Gli impatti del cambiamento climatico portano a una maggiore esposizione alle micotossine

Cambiamenti climaticiSecondo un documento pubblicato in questi giorni dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), l’innalzamento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici sta aumentando il rischio di esposizione umana alle micotossine, tossine naturali prodotte da funghi presenti in alcuni alimenti, mangimi e colture.

Il clima più caldo e umido riscontrato in tutte le regioni europee sta infatti favorendo una maggiore prevalenza di queste micotossine di origine fungina che possono danneggiare la salute.

Il rapporto dell’EEA “Esposizione alle micotossine in un clima europeo in evoluzione esamina le problematiche sanitarie associate alle micotossine, in particolare il loro impatto sulle colture alimentari e come un approccio europeo più coordinato possa contribuire a contrastarne la diffusione e a prevenirne la contaminazione.

Rischi per la salute 

Le micotossine, composti nocivi prodotti naturalmente dai funghi, rappresentano rischi significativi per la salute. Le tossine fungine possono alterare gli ormoni, indebolire il sistema immunitario, danneggiare fegato e reni, aumentare il rischio di aborto spontaneo, danneggiare il feto e agire come cancerogeni.

Le prove suggeriscono che alcuni gruppi potrebbero essere maggiormente a rischio di esposizione alle micotossine. I bambini piccoli (1-3 anni) e i neonati (sotto i 12 mesi) sono particolarmente vulnerabili a causa del loro maggiore apporto alimentare rispetto al peso corporeo, così come le donne in gravidanza e i lavoratori del settore agricolo, alimentare e mangimistico.

Secondo il  progetto europeo di biomonitoraggio chimico umano HBM4EUil 14% della popolazione adulta europea è esposta alla micotossina deossinivalenolo (DON) a livelli considerati dannosi per la salute umana. Questa particolare micotossina, il DON, si trova spesso naturalmente nel grano, nel mais e nell’orzo nelle regioni temperate.

Le persone sono esposte a queste tossine mangiando alimenti contaminati (in particolare cereali e prodotti che li contengono, come pane o pasta). Lavare e cuocere questi alimenti non rimuove necessariamente le micotossine. Questo è particolarmente problematico perché alcuni dei funghi che producono micotossine non sono visibili né rilevabili tramite odore o sapore. Altre vie di esposizione sono l’acqua potabile contaminata da scarichi agricoli, e l’inalazione e l’assorbimento cutaneo per le persone che lavorano con le colture o gli alimenti contaminati.

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Fonte: Ruminantia.it




Predazione del bestiame da parte dei lupi nell’Italia nord-orientale: una network analysis sui fattori ambientali

La valutazione dell’entità dei conflitti che coinvolgono i grandi carnivori (di seguito “carnivori”) e gli allevamenti rappresenta una delle principali sfide che gli agricoltori, gli ecologi e i responsabili delle politiche ambientali devono affrontare oggi. I conflitti tra uomo e carnivori riguardano principalmente le predazioni di bestiame e possono essere attribuiti a vari fattori, tra cui la competizione interspecifica tra carnivori che condividono gli stessi habitat, il loro comportamento alimentare e gli ampi home-ranges, gli interventi di gestione e la perdita e/o la frammentazione degli habitat.

Sebbene i carnivori non abitino in modo permanente le aree densamente popolate dall’uomo, hanno dimostrato la capacità di ricolonizzare territori con densità umane moderate e di persistere in paesaggi frammentati (ad esempio, foreste mescolate all’agricoltura) o in prossimità di strutture umane.

Di conseguenza, in queste aree è più probabile che si verifichino conflitti con l’uomo. I grandi predatori svolgono un ruolo fondamentale nell’ecosistema, ad esempio regolando l’abbondanza di altre specie attraverso effetti ecologici top-down nella catena alimentare. Tuttavia, gli attacchi al bestiame rappresentano una minaccia significativa per la sicurezza economica degli allevatori che si basano principalmente sulle pratiche di pascolo, il che contribuisce a creare una radicata ostilità nei confronti dei carnivori.

Il lupo grigio Canis lupus (di seguito, lupo) è il grande predatore più abbondante in Italia. La specie è stata estirpata dalle Alpi nei primi due decenni del XX secolo e, per decenni, è rimasta confinata nell’area meridionale del fiume Po, con una piccola popolazione sopravvissuta nell’Appennino centrale.
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Fonte:  ASSAP.org



Carne coltivata e la mobilitazione della Coldiretti: l’appello di scienziati ed esperti

Poco più di un decennio fa, l’idea di coltivare carne senza la macellazione di animali apparteneva più al regno della fantascienza che agli scaffali dei supermercati. Ma quello che era nato come un prototipo nel 2013, la prima bistecca coltivata del ricercatore danese, Mark Prost si è gradualmente trasformato in un serio ambito di innovazione, investimenti e politiche pubbliche. Oggi in tutta Europa, l’interesse per la carne coltivata va oltre i laboratori di ricerca e sta diventando una questione di preparazione del mercato, sovranità alimentare e leadership tecnologica.

