Le api selvatiche minacciate in Europa, aggiornata la Lista Rossa

apePer la prima volta, le api selvatiche sono state ufficialmente classificate come ‘in pericolo’ all’interno dell’Europa: grazie a un grande lavoro di monitoraggio e raccolta dati che ha colmato una lacuna di lunga data, i ricercatori hanno esaminato lo stato di conservazione della specie Apis mellifera in sette paesi europei, stimando un calo medio delle popolazioni selvatiche del 56% in un decennio.

 Questo ha permesso di aggiornare la Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn) anche se, per quanto riguarda la regione europea, i dati rimangono molto carenti per aree come i Balcani, i Paesi Baltici, la Scandinavia e l’Europa orientale.

I ricercatori hanno monitorato, tra il 2013 e il 2025, 698 siti sparsi in Francia, Germania, Lussemburgo, Polonia, Spagna, Svizzera e Regno Unito. Secondo i dati raccolti, l‘Europa ha la più bassa densità del mondo di colonie che vivono libere in natura, dal momento che gli alveari gestiti negli allevamenti superano di gran lunga quelli selvatici, e queste già scarse colonie stanno anche vedendo diminuire i loro abitanti.

Fonte: ANSA



Risultati di quattro generazioni di selezione per il comportamento igienico sensibile alla Varroa nelle api mellifere

La sopravvivenza delle api mellifere, fondamentali per l’impollinazione e la sicurezza alimentare globale, è minacciata da Varroa destructor, un acaro parassita che ha rivoluzionato le sfide dell’apicoltura moderna. Un recente studio esplora l’impatto biologico e produttivo dell’infestazione, le strategie di contenimento attuali e le prospettive offerte dall’allevamento selettivo, con un focus sui comportamenti naturali di resistenza che potrebbero rappresentare la chiave per un’apicoltura più sostenibile. Di seguito l’approfondimento.

 Il settore dell’apicoltura è da tempo confrontato con una grave minaccia biologica: Varroa destructor, un acaro parassita che compromette gravemente la sopravvivenza delle colonie di Apis mellifera in tutto il mondo. Originariamente ectoparassita dell’ape asiatica (Apis cerana), con cui si è coevoluto. V. destructor è passato ad A. mellifera nel XX secolo, diventando rapidamente la principale causa di perdita di colonie nelle regioni temperate. L’acaro si riproduce all’interno delle celle di covata opercolate delle api mellifere e funge da vettore per diversi virus, in particolare il virus delle ali deformate (DWV), rendendolo una delle principali minacce alla salute e alla produttività delle colonie. Gli acari si nutrono del tessuto adiposo delle api in fase di sviluppo e adulte, compromettendo la funzione immunitaria, riducendo la durata della vita e indebolendo la resilienza della colonia. In assenza di un controllo efficace, le colonie infestate spesso collassano nel giro di pochi mesi.

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Fonte: assaspa.org




Osservatorio ASAPS – Incidenti con animali primi sei mesi 2025

ASAPS, da sempre attenta ai problemi di sicurezza stradale, fornisce alcuni dati del suo Osservatorio sugli incidenti con animali e consigli agli automobilisti ma anche agli enti proprietari strade. L’Osservatorio nei primi sei mesi 2025 ha registrato 100 incidenti significativi (l’Osservatorio considera esclusivamente quelli con persone ferite o decedute, quelli con danni ai soli mezzi sono migliaia), col coinvolgimento di animali, nei quali 7 persone sono morte e 118 sono rimaste seriamente ferite. Le segnalazioni pervengono dai 600 referenti sul territorio e cronache della stampa.
In 91 casi l’incidente è avvenuto con un animale selvatico (91%) e in 9 (9%) con un animale domestico.
Settantasei incidenti sono avvenuti di giorno e 24 di notte. Novantasei incidenti sono avvenuti sulla rete ordinaria e 4 nelle autostrade e extraurbane principali.
In 67 casi il veicolo impattante contro l’animale è stato una autovettura, in 37 casi un motociclo, in 1 incidente l’impatto è avvenuto contro autocarri o pullman e in 3 incidenti coinvolti dei velocipedi e pedoni. Il totale è superiore al numero degli eventi perché in alcuni sinistri sono rimasti coinvolti veicoli diversi.
Al primo posto negli incidenti gravi con investimenti di animali la Lombardia con 16 episodi, la Campania con 14, il Lazio con 11, la Toscana con 9, le Marche con 8, l’Emilia Romagna con 7, la Puglia con 6, la Sardegna con 5, il Piemonte, la Sicilia, l’Umbria e la Liguria con 4. E poi l’Abruzzo con 3, la Basilicata con 2 e, infine, il Molise, il Trentino Alto Adige e il Veneto con 1.

