Piano nazionale di monitoraggio e sorveglianza per Lactococcus garvieae in ambiente marino

Lactococcus garvieae (precedentemente noto come Enterococcus seriolicida) è un importante agente patogeno responsabile di una grave malattia dei pesci, diffusa a livello globale e caratterizzata da rilevanti conseguenze economiche. Colpisce diverse specie ittiche, sia di acqua dolce che salata, e di recente è stato identificato anche come causa di infezioni in orata (Sparus aurata) e branzino (Dicentrarchus labrax). Nel 2024, infatti, ha provocato una delle più gravi epidemie nella storia dell’acquacoltura mediterranea.

Particolarmente colpita è stata l’area del Mar Tirreno (Toscana), dove è concentrata una significativa presenza di allevamenti ittici, circa il 50 % della produzione nazionale di spigola e orata: alla fine del 2024 si sono registrate perdite superiori alle 2.000 tonnellate, con un danno economico stimato in oltre 12 milioni di euro.

Alla luce della gravità del fenomeno, il Ministero della Salute ha attivato un sistema di coordinamento e monitoraggio attraverso l’adozione del Piano nazionale di monitoraggio e sorveglianza per Lactococcus garvieae in ambiente marino, redatto in collaborazione con il Centro di referenza nazionale (CRN) per le malattie dei pesci, molluschi e crostacei dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe). Il piano è stato elaborato con il supporto scientifico e tecnico dell’Associazione Piscicoltori Italiani (API) e dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri”, che ha avviato le attività di monitoraggio a livello regionale nell’aprile 2025.

 

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Fonte: IZS Venezie




Economia circolare: dalla terra al mare più spazio alle PAT

Al convegno organizzato a Roma, Assograssi ha chiesto di rimuovere le restrizioni all’utilizzo in acquacoltura delle Proteine Animali Trasformate da ruminante, e, in generale, di rivedere i vincoli al loro impiego nella nutrizione animale, legati alla crisi della “mucca pazza” di oltre vent’anni fa.

Costi di produzione decisamente inferiori, prodotti migliori dal punto di vista nutrizionale, sostenibilità per l’intera filiera e minore dipendenza dall’import: ampliare l’impiego delle Proteine Animali Trasformate (PAT), in particolare da ruminante, avrebbe un impatto molto positivo sull’acquacoltura italiana. Inoltre, allargarne l’utilizzo a tutti i segmenti della nutrizione animale, superando finalmente i divieti legati alla crisi della BSE (la cosiddetta “mucca pazza”) di oltre vent’anni fa, significherebbe rendere più efficienti i processi produttivi e accrescere la competitività di tutta la filiera italiana delle carni. Lo ha ribadito Assograssi, in occasione del convegno “Dalla terra al mare: le proteine animali come risorsa per un’acquacoltura efficiente e sostenibile”, svoltosi oggi a Roma alla presenza dei rappresentanti del mondo associativo e istituzionale.

Assograssi, è socio aggregato di ASSITOL, l’Associazione italiana dell’industria olearia aderente a Confindustria, e rappresenta circa l’80% del rendering in Italia, settore che dà una seconda vita ai residui della lavorazione delle carni, all’insegna del “no waste”, valorizzandoli per poi mettere sul mercato detergenti, fertilizzanti, petfood, mangimi per animali da allevamento.

I dati del 2024 descrivono un comparto solido: le imprese del rendering hanno trasformato 1.427.000 tonnellate di sottoprodotti di orIgine animale, per un fatturato di oltre 700 milioni di euro. Tuttavia, il settore potrebbe guadagnare in sostenibilità e redditività, se l’Unione Europea alleggerisse i divieti, ancora in vigore, sull’impiego delle PAT nell’alimentazione degli animali da allevamento.

“Grazie all’esperienza e al know-how delle nostre aziende – ha sottolineato Paolo Valugani, presidente di Assograssi -, le Proteine Animali Trasformate sono di alta qualità, frutto al 100% di un sistema consolidato di economia circolare, che mette sul mercato materie prime per mangimi sottoposte a controlli severi. Eppure, proprio in Europa, dove le proteine animali trasformate sono molto più sicure dal punto di vista sanitario che altrove, le restrizioni sul loro impiego, imposte ai tempi della BSE, sono persino più dure di quelle imposte dalla WOAH, l’Organizzazione mondiale per la sanità animale”. Un vero paradosso se si pensa che, oggi, il rischio “mucca pazza” sul territorio UE è considerato trascurabile, grazie al sistema di biosicurezza costruito dal settore del rendering.