La carne coltivata è una tecnologia già in uso in altre parti del mondo, come risposta all’impatto ambientale, al fabbisogno di proteine ​​per nutrire tutti in modo equo e sostenibile e agli interrogativi etici degli allevamenti intensivi, i cui rischi non superiori a quella convenzionale, vengono attentamente valutati dall’EFSA in accordo alle linee guida dell’Unione Europea. Purtroppo le sfide politiche e legali emergono ancor prima che la carne coltivata raggiunga gli scaffali dei negozi. Nel 2023, l’Italia ha approvato la Legge n. 172/2023 che stabilisce il divieto in Italia di produzione e immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari. Ma ancor prima della sua adozione formale, le misure previste stavano già causando notevoli disagi colpendo non solo le imprese direttamente coinvolte nel settore ma anche i settori correlati. Come risposta gli investitori hanno indugiato nei negoziati e il persistere di una posizione politica restrittiva ha creato in Italia un ambiente ad alto rischio per le iniziative economiche e minato le sue capacità di attrarre capitali e sostenere lo sviluppo e ricerca delle imprese del settore.

Coldiretti, una delle più importanti associazioni italiane di agricoltori con le sue posizioni contrarie alla carne coltivata  (erroneamente definita sintetica), ritenuta dalla stessa un rischio per l’identità alimentare nazionale, posiziona gli agricoltori contro l’innovazione alimentare creando una falsa divisione.

L’associazione, forte promotrice della Legge n. 172/2023, puntando su un strategia di comunicazione emotiva e su una serie di dichiarazioni antiscientifiche, ha organizzato 19 Marzo una  manifestazione nazionale a Parma, città con il ruolo critico di hub dell’alimentare e sede dell’EFSA, collegata alla campagna ‘Facciamo Luce’. Nel corteo, a cui hanno partecipato 20.000 associati, spiccavano cartelli riportanti slogan come ‘cibo dalle campagne non dai laboratori, ‘più ricerca medica’,  ‘i cittadini europei non sono cavie’. Tra i motivi della protesta, apparentemente europeista e vicina ad un intento di protezionismo economico, ci sono rivendicazioni molteplici tra cui meno burocrazia e più risorse e la richiesta di regolamentare la carne coltivata anche attraverso dei trial clinici e pre-clinici utilizzati nell’iter di sperimentazione e approvazione dei farmaci.

Per quest’ultimo aspetto l’associazione ha trovato sponda sia in un documento del Consiglio dei ministri dell’Agricoltura e Pesca sottoscritto a Gennaio 2024 da diversi paesi, tra cui il nostro, dal titolo ‘The CAP’s role on safeguarding high quality and primary farm-based production’, in cui si accenna alla necessità di regolamentare la carne coltivata come un farmaco, sia nel parere elaborato da un Tavolo tecnico interministeriale del Ministeri della Salute ed Agricoltura alla Guida EFSA sui Novel Food.  I tecnici chiedono all’EFSA ulteriori approfondimenti sulla materia e l’introduzione dell’obbligatorietà dei trials clinici e pre-clinici per autorizzare la carne coltivata come un farmaco, ma non forniscono dettagli sui metodi adottati e i riferimenti scientifici e lasciano aperte le domande sulle ragioni che hanno portato a questa conclusione.

Inoltre, come denunciato in una recente  interrogazione parlamentare ai ministri della Salute e dell’Agricoltura, l‘appartenenza di alcuni tecnici del Tavolo tecnico al comitato scientifico di Aletheia, un think tank istituito proprio da Coldiretti,  solleva un potenziale conflitto di interessi con dubbi legittimi sulla qualità dei pareri scientifici proposti dal tavolo ed utilizzati da Coldiretti per giustificare le iniziative contro la carne coltivata.  Non meno rilevante il fatto che il coordinatore del tavolo sia anche il presidente di Aletheia. La richiesta della Coldiretti, che appare scarna di argomenti scientifici, al di là della constatazione della mancata conoscenza dell’impatto sulla salute della carne coltivata, lancia un segnale di delegittimazione del lavoro scientifico dell’EFSA, incaricata dalla Commissione Europea di valutare, sulla base di dati scientifici solidi i rischi non solo per gli alimenti, ma anche per gli animali e mangimi, nel rispetto dei principi della trasparenza e indipendenza, ulteriormente rafforzati dal Regolamento (UE) 2019/1381 sulla trasparenza e sostenibilità dell’analisi del rischio  nella filiera alimentare dell’Unione europea.  E’ utile richiamare la procedura di autorizzazione della carne coltivata – cosi come di altri Novel food- che si compone di due fasi: valutazione del rischio e gestione del rischio.