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Fonte: ASAPS.it




La sanità inquina: il 4,4% delle emissioni viene dal settore salute. Il nuovo report Ocse

Il settore sanitario, motore di salute pubblica, è anche un importante contributore alle emissioni di gas serra. Il nuovo rapporto OCSE “Decarbonising Health Systems Across OECD Countries” stima che in media il 4,4% delle emissioni complessive nei Paesi membri nel 2018 sia attribuibile a ospedali, ambulatori, farmaci, dispositivi e servizi sanitari. Una quota che supera settori tradizionalmente percepiti come inquinanti (vedi l’aviazione), ma che finora aveva ricevuto scarsa attenzione.

Ospedali e inappropriatezza delle cure
Secondo l’analisi, gli ospedali rappresentano circa il 30% delle emissioni totali del settore sanitario. Il peso deriva dall’alta intensità di risorse impiegate, soprattutto nelle terapie intensive. Spostare l’assistenza dall’ospedale al territorio e potenziare la primaria può contribuire a ridurre ricoveri evitabili, tempi di degenza e sprechi. In media, nei Paesi OCSE, politiche di appropriatezza potrebbero abbattere fino a un quarto delle emissioni ospedaliere, con benefici paralleli su qualità e costi dell’assistenza.

Prodotti sanitari sotto osservazione

Il rapporto segnala come alcuni prodotti clinici abbiano alternative a basso impatto già disponibili:

-Gas anestetici, con il desflurano che ha un’impronta climatica molto più alta di altri composti sostituibili senza sacrificare la qualità delle cure.

-Inalatori per asma e BPCO, dove i dispositivi spray a base di HFC potrebbero essere sostituiti da inalatori a polvere secca o a nebbia soffice, clinicamente equivalenti ma con un’impronta ambientale molto inferiore.

Nonostante queste opportunità, la gamma di prodotti sottoposti a screening ambientale resta limitata e le lacune nei dati rendono difficile per medici e amministratori prendere decisioni pienamente informate.

Il nodo delle catene di fornitura
La parte preponderante delle emissioni – circa il 79% – non nasce dentro gli ospedali, ma lungo le filiere globali di farmaci, dispositivi e servizi sanitari. Di queste, la metà proviene da Paesi esteri rispetto a quelli in cui le cure vengono erogate, rendendo più complesso il controllo diretto delle emissioni nazionali. La pandemia ha mostrato quanto le supply chain siano interconnesse e difficili da riorganizzare, ma anche quanto i loro costi ambientali siano insostenibili. Per questo l’OCSE sollecita politiche di “green procurement”, linee guida condivise e standard internazionali per spingere il mercato verso produzioni a minore impatto.

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Fonte: quotidianosanita.it




Nel mondo 1 persona su 4 non ha ancora accesso all’acqua potabile sicura. Il report Oms e Unicef

Nonostante i progressi compiuti nell’ultimo decennio, miliardi di persone in tutto il mondo non hanno ancora accesso ai servizi essenziali di acqua, servizi igienico-sanitari e igiene, il che li espone al rischio di malattie e di una maggiore esclusione sociale.

E così 1 persona su 4, ovvero 2,1 miliardi di persone in tutto il mondo, non ha ancora accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro, compresi 106 milioni che bevono direttamente da fonti di superficie non trattate. 3,4 miliardi di persone non dispongono ancora di servizi igienici gestiti in modo sicuro, tra cui 354 milioni che praticano la defecazione all’aperto. E 1,7 miliardi di persone non hanno ancora accesso ai servizi igienici di base in casa, di cui 611 milioni senza accesso ad alcuna struttura.

Questi i dati del nuovo rapporto Progress on Household Drinking Water and Sanitation 2000–2024: special focus on inequalities” (Progressi nell’acqua potabile e nei servizi igienico-sanitari per le famiglie 2000–2024: focus speciale sulle disuguaglianze), lanciato dall’Oms e dall’Unicef nei giorni scorsi in occasione della Settimana mondiale dell’acqua 2025.

