei 71 gruppi d’insetti di cui si nutre il barbastello e dei 69 individuati per l’orecchione bruno, solo 52 sono “in comune”, predati da entrambe le specie.

Questo dipende, in parte, dalle diverse tecniche di caccia attuate dalle due specie. Alcune falene, per esempio, hanno evoluto organi timpanici che consentono loro di percepire l’arrivo del predatore e mettere in campo manovre evasive (per esempio lasciandosi cadere o effettuando dei loop in volo) e che le rendono relativamente resistenti alla predazione di numerose specie di chirotteri insettivori. Ma, nel caso del barbastello e dell’orecchione bruno, queste strategie non sono sufficienti: nella corsa agli armamenti che caratterizza le relazioni tra preda e predatore, anche i pipistrelli hanno evoluto dei sistemi che consentono loro di arrivare alla falena. Il barbastello, per esempio, emette ultrasuoni molto deboli (si parla di stealth echolocation, cioè di un’ecolocazione discreta, invisibile) che la falena può percepire solo quando ormai il predatore è vicino e la fuga impossibile; l’orecchione bruno, invece, è in grado di udire passivamente il rumore che la falena produce quando si posa sulla vegetazione.

«Unito al fatto che le due specie sfruttano territori di caccia parzialmente differenti, con l’orecchione più legato all’ambiente forestale e il barbastello in grado di allargarsi anche alle aree circostanti, queste diverse strategie di caccia sono probabilmente alla base della complementarità osservata nella dieta», continua il ricercatore. «Comunque, il fatto che B. barbastellus e P. auritus si nutrano di insetti differenti indica come, mantenendo in buona salute le comunità di pipistrelli, sia possibile massimizzare i vantaggi che offrono, agendo su numerosi gruppi diversi di insetti nocivi».

Due al prezzo di uno: la protezione di bosco e aree agricole

«Di solito, sono le specie più abbondati in un dato areale a fornire la maggior parte dei servizi ecosistemici. Per questa ragione, sono scarsi gli studi che si concentrano sul ruolo ecologico delle specie rare; tuttavia, da quanto emerge dal nostro lavoro, sia il barbastello che l’orecchione bruno sono dei veri e propri specialisti, delle “truppe d’assalto” per la protezione del bosco», commenta Russo. Lo studio della dieta non può dimostrare in modo inoppugnabile che la predazione da parte di queste due specie consenta di tenere sotto controllo, dal punto di vista demografico, le popolazioni d’insetti; per questa ragione, si preferisce parlare di ruolo di “soppressione”, piuttosto che di controllo vero e proprio. Tuttavia, il fatto che la dieta dei due pipistrelli sia così ricca di specie nocive suggerisce un ruolo comunque molto importante nella tutela degli ecosistemi forestali e degli agroecosistemi.

Tanto il barbastello quanto l’orecchione bruno sono specie a rischio in Italia: il primo è a oggi classificato come in pericolo dalla IUCN, mentre il secondo è classificato come prossimo alla minaccia: una delle ragioni principali è la perdita di habitat, proprio a causa della scarsità di boschi indisturbati presenti sul nostro territorio. Se si considerano insieme l’enorme valore delle foreste, in termini di servizi ecosistemici che ci forniscono, e il ruolo dei pipistrelli forestali nella protezione sia del bosco sia delle aree agricole circostanti, diventa particolarmente evidente quanto importante sia proteggere questi ecosistemi, messi spesso a rischio non solo da una gestione poco sostenibile ma anche dagli effetti del cambiamento climatico, come gli incendi, che favoriscono anche in molti casi la diffusione d’insetti nocivi.

«È noto che i pipistrelli che abitano le aree agricole siano una protezione per le coltivazioni, ma molto meno noto è il ruolo che hanno anche le specie forestali. La possibile azione di protezione di entrambi gli ecosistemi da parte delle due specie che abbiamo studiato, invece, sottolinea ancora una volta quanto la tutela della biodiversità possa portare a benefici che superano il singolo sistema tutelato. In più, vale la pena notare che di molti insetti non manifestano un comportamento da “nocivo” solo perché sono tenuti a bada dai loro nemici naturali, pipistrelli inclusi, ma possono diventare tali se i predatori diminuiscono o scompaiono », conclude il ricercatore.