Con la prima l’EFSA analizza le proprietà nutrizionali, tossicologiche e allergeniche del nuovo alimento e del suo processo di produzione e fornisce alla Commissione europea il parere scientifico sulla sicurezza del prodotto. Se questo parere è favorevole, ed entriamo nella fase di gestione del rischio, la Commissione redige un atto di esecuzione e lo sottopone al Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi, composto da rappresentanti della Commissione e dei 27 Stati membri dell’UE. Questa ulteriore consultazione consente di valutare anche aspetti economici, di benessere animale, impatto sociale e/o di altro tipo.

Il dibattito sulla carne coltivata si è dunque arricchito di un altro elemento di confusione con la sua assimilazione tout court ai farmaci che seguono iter autorizzativi distinti e con finalità diverse: un farmaco può essere autorizzato anche in presenza di effetti collaterali noti, mentre l’EFSA può approvare un alimento solo se non presenta rischi per la salute. E’ evidente come questa impostazione implicherebbe la revisione del quadro regolatorio attualmente applicabile (UE Novel Food Regulation) integrando elementi tipici della normativa farmaceutica e il trasferimento del mandato autorizzativo all’EMA (Agenzia Europea dei farmaci) che non dispone delle competenze per la valutazione della sicurezza degli alimenti.

A margine della manifestazione di Parma,  Coldiretti ha incontrato i vertici EFSA al fine di chiarire le preoccupazioni e le istanze sollevate circa l’approccio di valutazione del rischio.  Nel comunicato stampa EFSA, rilasciato al termine dell’incontro, viene sottolineato come i gruppi di esperti incaricati ‘effettueranno valutazioni approfondite, caso per caso, per ciascun prodotto e potranno utilizzare ogni livello di studio richiesto (inclusi test preclinici e clinici) per determinarne la sicurezza’.  Questa dichiarazione è stata erroneamente interpretata dalla Coldiretti come un accoglimento della richiesta di utilizzare tali studi per la regolamentazione della carne coltivata. Occorre però fare chiarezza su questo punto.

Gli studi di intervento sull’uomo (ovvero gli studi clinici) sono applicati con successo in campo medico per I prodotti farmaceutici con dosaggi ben controllati e i cui effetti collaterali sono relativamente facili da monitorare. Riesce difficile immaginare come gli stessi studi possano essere condotti su prodotti coltivati ​​per monitorare i potenziali effetti avversi sulla salute derivanti dal consumo a lungo termine. E’ come se gli hamburger di vitello coltivato dovessero seguire lo stesso processo autorizzativo di un farmaco destinato al trattamento di malattie gravi, e prima dell’approvazione venisse richiesto uno studio clinico.

L’EFSA ha già richiesto test aggiuntivi, inclusi gli studi di intervento sull’uomo (ovvero gli studi clinici) per alcuni dei 125 nuovi alimenti autorizzati dal 2000. Ma si può presumere che la richiesta di studi preclinici e clinici citati nella dichiarazione dell’EFSA sia generici e, comprensibilmente riferita (ove richiesto) a input, ingredienti o componenti che entrano nel processo di produzione della carne coltivata, ma non al prodotto finito. Gli studi clinici sulla popolazione sono assimilabili al monitoraggio post-commercializzazione che potrebbe essere utilizzato per confermare che il prodotto sia quello previsto nella valutazione pre-commercializzazione e limitati a palatabilità, digeribilità, intolleranze e allergie o per alimenti speciali in cui è necessario indagare potenziali effetti nutrizionali negativi o esiti sanitari avversi su popolazioni specifiche (ad esempio, neonati, donne in gravidanza e pazienti ad alto rischio di malattie).

Per la carne coltivata rimane comunque giustificata l’identificazione preventiva di potenziali pericoli (es. fattori di crescita) e il tracciamento di effetti avversi correlati. Pertanto per valutare la sicurezza del prodotto finale (che include carne e frutti di mare coltivati come ingredienti, additivi o alimenti interi) l’EFSA analizza i risultati di test svolti dalle ditte, e documentati nei dossier allegati alle richieste di autorizzazione dei prodotti notificati, su ingredienti, nuove proteine, contaminanti, prodotti di degradazione, metaboliti o residui presenti nel prodotto finito.  Queste valutazioni a seconda del tipo di nuovo alimento possono includere test di tossicità standard, conformi ai criteri specifici per un determinato ingrediente, in accordo al Codex Alimentarius e se necessari test di sicurezza in vitro ed in vivo. I primi possono essere utilizzati per lo screening e l’identificazione di potenziali pericoli e talvolta per calibrare la dose per i successivi test sugli animali.