“La pandemia prima, le tensioni internazionali poi, hanno fatto emergere il problema della feed security, la sicurezza negli approvvigionamenti”. Per questa ragione, Assograssi, già da alcuni anni, chiede di riscrivere le regole, rimuovendo il “feed ban”, il complesso di restrizioni che consentono l’impiego delle proteine animali trasformate soltanto in alcuni segmenti della nutrizione animale.

In questo contesto, l’acquacoltura è un settore con ottime potenzialità di crescita – oltre 400 milioni di fatturato nel 2023 per 800 siti produttivi in tutta Italia -, in cui l’apertura alle proteine animali è già in atto. Negli allevamenti ittici, infatti, le PAT da non ruminante (pollo e suino), si utilizzano già. Tuttavia, i quantitativi prodotti non sono sufficienti per l’attuale fabbisogno mangimistico, quindi si impiegano anche proteine vegetali e farine di pesce, che l’Europa e la stessa Italia sono costrette ad importare. “Il ricorso più ampio alle PAT ci aiuterebbe a diminuire l’import, aumentando la sostenibilità economica del comparto – ha osservato Valugani -. In Europa, siamo sempre di più a chiederlo”. Un esempio in tal senso arriva dalla Norvegia, paese che vede nell’acquacoltura una delle principali voci di bilancio: l’agenzia nazionale per la sicurezza alimentare ha scritto di recente alla Commissione Europea, ricordando i dati scientifici che attestano la marginalità dei rischi da BSE e chiedendo all’EFSA, l’agenzia europea per la food security, una nuova valutazione sulla situazione attuale.

Il consumo di pesce, raccomandato dai nutrizionisti per la sua leggerezza ed il minore apporto calorico, è aumentato sensibilmente negli ultimi anni. In Italia si è attestato sui 30 kg pro-capite: per rispondere ad una domanda così importante, si ricorre all’import – il 75% del pesce che compare sulle nostre tavole proviene dall’estero – e all’acquacoltura. Proprio questo segmento, come ha evidenziato Andrea Fabris, direttore generale dell’Associazione Piscicoltori Italiani (API), in futuro svolgerà un ruolo centrale nel garantire un’alimentazione sana e sostenibile. “L’acquacoltura, ed in particolare l’allevamento ittico, svolgono un ruolo importante nel fornire un alimento con elevato valore nutritivo, come affermato anche dalla FAO. La disponibilità di materie prime, derivanti da processi di economia circolare, può far crescere ancor più la sostenibilità della nostra attività. Il costante controllo e tracciabilità delle PAT assicurano la sicurezza alimentare, contribuendo a migliorare le formulazioni dei mangimi che potranno sempre meglio soddisfare le esigenza fisiologiche e di benessere dei pesci allevati. Ulteriore obiettivo che può essere raggiunto è quello di una sempre crescente accettabilità sociale dell’acquacoltura,  in grado di incontrare le richieste  e i gusti dei consumatori”. I pesci, animali carnivori, con una dieta a base di proteine animali, risulterebbero meglio nutriti.

“L’accesso a un più ampio ventaglio di materie prime proteiche – ha dichiarato Lea Pallaroni, direttore generale di Assalzoo – rappresenta oggi una priorità strategica per il settore mangimistico. In quest’ottica, e alla luce delle normative europee che ne disciplinano la produzione, le PAT costituiscono non solo una risorsa sicura e preziosa, ma un ingrediente essenziale, soprattutto considerando che l’acquacoltura italiana è orientata prevalentemente verso specie carnivore”. Ferma restando la necessità, come finora garantito dal legislatore, che ogni apertura normativa sia fondata su evidenze scientifiche a tutela della sicurezza degli animali e dei consumatori, l’estensione dell’uso delle PAT da ruminante comporterebbe un duplice vantaggio: una maggiore disponibilità di prodotto e una semplificazione nell’impiego anche delle Proteine animali trasformate da suino, andando ad alleggerire il fabbisogno di materie prime proteiche importate quali farine di pesce e di soia. L’esperienza della riapertura all’uso delle PAT da suino e avicolo, per la quale sono trascorsi dieci anni tra la modifica normativa e il loro effettivo impiego, dimostra l’importanza di un coinvolgimento della GDO anticipato per condividere un percorso comune.