Fonte: scienzainrete.it




Dal pesce scorpione al granchio blu, nuove frontiere a tavola

Dal pesce scorpione grigliato, all’antipasto a base del pesce coniglio, al granchio blu al vapore, una specie quest’ultima molto diffusa e apprezzata in Italia, tanto da pensare alla creazione di una vera e propria filiera.

 Sono oltre mille le specie aliene stabilizzate nel Mediterraneo per l’innalzamento delle temperature che, da problema per ecosistemi marini e pescatori, sono diventate un’opportunità economica e ambientale.

Finiscono in cucina e hanno fatto nascere nuovi promettenti mercati.

Merito anche della Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo della Fao che ha puntato a formare i pescatori per catturare pesci alieni e i consumatori a mangiarli. E questo in molti Paesi del Bacino, come Cipro, Egitto, Grecia, Libano, Israele, Siria e Turchia.

“Attenuare l’impatto di questi specie è praticamente impossibile – fa sapere Miguel Bernal del Gfcm-Fao – e la pesca commerciale si dimostra lo strumento più efficace”. Basti pensare che negli Usa dove si consumano 60 mila tonnellate l’anno di granchi blu, hanno messo a punto una nuova tecnologi per estrarne e facilmente la polpa. Una frontiera emergente anche in Italia, dove la dicono lunga i furti dei cinesi denunciati a Goro. I listini di vendita all’ingrosso sono ancora contenuti, fa sapere Fedagripesca-Confcooperative, tra i 2 e i 10 euro al chilo ma i segnali di crescita ormai ci sono tutti.

Fonte: ansa.it




Virus nelle specie di insetti commestibili allevati, una revisione sistematica della letteratura scientifica

InsettiGli insetti hanno le potenzialità per diventare un’importante fonte alimentare sia per l’alimentazione animale che umana nel mondo Occidentale, ma con quali garanzie per la salute della specie e la sicurezza alimentare? Una revisione sistematica condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha individuato più di 70 specie di virus presenti negli insetti commestibili allevati, per la maggior parte non patogeni né per gli insetti né per l’uomo. Esistono però dei virus, specifici degli insetti, capaci di infettare e causare malattia e portare alla morte in breve tempo intere colonie di insetti allevati. Il rischio di trasmettere all’uomo virus di origine alimentare tramite insetti edibili è considerato basso, essendo al momento attributo loro solo un ruolo meccanico nella diffusione di patogeni. Dato il numero limitato di studi presenti finora in letteratura, lo studio IZSVe suggerisce la necessità di investire in ricerca e biosicurezza.

Insetti, allevamenti e virus

Gli insetti rappresentano il più grande gruppo di animali sulla terra in termini di biodiversità, che si riflette in una gamma corrispondente di virus infettanti. Appartenenti alla categoria dei novel food, gli insetti edibili sono già parte della dieta quotidiana di milioni di persone nel mondo, e rappresentano delle fonti di proteine alternative.

Appartenenti alla categoria dei novel food, gli insetti edibili sono già parte della dieta quotidiana di milioni di persone nel mondo. Rispondono inoltre al bisogno di fonti di proteine alternative che possano essere di qualità dal punto di vista nutrizionale, prodotte con un basso costo e limitato impatto ambientale. Attualmente dodici sono le specie segnalate dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) per aver il maggiore potenziale di utilizzo come alimenti e mangimi nell’Unione Europea.

Gli insetti rappresentano il più grande gruppo di animali sulla terra in termini di biodiversità, che si riflette in una gamma corrispondente di virus infettanti, che possono avere un impatto importante sulla salute umana e animale. Sebbene i virus facciano parte del normale micriobiota di un insetto, in particolari situazioni potrebbero diventare patogeni per l’insetto ospite, causando un calo della crescita e delle prestazioni riproduttive, oltre a malattie e mortalità.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è la capacità vettoriale degli insetti edibili allevati: virus presenti in questi invertebrati possono trasmettersi ai vertebrati (uomo, altri animali) ed essere elemento di criticità in allevamento, perché i diversi sistemi di produzione (allevamento industrializzato o raccolta selvatica) possono contribuire a differenze nella loro sicurezza.