Sulla mobilitazione della Coldiretti, c’è stato un recente appello di scienziati ed esperti , impegnati nello studio della carne coltivata in Italia e in Europa, i quali, alla luce della letteratura scientifica esistente e delle ricerche condotte nel settore, confermano la solidità del Regolamento UE 2015/2283 sui Novel Food, ritenuto tra i più rigorosi al mondo dal punto di vista delle garanzie per la salute dei consumatori, e l’assenza di una base scientifica nella richiesta di studi clinici e preclinici.

Gli stessi ricercatori hanno poi chiesto ai Ministri della Salute e dell’Agricoltura la possibilità di partecipare ad un confronto più inclusivo, al fine di assicurare pluralismo, trasparenza e aggiornamento costante del dibattito scientifico e far sì che le decisioni istituzionali siano supportate da solide evidenze scientifiche, a tutela della popolazione.  Disponibilità poi accordata da parte dei Ministeri di Salute e Agricoltura ad ampliare il tavolo tecnico sulla carne coltivata includendo la comunità scientifica nazionale di settore. Alessandro Bertero, Professore di Biotecnologie presso l’Università di Torino, tra i firmatari della lettera, ha dichiarato: “Come gruppo di esperti impegnati nel settore, accogliamo positivamente la dichiarata volontà di ampliare il confronto e speriamo che si possa presto creare questa opportunità di confronto scientifico costruttivo con le istituzioni”. Ad oggi però, i ventisei esperti e ricercatori italiani non hanno ancora ricevuto risposta.

In conclusione, la carne coltivata non necessita di sperimentazioni cliniche, perché non è un farmaco. Questa non è né una scappatoia né una svista, ma piuttosto lo stesso principio che regola gli integratori alimentari, i prodotti omeopatici e i cosmetici.

Il dibattito polarizzato sulla carne coltivata riflette una trepidazione più profonda piuttosto che un semplice conflitto tra quadri giuridici. La carne coltivata tocca nervi culturali: il cibo è identità, tradizione, persino ideologia. Da qui le posizioni restrittive di alcuni governi e associazioni di settore a salvaguardia della cucina nazionale o dei mezzi di sussistenza rurali, ma che celano deboli tentativi di protezionismo economico dei produttori di carne tradizionali a discapito delle tecnologie all’avanguardia. Diversamente, lungi dal considerare la carne coltivata una minaccia, gli agricoltori possono vederla come un’opportunità per l’acquisizione di un modello di business complementare e non sostitutivo della produzione convenzionale ed essere i pionieri di questa tecnologia come di altre che hanno scandito il processo di innovazione ed il progresso del mondo agricolo nel corso della storia.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP

 

 




IZSVe, Laboratorio di referenza europeo per l’Aviaria: in Italia situazione sotto controllo, criticità in Polonia e Ungheria

In Italia l’ultimo report relativo all’influenza aviaria segnalava, a partire da settembre 2024, 97 focolai tra gli uccelli selvatici, 56 per quanto riguarda il pollame domestico e 3 focolai tra i mammiferi. Negli ultimi mesi, da febbraio 2025, si è registrato un unico focolaio in un allevamento di polli in Piemonte, e 5 isolamenti in uccelli selvatici, tutti limitati al mese di febbraio.

Una situazione di fatto sotto controllo, frutto di un lavoro sinergico tra Ministeri, Istituti Zooprofilattici, autorità sanitarie competenti e comparto avicolo. Nel resto d’Europa le condizioni purtroppo non sono le stesse.

Sempre nel periodo ottobre 2024-marzo 2025, nel Vecchio Continente il totale dei focolai è salito a 1.500, di cui 934 tra gli uccelli selvatici e 566 tra gli allevamenti, in 34 Paesi diversi. Gli stati maggiormente colpiti sono Germania e Paesi Bassi, per i volatili selvatici, mentre Polonia e Ungheria per quanto riguarda gli allevamenti. Difficile anche la situazione negli Stati Uniti, dove la malattia si è diffusa anche tra i bovini con oltre un migliaio di focolai attivi. Qui il prezzo delle uova, per riflesso condizionato, è volato alle stelle.

“Queste situazioni di criticità – precisa Antonia Ricci, Direttrice Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie dove ha sede il Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria – sono sicuramente allarmanti e da tenere sotto stretto monitoraggio. Dimostrano come questa sia una malattia molto pericolosa per gli animali e che si diffonde con una rapidità enorme.”