A fronte dei vincoli europei, la concorrenza dei Paesi extra-Ue penalizza fortemente la filiera italiana del rendering. “Non potendo contare su consumi adeguati, esportiamo le PAT da ruminante in tutto il mondo – ha osservato Dario Dinosio, vicepresidente vicario di Assograssi –. I nostri piscicoltori, invece, devono subire la concorrenza estera, per giunta spendendo di più a causa dell’import”. Eppure, sostituire le farine di pesce e le proteine vegetali, attualmente preponderanti nella mangimistica per acquacoltura, avrebbe forti benefici sui bilanci della filiera. “Grazie alle Proteine Animali Trasformate da ruminante, l’acquacoltura potrebbe contare su una maggiore disponibilità di materie prime: ciò avvantaggerebbe non soltanto le aziende del rendering ed i produttori di mangimi, ma diminuirebbe anche i costi finali per i piscicoltori, rendendo più sostenibile e proficua la loro attività dal punto di vista economico”.

L’impiego esteso delle proteine da ruminante rafforzerebbe, inoltre, la circolarità del settore del rendering e dell’acquafeed. “I vantaggi sono tanti ed evidenti – ha spiegato Luca Papa, vicepresidente di Assograssi – una maggiore autonomia dall’import, una minore impronta di carbonio, quindi una maggiore sostenibilità ambientale e, in generale, costi di produzione molto più ridotti per l’intera filiera delle PAT, se si potesse contare su quantitativi maggiori di materie prime per mangimi prodotte in Italia e non importate”. Al consumatore, ha ricordato Papa, “è però necessario raccontare la sostenibilità di questi prodotti con un’etichettatura adeguata, che descriva l’impegno sulla sostenibilità delle aziende e la circolarità dei nostri processi produttivi”.

Ufficio stampa: Silvia Cerioli, cell. 3387991367

 




Affrontare le sfide sanitarie dell’acquacoltura grazie alle alghe marine

Un recente studio condotto da un team di ricercatori norvegesi e spagnoli esplora il potenziale ruolo svolto dalle alghe marine nel ridurre l’infiammazione intestinale dei pesci d’allevamento. Sostenuta dai progetti BlueRemediomics e ALEHOOP, finanziati dall’UE, la ricerca dispone del potenziale di contribuire ad affrontare le sfide poste dinanzi all’industria dell’acquacoltura al fine di mantenere la salute dei pesci. L’indagine ruota intorno a una famiglia di enzimi, chiamati metalloproteinasi di matrice (MMP) e normalmente presenti nei vertebrati, che rivestono ruoli di vitale importanza in molti processi diversi, come il rimodellamento tissutale, un processo che governa il ripristino di tessuti e organi. È stato tuttavia scoperto che questi enzimi sono implicati anche in diversi disturbi infiammatori, compresi quelli che colpiscono l’intestino. Il team di ricerca si è prefisso di scoprire se l’inclusione nella dieta di determinate specie di alghe marine dotate di proprietà di inibizione delle MMP fosse in grado di ridurre l’infiammazione intestinale che si osserva di norma quando ingredienti di origine vegetale vengono integrati nei mangimi per pesci.