Dal Rapporto emerge che le persone nei paesi meno sviluppati hanno più del doppio delle probabilità rispetto alle persone in altri paesi di non avere accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari di base, e più del triplo delle probabilità di non avere accesso all’igiene di base.

Nei contesti fragili, la copertura di acqua potabile gestita in modo sicuro è inferiore di 38 punti percentuali rispetto ad altri paesi, evidenziando forti disuguaglianze. Sebbene vi siano stati miglioramenti per le persone che vivono nelle aree rurali, si registra ancora un ritardo. La copertura di acqua potabile gestita in modo sicuro è aumentata dal 50% al 60% tra il 2015 e il 2024, e la copertura igienica di base dal 52% al 71%. Al contrario, la copertura di acqua potabile e servizi igienici nelle aree urbane è stagnante.

I dati provenienti da 70 paesi mostrano che, mentre la maggior parte delle donne e delle adolescenti dispone di materiale per il ciclo mestruale e di un luogo privato in cui cambiarsi, molte non hanno materiale sufficiente per cambiarsi tutte le volte che è necessario.

Le ragazze adolescenti di età compresa tra 15 e 19 anni hanno meno probabilità rispetto alle donne adulte di partecipare ad attività durante il ciclo mestruale, come la scuola, il lavoro e i passatempi sociali.

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Fonte: quotidianosanita.it




“Attenti a quei 4!”: occhi aperti in mare per scovare gli alieni invasivi

La mappatura della presenza del pesce scorpione (Pterois miles) nel Mediterraneo aggiornata a marzo 2025, ci riporta 1.840 segnalazioni, provenienti dai diversi paesi del bacino. La specie si sta diffondendo anche nei mari italiani e il Mar Ionio si conferma come una delle aree più vulnerabili.

Oggi pescatori, subacquei e chiunque abbia osservato o catturato nei mari italiani un pesce scorpione o un’altra delle tre specie tropicali potenzialmente pericolose – pesce palla maculato, pesce coniglio scuro e pesce coniglio striato, sono chiamati nuovamente a fornire il loro supporto alla campagna di allerta “Attenti a quei 4!”, vòlta a informare la cittadinanza sulla presenza di queste specie invasive nei nostri mari.

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Ancona (CNR-IRBIM), in collaborazione con il progetto AlienFish, rilanciano la campagna “Attenti a quei4!”, fornendo anche indicazioni utili per riconoscerle, prevenire spiacevoli incidenti e contribuire al monitoraggio della loro diffusione e invitando a documentare con foto o video la specie, ed inviare la propria osservazione tramite il link.

In alternativa sarà possibile utilizzare WhatsApp al numero di telefono +320 4365210 o i gruppi Facebook Oddfish – e Fauna Marina Mediterranea in collaborazione con il progetto Alienfish utilizzando l’hashtag: #Attenti4.

E’ di poche settimane fa la pubblicazione sulla rivista scientifica Mediterranean Marine Science di uno studio, sempre a cura di CNR-IRBIM e ISPRA, che ha fornito un aggiornamento approfondito sulla distribuzione del pesce scorpione nel Mar Mediterraneo.

La campagna segue le precedenti edizioni già svolte dal 2022, anche in considerazione delle crescenti segnalazioni e catture di specie aliene nelle acque italiane, soprattutto del pesce scorpione, ad opera di subacquei e pescatori. I dati raccolti sono stati visualizzati in nuove mappe di distribuzione e confrontati con le previsioni fornite dai modelli di distribuzione delle specie precedentemente realizzati. Tutte le nuove osservazioni sono state integrate nel dataset del portale ORMEF, costituendo così la raccolta più aggiornata di dati sulla presenza del Pterois miles (o pesce scorpione) nel Mar Mediterraneo.

Manuela Falautano, ricercatrice dell’ISPRA, coordinatrice per l’Ente delle campagne “Attenti a quei 4!”: “L’aumento delle catture e segnalazioni da parte di pescatori e subacquei, da un lato conferma l’importante ruolo da loro svolto a supporto dei ricercatori nell’attività di sorveglianza della diffusione delle specie aliene, dall’altro evidenzia la necessità di ampliare il coinvolgimento degli operatori del mare e di promuovere una chiara attività di comunicazione alla cittadinanza sulle specie potenzialmente pericolose per la salute umana, senza creare allarmismi”.