“Se non si è pronti a mettere in atto misure di controllo e contenimento efficaci la malattia diventa ingovernabile. In Italia abbiamo – purtroppo – un’esperienza di molti anni in questo campo, che ci permette di intervenire prontamente, lavorando in collaborazione con il Ministero della Salute e le autorità regionali, e che ci ha fatto diventare un riferimento a livello internazionale, non solo per l’Europa ma anche per l’Organizzazione mondiale della salute animale (WOAH) e per la FAO. La prossima settimana un team di nostri esperti sarà proprio in Polonia per aiutare i colleghi polacchi a controllare la diffusione della malattia.”

“È fondamentale ricordare – continua Ricci – che non c’è nessun rischio di trasmissione del virus attraverso il consumo di carne e di uova. È un virus che può diventare potenzialmente pericoloso per l’uomo attraverso la trasmissione respiratoria ma ad oggi non abbiamo evidenza che questo salto di specie stia avvenendo.”

“In Italia opera un’industria avicola molto sviluppata, moderna e autosufficiente Nel nostro paese produciamo più carne di pollo di quanta ne viene consumata e dunque non c’è l’esigenza di importare. L’industria avicola nel corso del tempo ha saputo rispondere alle numerose sfide dal punto di vista sanitario, per esempio riducendo drasticamente l’uso di antibiotici, diventando dunque un modello anche per gli altri Paesi.”

“Su mandato del Ministero della Salute e assieme al comparto industriale, al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, agli Istituti Zooprofilattici e alle istituzioni sanitarie locali e regionali – conclude Ricci – stiamo lavorando a un piano strategico nazionale per il controllo dell’influenza aviaria che possa prevedere anche la vaccinazione come strumento di prevenzione, insieme a tutte le altre misure che abbiamo visto essere efficaci per il controllo della malattia.”

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ECM Trapani – Farmacovigilanza e Farmacosorveglianza nella catena alimentare: una visione olistica

imparareIl prossimo 15 e 16 maggio a Castellammare del Golfo (TP) presso la Sala conferenze del Castello Arabo Normanno  si terrà un corso ECM dal titolo “Farmacovigilanza e Farmacosorveglianza nella catena alimentare: una visione olistica”.

L’attività di controllo sul farmaco veterinario è volta al mantenimento dello stato di salute degli animali e alla garanzia di salubrità degli alimenti di origine animale. L’attività di farmacosorveglianza è finalizzata alla tutela della salute dei consumatori di alimenti di origine animale e si attua con il controllo sull’utilizzo del farmaco veterinario, in modo da limitare l’esecuzione di trattamenti non conformi a quanto descritto dalla normativa europea.

Tale controllo è eseguito a livello di produzione (Industrie Farmaceutiche Veterinarie), di commercializzazione (Farmacie e Depositi all’ingrosso di medicinali veterinari) e di utilizzo (allevamenti, ambulatori e cliniche veterinarie, canili e gattili, allevamenti di animali non destinati alla produzione di alimenti per l’uomo, medici veterinari liberi professionisti). La farmacovigilanza valuta invece l’efficacia e la sicurezza di un farmaco dopo l’immissione in commercio attraverso la raccolta di informazioni sulle reazioni avverse che si evidenziano nel corso dell’uso di medicinali veterinari e nell’uso improprio o abuso degli stessi.

I Relatori del corso offriranno all’ascolto dei corsisti informazioni relative alle attuali situazioni e sulle norme e sistemi che regolano il controllo e la gestione della farmacovigilanza e
farmacosorveglianza nella catena alimentare.

Il corso è aperto a 100 partecipanti tra  Medici Veterinari e Medici Chirurghi (Igiene epidemiologia e sanità pubblica/Igiene degli alimenti e della nutrizione/Malattie Infettive/Medicina del lavoro e sicurezza degli ambienti di lavoro).

Programma scientifico

Scheda di iscrizione




Una tecnica per individuare il miele adulterato

L’Ente italiano di Normazione (UNI) ha da poco pubblicato la norma UNI 11972:2025 Miele, che  fornisce un metodo analitico basato sulla tecnica spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR) in alta risoluzione per identificare marker specifici di tre adulteranti saccaridici maggiormente utilizzati per diluire il miele: inulina, zucchero invertito e sciroppo di mais/malto. La pubblicazione della norma segna un importante traguardo per il riconoscimento ufficiale delle tecniche NMR in campo giuridico.