Il valore degli estratti di alghe marine

Per lo studio sono state scelte tre specie di pesci carnivori, ovvero il salmone atlantico, la spigola e l’orata. I ricercatori hanno aggiunto alla dieta estratti di alghe marine brune e rosse fresche e lavorate, rilevando che questi composti bioattivi inibivano significativamente le MMP intestinali nelle tre specie bersaglio. L’équipe ha inoltre eseguito test in vitro simulando le condizioni digestive del salmone atlantico e dell’orata per scoprire che i mangimi sperimentali contenenti farina di alghe mantenevano questi effetti inibitori sulle MMP intestinali. «Le nostre simulazioni in vitro del processo digestivo nel salmone atlantico e nell’orata mediterranea dimostrano la loro elevata efficacia», riferisce Neda Gilannejad, co-autrice dello studio e ricercatrice senior presso NORCE Norwegian Research Centre AS, istituto partner del progetto BlueRemediomics, in un articolo intitolato «Tide of change: Can seaweed help with fish inflammation?» (L’onda del cambiamento: le alghe marine possono aiutare a ridurre l’infiammazione nei pesci?) di Jane Byrne, pubblicato sulla rivista «Feed Navigator». La ricerca mette in evidenza i notevoli vantaggi che l’acquacoltura può ottenere sfruttando il potenziale di risorse come le alghe. «I risultati dimostrano l’importanza rivestita dalla bioprospezione delle risorse marine per affrontare le pressanti sfide sanitarie poste dinanzi all’acquacoltura» osserva Gilannejad nello stesso articolo. Il progetto ALEHOOP (Biorefineries for the valorisation of macroalgal residual biomass and legume processing by-products to obtain new protein value chains for high-value food and feed applications), che ha sostenuto questa ricerca, si è concluso nel febbraio del 2025. In un periodo di quasi 5 anni, ha dimostrato la fattibilità della gestione della biomassa e dell’estrazione di proteine dai sottoprodotti dei legumi e ha convalidato l’utilizzo delle macroalghe verdi e di altre proteine di origine vegetale nei mangimi per animali e nei prodotti alimentari destinati agli esseri umani.

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Fonte: Commissione Europea




Stop Lattococcosi? Insieme si può…anzi, insieme si deve!

pesciStop Lattococcosi? Insieme si può…anzi, insieme si deve! – Si è conclusa la serie di workshop del progetto “Stop Lattococcosi? Insieme si può!”, che ha visto il contributo di 21 relatori e la partecipazione di oltre 90 operatori del settore. Questo percorso, promosso dal Centro di referenza nazionale per lo studio e la diagnosi delle malattie dei pesci, molluschi e crostacei, dall’Associazione Piscicoltori Italiani e da Skretting, ha rappresentato un’importante occasione di dialogo e collaborazione tra allevatori, veterinari, autorità sanitarie e amministrazioni pubbliche, ricercatori, mangimisti, aziende farmaceutiche e altri attori della filiera, tutti uniti dall’obiettivo comune di contrastare la diffusione della Lattococcosi in acquacoltura.

Dai workshop è emersa con chiarezza la necessità di un approccio integrato per affrontare la Lattococcosi, che ha recentemente colpito specie ittiche di grande rilievo come spigola e orata. Nessun singolo intervento è sufficiente da solo: solo attraverso strategie sinergiche, che combinano vaccinazione, terapia, biosicurezza, nutrizione e selezione genetica, è possibile gestire efficacemente la patologia.

Un aspetto fondamentale degli incontri è stata la formazione di gruppi di lavoro, che hanno favorito un confronto attivo e costruttivo tra i partecipanti. Questo percorso collaborativo ha portato alla realizzazione di un Manuale di Buone Pratiche, che raccoglie le conoscenze acquisite proponendo linee guida operative e supportando le iniziative già in atto per la prevenzione e il contenimento della Lattococcosi.

Per permettere un accesso diretto alle informazioni emerse dal progetto, il Manuale di Buone Pratiche è stato reso disponibile in formato digitale, insieme alle registrazioni dei workshop. Questi materiali consentono di approfondire i temi trattati e di ascoltare direttamente gli interventi dei relatori. Per consultarli, visita il seguente link: Lattococcosi nelle specie marine – Skretting

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Fonte: pesceinrete.it




Sanità e acquacoltura: sfide e opportunità

Ministero della Salute e dal Centro di Referenza Nazionale per lo studio e la diagnosi delle malattie dei pesci, molluschi e crostacei presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie organizzano il workshop “Sanità e acquacoltura: sfide e opportunità” per il giorno 10 marzo a Roma presso l’auditorium Cosimo Piccinno del Ministero della Salute, Lungotevere Ripa

Obiettivo dell’evento è quello di approfondire i principali aspetti riguardanti l’applicazione in Italia della nuova norma comunitaria sulla sanità animale nel settore dell’acquacoltura (piscicoltura e
molluschicoltura).

Verrà posta l’attenzione sugli aspetti che impattano nella corretta registrazione, nel riconoscimento degli stabilimenti e nella sorveglianza sulle malattie per cui è necessaria (e relative deroghe). Particolare rilievo verrà dato ai principi della biosicurezza, infatti, anche gli stabilimenti di acquacoltura, per essere riconosciuti.