Lo studio IZSVe

Mentre esiste un’abbondante letteratura sulla presenza di virus negli insetti di valore economico o di importanza per la salute pubblica (è il caso di bachi da seta, api e zanzare), sono ancora pochi gli studi condotti sui virus degli insetti edibili. Ricercatori del Laboratorio parassitologia, micologia ed entomologia sanitaria (SCS3) e del Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’IZSVe hanno realizzato una revisione sistematica della letteratura, pubblicata sulla rivista Virus, con l’obiettivo di fornire una panoramica dei virus presenti negli insetti edibili e considerati promettenti per l’allevamento in Unione Europea. Sono state prese in considerazione 15 specie (comprese le 12 selezionate da EFSA), coprendo 5 ordini di insetti: coleotteri, ditteri, lepidotteri e ortotteri.

Una revisione sistematica condotta dall’IZSVe ha individuato più di 70 specie di virus presenti negli insetti commestibili allevati, per la maggior parte non patogeni né per gli insetti né per l’uomo. Nonostante alcuni virus patogeni per gli insetti rappresentino un rischio per i sistemi di allevamento di massa di insetti, il rischio di trasmettere all’uomo virus di origine alimentare tramite insetti edibili è considerato basso.

Negli insetti in esame è stata confermata la presenza di più di 70 specie di virus, appartenenti a 22 famiglie diverse. Non ci sono segnalazioni sul rilevamento di virus per due specie, A. grisella e H. illucens, mentre per altre specie le segnalazioni sono risultate a volte limitate o datate. L’ordine degli ortotteri sembra essere quello più colpito: sette le famiglie virali individuate, tra cui le Iridoviridae e le Densoviridae, generalmente considerate le più pericolose.

L’ordine dei lepidotteri (rappresentato da G. mellonella) è interessato da specie virali appartenenti alle famiglie Baculoviridae, Iridoviridae, mentre i Densovirus sono segnalati raramente; altre specie virali segnalate per infettare G. mellonella sono membri delle famiglie DicistoviridaeParvoviridae e Picornaviridae. Nell’ordine dei coleotteri sono stati segnalati per la loro mortalità virus appartenenti alle famiglie Iridoviridae e Parvoviridae. Solo due virus sono stati infine descritti come patogeni per i ditteri.

I virus rinvenuti negli insetti edibili possono essere non patogeni o patogeni per gli insetti stessi, per gli uomini e/o per gli animali. I virus patogeni per gli insetti costituiscono un rischio per i sistemi di allevamento di massa di insetti, in quanto capaci di causare elevate perdite economiche provocando sia un drastico calo della crescita nei stadi giovanili sia delle performance riproduttive degli adulti, fino a causare un’elevata e rapida mortalità. Inoltre alcuni virus veicolati dagli insetti e patogeni per l’uomo o gli animali potrebbero rappresentare un rischio per la salute pubblica, se non adeguatamente gestiti quando gli insetti vengono utilizzati per produrre alimenti e mangimi.

Il rischio di trasmettere all’uomo virus di origine alimentare tramite insetti edibili è considerato basso: i virus di origine alimentare potrebbero essere introdotti nella produzione primaria attraverso il substrato di allevamento o la manipolazione da parte dell’operatore. Tra gli studi analizzati, un solo articolo ha studiato la presenza di virus di origine alimentare in tre specie di insetti allevati a uso alimentare, ottenendo risultati negativi per la presenza di virus dell’epatite A, virus dell’epatite E e norovirus.

Ricerca e biosicurezza

La revisione sistematica fornisce un quadro d’insieme delle specie virali maggiormente presenti negli insetti edibili con possibilità commerciali: su queste sarà necessario focalizzare lo studio delle dinamiche virali e condurre più studi e infezioni sperimentali per comprenderne meglio l’impatto nei sistemi di allevamento industrializzati e in termini di sicurezza alimentare.

Nel frattempo, poiché a oggi non esiste una cura per le infezioni virali negli insetti edibili, le strategie di allevamento devono concentrarsi sulla definizione e standardizzazione di buone pratiche agricole. Le misure di biosicurezza si confermano ancora una volta una fondamentale e immediata strategia di prevenzione.

Fonte: IZS Venezie




West Nile, confermata in Veneto la circolazione di due ceppi virali

Sulla base di analisi genetiche condotte contemporaneamente su zanzare, uccelli e uomo, i ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie hanno verificato che in Veneto circolano due ceppi di virus West Nile, denominati WNV-1 e WNV-2.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Eurosurveillance.