A mettere a punto la tecnica per questo specifico ambito, il Gruppo di lavoro “GL 23-autenticità degli alimenti” istituito nell’ambito dell’accordo di collaborazione attivo tra Cnr e UNI, che prevede – tra le altre cose- la partecipazione di ricercatori dell’Ente ad attività di normazione tecnica. Project Leader del Gruppo, è Roberto Consonni dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr di Milano (Cnr-Scitec), che spiega: “Il miele, come altri prodotti alimentari di pregio, rappresenta un target per l’adulterazione al fine di ottenere maggiori profitti; inoltre, in questi ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, le quantità di miele risultano fortemente ridotte. Analisi internazionali – come un recente “technical report” del JRC – hanno fornito segnali allarmanti, affermando che quasi la metà del miele importato in Europa da differenti nazioni europee ed extraeuropee non è conforme alla direttiva europea 2001/110/EC, che definisce gli standard qualitativi minimi per il miele per uso alimentare: è, cioè, da considerarsi adulterato”.

L’adulterazione più diffusa consiste nella diluizione di miele autentico con sciroppi saccaridici di diversa origine vegetale a basso costo, con composizione complessa e di difficile identificazione.

Oggi, grazie alla tecnica NMR, è possibile identificare e quantificare selettivamente dei segnali specifici per ogni tipo di adulterante saccaridico considerato nello studio. In pratica si osservano dei marker specifici presenti in concentrazioni elevate nei campioni di miele adulterati artificialmente.

“La tecnica è stata testata su tre varietà botaniche di miele, in particolare miele di castagno, millefiori ed acacia con i tre adulteranti saccaridici. Presso il laboratorio NMR di Cnr-Scitec è stato messo a punto un protocollo analitico per la preparazione dei campioni, l’acquisizione dei dati NMR ed il processing dei dati ottenuti dalle misure eseguite. Questo protocollo, che ha testato l’adulterazione dei campioni di miele autentico con ciascuno dei tre adulteranti in percentuali dal 10% al 30% in peso  è stato condiviso con diversi laboratori nazionali di enti di ricerca diversi, che hanno analizzato gli stessi campioni e validato il metodo.

Il Gruppo di lavoro ha coinvolto, oltre a studiosi del Cnr-Scitec, anche colleghi e colleghe di altri Istituti Cnr – l’Istituto di chimica biomolecolare (Cnr-Icb) e l’Istituto per i sistemi biologici (Cnr-Isb)- e di altre istituzioni quali la Fondazione Edmund Mach, l’Università degli Studi di Milano,  l’Università di Parma, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università di Modena e Reggio Emilia e l’Università di Padova.

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Fonte: CNR




Dengue e cambiamenti climatici

Un recente articolo pubblicato dal BMJ della giornalista freelance Kamala Thiagarajan offre un’analisi approfondita dell’impatto della dengue a livello globale, evidenziando il 2024 come un anno critico per questa malattia, aggravato dal record di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1).  La dengue, trasmessa dalle zanzare Aedes aegypti e Aedes albopictus, è una crescente minaccia sanitaria globale. Nel 2024 sono stati registrati oltre 12 milioni di casi e 8.000 decessi in 86 paesi (2). Un incremento che riflette l’intreccio tra cambiamento climatico, urbanizzazione e disuguaglianze socioeconomiche. Partendo dall’articolo di Thiagarajan, presentiamo un’analisi generale dell’impatto del clima sulla diffusione della dengue, come di altre malattie trasmesse da vettori, l’efficacia delle politiche di prevenzione e trattamento, e le implicazioni economiche e politiche che influenzano la gestione di queste minacce sanitarie nell’era del cambiamento climatico.

La diffusione globale della dengue: dati e tendenze

Negli ultimi decenni, le malattie trasmesse da zanzare hanno registrato un aumento significativo, spinto da cambiamenti climatici, urbanizzazione e mobilità umana. Il Lancet Countdown on Health and Climate Change del 2023 (3) evidenzia che il cambiamento climatico ha aumentato del 30% la diffusione della dengue negli ultimi vent’anni, con implicazioni simili per altre malattie come Zika, Chikungunya e malaria. Secondo il BMJ,  le Americhe hanno visto un incremento allarmante dei casi di dengue: 9,7 milioni di infezioni nel 2024, oltre il doppio rispetto ai 4,6 milioni del 2023 (Fig. 1). Dal 1990, i casi di dengue sono raddoppiati ogni decennio, mettendo a rischio quasi la metà della popolazione mondiale. Confrontando i decenni 1951-1960 e il 2013-2022, il tasso di riproduzione base (R0) della dengue è aumentato del 28% per Aedes aegypti e del 27% per Aedes albopictus, con un allungamento della stagione di trasmissione dal 13% al 15%. Questo aumento preoccupante si riflette anche nelle proiezioni future che, sempre nelle Americhe, indicano che entro il 2039 la malattia potrebbe interessare il 97% dei comuni in Brasile e il 91% in Messico, coinvolgendo grandi città densamente popolate come Città del Messico e Porto Alegre. Anche in Asia la situazione è allarmante, in India, che rappresenterebbe un terzo del carico globale di dengue, modelli epidemiologici stimerebbero 33 milioni di casi clinicamente evidenti ogni anno (4). Tuttavia, il governo ha riportato ufficialmente solo 157.325 casi dal 2019, segnalando una drammatica sottostima che complica, tra le altre cose, la pianificazione sanitaria.