Manuale sul benessere per le specie ittiche allevate. Guida per l’operatore

 È disponibile il Manuale sul benessere per le specie ittiche allevate – Guida per l’operatore, risultato di un progetto di collaborazione fra Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e Associazione Piscicoltori Italiani (API), finanziato dal Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF).

Il manuale, presentato nei giorni scorsi ad AQUAFARM 2025, è concepito come guida pratica per gli operatori del settore, e affronta i seguenti temi:

  • caratteristiche delle principali specie ittiche allevate e relative tecnologie di allevamento;
  • valutazione del benessere animale in allevamento, attraverso l’utilizzo degli Operational Welfare Indicators (OWIs). In allegato saranno incluse check-list utili per l’analisi del benessere animale in allevamento;
  • tutela del benessere dei pesci allevati;
  • benessere animale durante il trasporto;
  • tecniche corrette di stordimento e abbattimento;
  • panoramica normativa sul benessere dei pesci in allevamento.

Alla redazione del manuale hanno contribuito Ministero della Salute (UVAC-PCF), Università di  Bologna, Università di Camerino, Università di Milano, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Federazione Europea dei Produttori di Acquacoltura.

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Fonte: IZS Venezie




Un intestino di pesce artificiale per sperimentare mangime più sostenibile per i pesci di allevamento

Banco di pesceAll’Università statale di Milano si lavora da più di cinque anni a un nuovo sistema utile a supportare la produzione di mangime più sostenibile per i pesci di allevamento. È un metodo che consente di ridurre sia il tempo e le energie necessari a sperimentare gli effetti dell’introduzione di nuovi mangimi in acquacultura sia la quantità di animali necessari alle sperimentazioni.
Ne abbiamo parlato con Fulvio Gandolfi, docente di Anatomia e Fisiologia Veterinaria all’Università degli Studi di Milano, coordinatore del progetto Fish-AI, guidato dalla stessa Università di Milano, che si è appena concluso, alla fine del 2024, dopo cinque anni, ma si apre ora a nuovi sviluppi e applicazioni concrete. È stato realizzato grazie a un finanziamento europeo European Innovation Council (EIC), un tipo di finanziamento finalizzato al trasferimento tecnologico, ovvero a sostenere progetti di ricerca scientifica caratterizzati dalla possibilità di avere applicazioni pratiche.

«La nostra idea – spiega Gandolfi, del Dipartimento DISAA dell’Università di Milano, – è stata quella di mettere a frutto la nostra lunga esperienza nel campo delle cellule staminali, dei meccanismi di differenziamento e della creazione di modelli in vitro, per realizzare un intestino artificiale di pesce, più precisamente di trota, che possa essere utilizzato per testare nuovi tipi di mangime destinati all’acquacoltura. Semplificando, l’interno dell’intestino in natura è rivestito di una mucosa, composta da cellule che assorbono i nutrienti e li trasmettono al sangue: abbiamo voluto replicare questa struttura in laboratorio, attraverso cellule intestinali di trota coltivate in vitro. In questo modo si possono testare più agevolmente alimenti innovativi da destinare all’acquacultura, rendendo più veloce la procedura e riducendo la necessità di test in vivo sugli animali».

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Fonte: scienzainrete.it




Granchio blu, rilevata la presenza del parassita Hematodinium

Il granchio blu Atlantico (Callinectes sapidus), specie aliena che negli ultimi due anni ha messo in ginocchio la produzione di vongole in Veneto, ospita un parassita del genere Hematodinium che causa la Bitter Crab Disease (BCD), nota anche come “malattia del granchio amaro”. La carne di crostacei gravemente parassitati, una volta cucinata, può assumere un retrogusto amaro, che può comprometterne l’appetibilità per il consumatore.

A rilevare la presenza del parassita sono stati i ricercatori del Centro specialistico ittico (CSI) dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (MASAF) finalizzato a valutare lo stato di salute del granchio blu, con un focus particolare sulla presenza di patogeni che potrebbero influenzare la dinamica di popolazione di questa specie nelle principali lagune costiere del Nord Adriatico.