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Fonte: ISPRA




Effetti biologici delle radiazioni: Siamo prossimi ad una nuova catastrofe?

A fronte degli 80 anni oramai trascorsi dal lancio dei primi ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cui hanno fatto seguito i due gravi incidenti rispettivamente occorsi nel 1986 e nel 2011 alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, nonché a quella nipponica di Fukushima, incombe ancora sull’intera umanità lo spettro di una o più “fughe radioattive” derivanti dai reiterati bombardamenti russi sulla centrale ucraina di Zaporizhzhia, oltre a quelli effettuati in questi giorni dall’aviazione militare israeliana e statunitense sulle centrali e sugli impianti di arricchimento dell’uranio siti in Iran.

In un siffatto contesto, incredibilmente dimentico delle sonore lezioni che la storia degli ultimi 80 anni ci ha consegnato, appare oltremodo giustificata una sintetica rassegna sui danni biologici provocati dalle radiazioni, già peraltro supportati da una pressoché monumentale letteratura scientifica.

Premesso che le radiazioni possono essere classificate in vario modo, sulla base della loro natura (radiazioni corpuscolate ed elettromagnetiche), intensità e lunghezza d’onda (radiazioni eccitanti e ionizzanti) e premesso, altresì, che i succitati danni si realizzerebbero con modalità sovrapponibili sia nell’uomo che negli animali, sarebbe necessario operare, in primis, una debita distinzione fra danni acuti e danni cronici.

I primi risulterebbero ascrivibili e simili al “danno da calore”, con la comparsa di più o meno estese ustioni di grado e d’intensità variabili in relazione al tempo di esposizione e alla distanza dalla fonte di energia radiante (Altucci et al., 2019).

Ben piu’ articolato e complesso si fa il ragionamento, di contro, allorquando ci si addentri nella disamina degli effetti “a lungo termine” delle radiazioni, ove una prima fondamentale distinzione attiene agli effetti “diretti” arrecati alle principali macromolecole organiche quali i lipidi presenti sulle membrane cellulari (con conseguente formazione di lipoperossidi altamente instabili), unitamente alle proteine (ad attività enzimatica e non), agli zuccheri e, soprattutto, agli acidi nucleici (DNA e RNA), con successiva comparsa di gravi ed estesi fenomeni di denaturazione/degradazione/rottura nonché di mutazioni a carico degli stessi (formazione di dimeri pirimidinici nel caso di radiazioni eccitanti quali le ultraviolette). Analoghi effetti, definiti “indiretti”, si realizzerebbero in virtù del danno primariamente generato dall’interazione delle radiazioni con l’acqua intra- ed extracellulare e dalla sua conseguente dissociazione/rottura (Altucci et al., 2019).

Fra gli oltre 200 citotipi di cui si compone il nostro organismo e, più in generale, quello di tutti gli altri mammiferi terrestri ed acquatici, sarebbero altresì presenti livelli di suscettibilità oltremodo variabili nei confronti del danno “cronico” da radiazioni, cosicché le cellule “costituivamente” caratterizzate da un’intensa attività replicativa (gameti, cellule midollari progenitrici di globuli rossi, leucociti e piastrine, linfociti, cellule dello strato basale dell’epidermide, etc.) risulterebbero ben più sensibili nei confronti degli elementi “stabili” e, soprattutto, rispetto alle cellule “perenni” (quali i neuroni), con conseguente sviluppo di fenomeni di aplasia/ipoplasia (c.d. “castrazione da raggi”) e/o di processi neoplastici (Honjo e Ichinohe, 2025; Lopes et al., 2025).