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Fonte: saluteinternazionale.info




Comprendere il disagio degli animali

In quanto problema ampiamente riconosciuto che ne compromette il benessere, il disagio degli animali viene spesso menzionato nella ricerca, nella legislazione e nelle linee guida etiche; ciononostante, il modo in cui viene definito in questi documenti è vago e incoerente, il che ne rende difficile la quantificazione e complica l’allineamento degli standard etici in ambito di ricerca. Inoltre, fa sì che sia difficile valutare oggettivamente il benessere animale. Per contribuire a colmare queste lacune, il progetto PIGWEB, finanziato dall’UE, hapubblicato un documento programmatico a sostegno dell’impiego di una definizione standardizzata di disagio degli animali in diverse specie, contesti e discipline.

Definire il disagio animale

L’identificazione del disagio è un passo fondamentale per soddisfare la crescente domanda di una produzione zootecnica più sostenibile, nonché orientata al benessere. Utilizzando il maiale domestico come modello, i ricercatori attivi in PIGWEB hanno effettuato un’analisi concettuale per giungere alla seguente definizione di disagio animale: «stato affettivo negativo di breve o lunga durata caratterizzato da componenti fisiche, fisiologiche e/o mentali, indotto da stimoli interni o esterni e di entità da lieve a grave, che può verificarsi insieme ad altri stati affettivi negativi e che porta a evitare o a cercare di alleviare la fonte del malessere». Il team ha analizzato un totale di 118 documenti rilevanti pubblicati in inglese che definivano e/o misuravano il disagio in suini e altre tipologie di animali. Descritta in dettaglio in uno studio pubblicato sulla rivista «Livestock Science», l’analisi ha rivelato che il disagio degli animali presenta tre campi di ramificazione, ovvero di tipo fisico e sensoriale causato da ferite, lesioni, rumori forti, temperature estreme e odori forti; di tipo fisiologico provocato da squilibri metabolici, infezioni e carenze nutritive; e infine di tipo mentale come ansia, paura, frustrazione o noia.

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Fonte: Commissione Europea




Il pesce palla argenteo arriva nell’Adriatico del Nord: attenzione al suo veleno!

Un pesce palla argenteo è stato pescato nella baia di Medulin, nel sud dell’Istria, segnando una nuova e preoccupante tappa nella diffusione di questa specie aliena nel Mediterraneo. La cattura dell’esemplare, effettuata da un pescatore sportivo a maggio 2024, è diventata di pubblico dominio solo nel marzo 2025, quando uno studio dell’Università di Pola con l’Istituto oceanografico di Spalato, pubblicato sulla rivista Acta Ichthyologica et Piscatoria ne ha confermato l’identificazione: “Lagocephalus sceleratus”.

 Si tratta del primo avvistamento di pesce palla argenteo nel nord dell’Adriatico e il più settentrionale mai registrato in tutto il bacino mediterraneo. La sua cattura rappresenta un campanello d’allarme per biologi marini, pescatori e autorità sanitarie, dato che si tratta di un pesce altamente tossico per l’uomo e dannoso per l’ecosistema marino.

Una minaccia per la salute pubblica

Il “Lagocephalus sceleratus” è un pesce appartenente alla famiglia dei Tetraodontidae, originario dell’Oceano Indiano e del Pacifico. La sua caratteristica principale, oltre all’aspetto inconfondibile con “guance argentate” e un becco simile a quello di un pappagallo, è la presenza di una neurotossina mortale: la tetrodotossina. Questa sostanza, mille volte più potente del cianuro, può causare paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ed è termostabile, cioè resistente alla cottura. In passato, le autorità sanitarie hanno registrato casi mortali in Egitto e in Italia, con episodi documentati negli anni ’70 e ’80. In Giappone, dove alcune specie di pesce palla vengono consumate come prelibatezze (fugu), esistono regolamenti severissimi per la preparazione, ma in Europa la commercializzazione è vietata dal Regolamento CE n. 853/2004.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




IZSVe inaugura la sezione di Belluno: presidio di ecopatologia e sicurezza alimentare a servizio della sanità pubblica

Giovedì 17 aprile è stata inaugurata la sezione territoriale di Belluno dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe). Alla cerimonia, oltre alla Direttrice generale dell’IZSVe Antonia Ricci, erano presenti l’Assessore alla Sanità, Servizi sociali e programmazione socio-sanitaria della Regione del Veneto Manuela Lanzarin, il Sindaco di Belluno Oscar De Pellegrin, il Presidente IX Commissione Industria, commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare al Senato Sen. Luca De Carlo e il Direttore generale di ARPA Veneto Loris Tomiato.