Il granchio blu Atlantico (Callinectes sapidus) ospita un parassita del genere Hematodinium che causa la Bitter Crab Disease (BCD), nota anche come “malattia del granchio amaro”. La carne di crostacei gravemente parassitati, una volta cucinata, può assumere un retrogusto amaro, che può comprometterne l’appetibilità per il consumatore. A rilevare la presenza del parassita sono stati i ricercatori del Centro specialistico ittico (CSI) dell’IZSVe, nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (MASAF).

segni di questa patologia comprendono letargia, torbidità dell’emolinfa e minor vitalità del granchio durante la fase di commercializzazione. L’infezione da Hematodinium sp. induce una serie di cambiamenti fisiologici nei tessuti dei crostacei e nell’emolinfa circolante, tra cui una riduzione significativa del numero di cellule coinvolte nella risposta immunitaria. In particolare, la rapida proliferazione del parassita porta a un elevato consumo di nutrienti, con conseguente riduzione dei livelli di glucosio nell’emolinfa e di glicogeno nell’epatopancreas, modificandone le caratteristiche organolettiche.

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Fonte: IZS Venezie




Microplastiche e salute: l’indagine è aperta

microplasticheVent’anni fa un articolo apparso su Science indicava con il termine “microplastiche” alcuni detriti di materiale plastico di dimensioni molto piccole ritrovate nell’ambiente. A partire da quella data, la ricerca delle microplastiche in vari ambienti (compreso il corpo umano) e del loro effetto sugli esseri viventi si è espansa in differenti ambiti scientifici.

La plastica è un materiale molto diffuso grazie alle sue proprietà di leggerezza, all’eccellente durata, alle caratteristiche meccaniche e al prezzo accessibile. Tuttavia, queste stesse caratteristiche possono rappresentare un possibile rischio per l’uomo e l’ambiente.

Di recente, sia Nature sia Science hanno dato largo spazio ai problemi legati alla plastica e ai suoi rifiuti, considerando i risultati della ricerca, le sfide ancora da superare e le decisioni politiche scaturite dagli studi.

La plastica intorno a noi

I dati raccolti da Lampitt nel 2023 parlano chiaro: la nostra produzione di rifiuti plastici oggi si attesta intorno alle 400 milioni di tonnellate l’anno. Finora, si stima siano state prodotte sette miliardi di tonnellate di plastiche a livello globale.

L’80 per cento di questi rifiuti sono dispersi nell’ambiente, mentre solo il 10% è riciclato (dati Oecd). Gli occhi di ricercatori, politici e ambientalisti sono puntati sui rifiuti plastici perché fonte di un secondo prodotto che può creare danni all’ambiente e agli organismi viventi: le microplastiche, se diametro inferiore ai cinque millimetri, mentre quelle inferiori a un micron sono dette nanoplastiche.

Le sorgenti dirette che danno origine a microplastiche sono molteplici: pneumatici, tessuti, cosmetici, vernici etc. Però le microplastiche si formano anche in modo indiretto dalla frammentazione di oggetti di grandi dimensioni, come i rifiuti plastici, sottoposti a radiazioni UV e alla degradazione meccanica e biologica.

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Fonte: abouthpharma.com




Plancton a rischio. È allarme per oceani e pesca

zoo planctonUn nuovo studio condotto dall’Università di Bristol, pubblicato su Nature, lancia un segnale d’allarme: se il riscaldamento globale di origine antropica non verrà contenuto, molte forme di vita marina rischiano l’estinzione entro la fine del secolo. La ricerca si concentra sul plancton, minuscoli organismi oceanici fondamentali per l’ecosistema marino, analizzando come hanno risposto a significativi aumenti di temperatura in passato e confrontandoli con le proiezioni future.

Il ruolo cruciale del plancton negli oceani

Il plancton rappresenta il fulcro della catena alimentare marina e svolge un ruolo essenziale nel ciclo del carbonio. Tuttavia, i risultati della ricerca mostrano che questi organismi non riescono a tenere il passo con la velocità dei cambiamenti climatici attuali. Questo mette a rischio non solo la loro sopravvivenza, ma anche quella di molte specie marine che dipendono da essi per il cibo, inclusi numerosi pesci di interesse commerciale.

Lo studio rivela che anche con scenari più ottimistici, come un aumento di temperatura di 2°C, il plankton non sarebbe in grado di adattarsi rapidamente. Il tasso di riscaldamento attuale supera di gran lunga quello osservato durante eventi climatici estremi del passato, come l’ultima Era Glaciale, rendendo impossibile una migrazione o un adattamento sufficiente.

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Fonte: pesceinrete.com