Ovviamente, poiché ogni organismo si caratterizza come un sistema biologico “dinamico”, esistono tutta una serie di dispositivi atti a fronteggiare i danni prodotti dalle radiazioni – oltre che da molteplici ulteriori “noxae” fisiche, chimiche e biologiche – sulle cellule e sui tessuti che compongono ciascun individuo. Un ruolo di primo attore spetta senza alcun dubbio, in tale ambito, alla proteina p53 (il c.d. “guardiano della cellula”), un fondamentale fattore di trascrizione che nelle cellule di Homo sapiens sapiens e’ codificato da un gene situato sul cromosoma 17 (Altucci et al., 2019). In seguito a un danno a carico del patrimonio genetico, la p53 interviene nella riparazione dello stesso e, ove l’alterazione genomica fosse di entità particolarmente significativa, la p53 opera avviando il ben noto processo dell’ “apoptosi”, alias “morte cellulare programmata”. Purtroppo anche il gene codificante per la p53 non risulterebbe risparmiato dagli eventi mutazionali conseguenti al danno da radiazioni, cosicché ne deriverebbe una proteina mutata, che anziché impartire un ordine/comando di “morte programmata” alla cellula-ospite, indirizzerebbe la stessa verso un percorso di trasformazione neoplastica. Ciò costituisce, invero, la principale motivazione per la quale la p53 “mutata” si caratterizzerebbe a sua volta come una “firma molecolare” precoce in grado di delineare l’avvio di un percorso di “instabilità genetica progressiva” culminante nella trasformazione tumorale (Altucci et al., 2019).

A conclusione di questa sintetica rassegna sui principali effetti biologici esplicati dalle radiazioni, a supporto dei quali è disponibile una produzione bibliografica oltremodo significativa sia per qualità che per quantità, ivi compresi una serie di studi svolti su modelli animali particolarmente innovativi (Honjo e Ichinohe, 2025), ritengo doveroso sottolineare, anche e soprattutto a fronte dell’assenza di confini geografici che gli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima hanno chiaramente evidenziato, la necessità di un approccio “One Health” nella gestione e, nondimeno, nella prevenzione di siffatte catastrofi, tanto piu’ alla luce delle incombenti minacce rappresentate dai teatri bellici ucraino e iraniano.

Historia magistra vitae!

 

Bibliografia

Altucci L, Berton G, Stivala LA, Moncharmont B. (2019). Patologia Generale, Volume 1, Idelson-Gnocchi Editore.

Honjo Y, Ichinohe T. (2025). Neural crest cells are sensitive to radiation-induced DNA damage. Tissue Cell 94:102774.

DOI: 10.1016/j.tice.2025.102774.

Lopes R, Teles P, Santos J. (2025). A systematic review on the occupational health impacts of ionising radiation exposure among healthcare professionals. J. Radiol. Prot. 45(2).

DOI: 10.1088/1361-6498/added2.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Se il commercio globale si fermasse, il vostro paese riuscirebbe ad alimentarvi?

Le politiche fragili, i conflitti in corso, i dazi doganali e l’emergenza climatica mettono a rischio le reti commerciali e rendono i paesi vulnerabili agli shock di mercato; di conseguenza, questi ultimi stanno dando priorità all’autosufficienza e alla sicurezza alimentare. Ma cosa succederebbe se il commercio si interrompesse bruscamente per una di queste ragioni? Il vostro paese è completamente autosufficiente e in grado di provvedere in maniera completa al fabbisogno alimentare della sua popolazione? Per rispondere a questa domanda, una squadra di ricercatori dell’Università di Göttingen in Germania e dell’Università di Edimburgo nel Regno Unito ha analizzato i dati sulla produzione alimentare relativi a 186 diverse nazioni, pubblicando successivamente i propri risultati sulla rivista «Nature Food».

Al di sopra degli altri

La Guyana, un piccolo paese del Sud America con una popolazione di circa 800 000 abitanti, è risultata l’unica nazione autosufficiente in tutti e sette i gruppi alimentari essenziali, ovvero cereali, legumi (ad esempio fagioli, piselli, lenticchie e ceci), frutta, verdura, latte, carne e pesce, essendo in grado di produrre da sola tutte le principali categorie di alimenti. Seguono Cina e Vietnam, che producono cibo a sufficienza in sei dei sette gruppi su cui si è concentrato il team di ricerca. Tre paesi su cinque non hanno prodotto abbastanza cibo all’interno dei propri confini in almeno quattro gruppi su sette, mentre circa un paese su sette, soprattutto in Europa e in Sud America, era autosufficiente in cinque o più gruppi. Il dato preoccupante è che un terzo delle nazioni analizzate è in grado di produrre solo due o meno gruppi di alimenti: 25 sono in Africa, 10 nei Caraibi e 7 in Europa. Sei Paesi, soprattutto in Medio Oriente, non producevano a sufficienza in un solo gruppo di alimenti per il proprio fabbisogno.