La co-circolazione di WNV-1 e WNV-2 è stata confermata dalle analisi genetiche e filogenetiche condotte su campioni provenienti da zanzare, uccelli e uomo. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata in particolare sul ceppo WNV-1, che è ricomparso nel 2021 dopo otto anni di assenza dal nord-est e sembra oggi essersi stabilizzato in quest’area geografica. La sorveglianza veterinaria sugli uccelli selvatici ha consentito di identificare WNV-1 in esemplari di tortora dal collare, piccione, corvidi e rapaci notturni rivenuti nelle province di Padova, Rovigo e Venezia. L’ipotesi è dunque che la reintroduzione di questo ceppo possa essere stata favorita all’origine da uccelli selvatici che hanno riportato il virus in questa parte di territorio.

I ricercatori ribadiscono il ruolo fondamentale giocato dai cambiamenti climatici nelle dinamiche di insorgenza di focolai di WNV nel serbatoio animale (uccelli, mammiferi) e nei vettori di malattia (zanzare). Secondo alcuni modelli epidemiologici, le scarse precipitazioni invernali e le alte temperature primaverili registrate negli ultimi anni in Europa potrebbero aver influenzato i meccanismi di diffusione della malattia, aumentando i tassi di crescita della popolazione di zanzare, di puntura e trasmissione del virus.

Leggi l’articolo integrale sul sito dell’IZS delle Venezie




Consumo di suolo: nel 2021 il valore più alto degli ultimi 10 anni

albero, proteggereCon una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, il consumo di suolo torna a crescere e nel 2021 sfiora i 70 km2 di nuove coperture artificiali in un solo anno. Il cemento ricopre ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato.

Como, Impruneta e Marano di Valpolicella si aggiudicano la prima edizione del concorso ISPRA e conquistano il titolo di “Comune Risparmia suolo” del 2022.




Primo monitoraggio nazionale sul lupo in Italia, i risultati

Sono stati pubblicati i risultati del primo monitoraggio nazionale sul lupo in Italia, coordinato dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale ISPRA, su mandato del Ministero della Transizione Ecologica MiTE per comprendere quanti e dove sono i lupi in Italia

Il lavoro è stato svolto tra il 2018 e il 2022, con una raccolta dati realizzata tra Ottobre 2020 – Aprile 2021 che ha permesso di stimare l’abbondanza (intesa come numero di individui, N) e la distribuzione (area minima occupata nella regione alpina e la area stimata nella zona peninsulare) della specie.

Le stime dell’abbondanza della specie per le regioni alpine e per le regioni dell’Italia peninsulare sono state prodotte in maniera indipendente con i medesimi modelli statistici. I due valori risultanti e i rispettivi intervalli sono stati integrati, ottenendo una stima della consistenza complessiva a livello nazionale.

La stima della popolazione del lupo a scala nazionale è risultata pertanto pari a 3.307 individui (forchetta 2.945 – 3.608).

La stima della distribuzione del lupo in Italia viene fornita in due mappe distinte ottenute da una base metodologica comune. Nelle regioni alpine sono state campionate il 100% delle celle di presunta presenza della specie ottenendo una mappa di distribuzione minima. Nelle regioni peninsulari, tenuto conto della maggiore estensione dell’areale di presunta presenza della specie, sono state selezionate per la raccolta dei dati il 35% delle celle identificate idonee. Per estrapolare i risultati verso il restante 65% di celle, si sono utilizzati modelli statistici ottenendo una mappa di probabilità di presenza.

Sulla base dei dati raccolti, il range minimo di presenza del lupo nelle regioni alpine nel 2020-2021, considerando l’anno biologico della specie (1° maggio 2020 – 30 aprile 2021), è stato stimato di 41.600 km2. Nelle regioni peninsulari, l’estensione complessiva della distribuzione è risultata pari a 108.534 km2 (forchetta = 103.200 – 114.000 km2). Il lupo occupa quindi una larga parte del paese e nelle regioni peninsulari ha colonizzato la quasi totalità degli ambienti idonei.

Dalle analisi genetiche condotte sui campioni raccolti nell’area peninsulare sono stati identificati geneticamente 513 individui di lupo. Il 72,7 % non ha mostrato ai marcatori molecolari analizzati alcun segno genetico di ibridazione recente o antica con il cane domestico, l’11,7 % mostrava segni di ibridazione recente con il cane domestico, il 15,6 % hanno mostrato segni di più antica ibridazione (re-incrocio con il cane domestico avvenuto oltre approssimativamente tre generazioni nel passato). Occorre sottolineare che i valori dei tassi di ibridazione antica o recente ottenuti da questa indagine e dalle analisi molecolari non rappresentano una stima formale del fenomeno, né a livello nazionale né locale, e che sarebbero necessarie ulteriori indagini per poter valutare il tasso di ibridazione della popolazione italiana di lupi.