La sezione di Belluno, parte della SCT2 – Treviso, Belluno e Venezia, è impegnata in diverse attività legate alla sanità pubblica veterinaria. Si occupa della sorveglianza sanitaria della fauna selvatica, fornisce consulenza al Servizio sanitario nazionale, a istituzioni e associazioni, e promuove attività di informazione e formazione rivolte alla popolazione, ad associazioni e operatori del settore. Svolge inoltre attività di ricerca scientifica su malattie trasmissibili dagli animali selvatici all’uomo e studio dei fattori ambientali che ne influenzano la diffusione. Al suo interno è ospitato il Centro specialistico fauna selvatica, coordinato dal dott. Carlo Citterio. Nel 2024 i laboratori hanno eseguito 7.737 analisi nell’ambito della sanità animale.

“Le sezioni territoriali rappresentano un presidio sanitario fondamentale, radicato nel contesto locale ma con uno sguardo attento alle dinamiche globali, che va tutelato e valorizzato” ha dichiarato la Dg Antonia Ricci. “Grazie alla loro specializzazione tecnico-scientifica, le sezioni dell’IZSVe riescono ad interpretare in profondità i bisogni specifici del territorio e, allo stesso tempo, a rispondere in modo efficace alle sfide sanitarie globali. Pur essendo geograficamente decentrato, il territorio bellunese, per le sue caratteristiche ambientali e produttive, riveste un ruolo chiave per alcune tematiche di sanità pubblica, come le malattie trasmesse da zecche, la tutela della fauna selvatica e la sicurezza alimentare delle produzioni lattiero-casearie di malga. Grazie alle collaborazioni con diverse realtà a livello locale, nazionale e internazionale, la sezione di Belluno è oggi un punto di riferimento per le istituzioni e la comunità scientifica.”

“Questa nuova sezione territoriale dell’Istituto zooprofilattico – sottolinea l’assessore Manuela Lanzarin si delinea già come un importante presidio per un territorio complesso e particolare. È inserita, infatti, in un’ampia zona montana della nostra regione contrassegnata da ampi spazi con una presenza massiccia di fauna selvatica ma anche da aree antropizzate e produttive con una diffusa presenza di bestiame da allevamento soprattutto in funzione di un’affermata vocazione alla produzione lattiero-casearia. Un simile presidio di sanità pubblica, quindi, è fondamentale; un ulteriore tassello della collaborazione che vede sempre complementari la sanità regionale e l’IZSVe, anche in un’ottica di approccio ‘One Health’, in cui sono strettamente connesse la salute umana, quella animale e quella dell’ecosistema. Esprimo, quindi, a nome della Regione grande soddisfazione per questo ulteriore traguardo raggiunto”.

Di recente è stato siglato un accordo di collaborazione fra IZSVe e Ulss 1 Dolomiti per sviluppare temi di interesse comune in ambito di sanità pubblica e sicurezza alimentare, anche in vista dei Giochi Olimpici Invernali Milano-Cortina 2026. Nello specifico, le attività di sanità pubblica riguardano soprattutto l’approfondimento di conoscenze e aspetti tecnico-scientifici sulle zecche e le malattie trasmesse da questi vettori, nonché la ricognizione di potenziali zoonosi dagli animali selvatici all’uomo. In tema di sicurezza alimentare sono stati avviati due progetti: “Sicurezza olimpica” con l’obiettivo di elevare gli standard igienico-sanitari delle attività di somministrazione e vendita di alimenti al dettaglio; “Malghe 2.0” finalizzato a migliorare la sicurezza dei prodotti lattiero-caseari di malga, soprattutto quelli a latte crudo.

Un altro ambito di particolare rilevanza è rappresentato dalla peste suina africana (PSA) nelle popolazioni di cinghiali. La sezione di Belluno, anche attraverso il Centro specialistico fauna selvatica, già da diversi anni ha notevolmente intensificato le attività di ricerca per il miglioramento della sorveglianza e per la preparedness alla possibile introduzione di questa infezione. Collabora inoltre alla stesura e attuazione dei Piani Regionali di Interventi Urgenti (PRIU) per la gestione della PSA, ed è coinvolto in numerose attività di formazione, informazione e supporto tecnico-scientifico.

Comunicato Stampa