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Fonte: Commissione Europea




Gli impatti del cambiamento climatico portano a una maggiore esposizione alle micotossine

Cambiamenti climaticiSecondo un documento pubblicato in questi giorni dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), l’innalzamento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici sta aumentando il rischio di esposizione umana alle micotossine, tossine naturali prodotte da funghi presenti in alcuni alimenti, mangimi e colture.

Il clima più caldo e umido riscontrato in tutte le regioni europee sta infatti favorendo una maggiore prevalenza di queste micotossine di origine fungina che possono danneggiare la salute.

Il rapporto dell’EEA “Esposizione alle micotossine in un clima europeo in evoluzione esamina le problematiche sanitarie associate alle micotossine, in particolare il loro impatto sulle colture alimentari e come un approccio europeo più coordinato possa contribuire a contrastarne la diffusione e a prevenirne la contaminazione.

Rischi per la salute 

Le micotossine, composti nocivi prodotti naturalmente dai funghi, rappresentano rischi significativi per la salute. Le tossine fungine possono alterare gli ormoni, indebolire il sistema immunitario, danneggiare fegato e reni, aumentare il rischio di aborto spontaneo, danneggiare il feto e agire come cancerogeni.

Le prove suggeriscono che alcuni gruppi potrebbero essere maggiormente a rischio di esposizione alle micotossine. I bambini piccoli (1-3 anni) e i neonati (sotto i 12 mesi) sono particolarmente vulnerabili a causa del loro maggiore apporto alimentare rispetto al peso corporeo, così come le donne in gravidanza e i lavoratori del settore agricolo, alimentare e mangimistico.

Secondo il  progetto europeo di biomonitoraggio chimico umano HBM4EUil 14% della popolazione adulta europea è esposta alla micotossina deossinivalenolo (DON) a livelli considerati dannosi per la salute umana. Questa particolare micotossina, il DON, si trova spesso naturalmente nel grano, nel mais e nell’orzo nelle regioni temperate.

Le persone sono esposte a queste tossine mangiando alimenti contaminati (in particolare cereali e prodotti che li contengono, come pane o pasta). Lavare e cuocere questi alimenti non rimuove necessariamente le micotossine. Questo è particolarmente problematico perché alcuni dei funghi che producono micotossine non sono visibili né rilevabili tramite odore o sapore. Altre vie di esposizione sono l’acqua potabile contaminata da scarichi agricoli, e l’inalazione e l’assorbimento cutaneo per le persone che lavorano con le colture o gli alimenti contaminati.

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Fonte: Ruminantia.it




Predazione del bestiame da parte dei lupi nell’Italia nord-orientale: una network analysis sui fattori ambientali

La valutazione dell’entità dei conflitti che coinvolgono i grandi carnivori (di seguito “carnivori”) e gli allevamenti rappresenta una delle principali sfide che gli agricoltori, gli ecologi e i responsabili delle politiche ambientali devono affrontare oggi. I conflitti tra uomo e carnivori riguardano principalmente le predazioni di bestiame e possono essere attribuiti a vari fattori, tra cui la competizione interspecifica tra carnivori che condividono gli stessi habitat, il loro comportamento alimentare e gli ampi home-ranges, gli interventi di gestione e la perdita e/o la frammentazione degli habitat.

Sebbene i carnivori non abitino in modo permanente le aree densamente popolate dall’uomo, hanno dimostrato la capacità di ricolonizzare territori con densità umane moderate e di persistere in paesaggi frammentati (ad esempio, foreste mescolate all’agricoltura) o in prossimità di strutture umane.

Di conseguenza, in queste aree è più probabile che si verifichino conflitti con l’uomo. I grandi predatori svolgono un ruolo fondamentale nell’ecosistema, ad esempio regolando l’abbondanza di altre specie attraverso effetti ecologici top-down nella catena alimentare. Tuttavia, gli attacchi al bestiame rappresentano una minaccia significativa per la sicurezza economica degli allevatori che si basano principalmente sulle pratiche di pascolo, il che contribuisce a creare una radicata ostilità nei confronti dei carnivori.

Il lupo grigio Canis lupus (di seguito, lupo) è il grande predatore più abbondante in Italia. La specie è stata estirpata dalle Alpi nei primi due decenni del XX secolo e, per decenni, è rimasta confinata nell’area meridionale del fiume Po, con una piccola popolazione sopravvissuta nell’Appennino centrale.
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Fonte:  ASSAP.org