I risultati ottenuti dal monitoraggio rappresentano una base di conoscenza per indirizzare le scelte gestionali e permettere di valutare il raggiungimento degli obiettivi di conservazione, assicurando il mantenimento, a livello nazionale, di uno status di conservazione favorevole della specie e al contempo mitigando i conflitti che il lupo causa. L’adozione di protocolli standardizzati a scala nazionale sotto il coordinamento dell’ISPRA ha permesso di superare la disomogeneità delle strategie di monitoraggio effettuate a scala locale negli anni passati, dovuta alla frammentazione amministrativa e all’assenza di un coordinamento tra enti e istituti locali, disomogeneità ritenuta una delle principali minacce per la conservazione della specie.

Risultati di sintesi del monitoraggio

Relazioni ufficiali:

 




Riscaldamento globale, virus e aerosol

Come possiamo pensare di vivere sani in un mondo malato?“: l’arguta domanda che Papa Francesco si pone e ci pone in piena pandemia da Covid-19 ci ricorda che la nostra vita è strettamente interconnessa con quella di tutti gli altri esseri viventi. Dalla stessa si evincerebbe, al contempo, un accorato invito affinché la Comunità Scientifica operi quanto più possibile in maniera multidisciplinare, in ossequio al principio della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Il 2021 è stato, perlappunto, il più caldo degli ultimi 140 anni, all’interno di un’allarmante sequenza in cui dal 2015 in avanti si sono succeduti i sette anni più torridi che si siano mai registrati sul nostro pianeta durante il succitato arco cronologico.

E’ quantomai opportuno sottolineare, in proposito, la naturale propensione degli agenti patogeni più resistenti a sfruttare il progressivamente ingravescente riscaldamento globale per aumentare la propria diffusione e, con essa, le occasioni di contagio intraspecifico ed interspecifico. E’ questo il caso del virus della peste suina africana (agente non zoonosico) e di quello del vaiolo delle scimmie (agente zoonosico), ben noti da tempo a noi Medici Veterinari e recentemente balzati agli onori della cronaca. Si tratta, in particolare, di due DNA-virus che, pur nelle notevoli differenze che caratterizzano gli stessi e le infezioni da essi sostenute, condividono tuttavia un’elevata resistenza ambientale, cosi’ come nei riguardi dell’inattivazione chimico-fisica.

In un siffatto contesto, la possibilità che i venti, le correnti ed altri fenomeni atmosferici possano veicolare per più o meno lunghe distanze aerosol alberganti al proprio interno le due anzidette, così come altre noxae biologiche dotate di elevata resistenza ambientale e nei confronti di molti agenti chimico-fisici, dovrebbe esser tenuta in debita considerazione.

Ciò potrebbe costituire, infatti, un valido ausilio ai fini del riconoscimento delle fonti d’infezione ove le stesse non risultassero prontamente e/o precisamente identificabili, come giustappunto accaduto in alcuni focolai di peste suina africana tra i cinghiali, così come in alcuni recenti casi umani d’infezione da “monkey poxvirus” (vaiolo delle scimmie).

Absit iniuria verbis, ma senza alcuna vis polemica mi sia consentito, in chiosa a questo breve articolo, di esprimere unitamente al mio pregresso disappunto nei confronti della mancata cooptazione dei miei Colleghi Veterinari in seno all’oramai (e purtroppo!) defunto CTS, tutto il mio stupore derivante dalla pressoché totale assenza dei Medici Veterinari – fatte salve alcune eccezioni di natura prettamente istituzionale – dalla scena e dalla narrazione mass-mediatica.

Quanto sopra a dispetto dell’inconfutabile fatto che le “materie del contendere” siano rappresentate da una problematica di esclusiva rilevanza in ambito di sanità animale (peste suina africana) e da un’infezione a carattere zoonosico, vale a dire trasmissibile dagli animali all’uomo (vaiolo delle scimmie)!

Errare humanum est perseverare autem diabolicum!

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo