Istat, in aumento chi non accede a pasto proteico ogni 2 giorni

Cresce la quota di chi non può permettersi per motivi economici di consumare un pasto proteico almeno ogni due giorni (il 9,9% nel 2024, era 8,4% nel 2023), in controtendenza rispetto alla media dell’Unione europea.

Lo rileva l’Istat nel rapporto sull’insicurezza alimentare, pubblicato nella Giornata in cui si celebra l’alimentazione e l’agricoltura.

Per l’Istituto di statistica la difficoltà di accesso al cibo risulta maggiore tra i giovani che vivono soli: tra gli under35 che vivono da soli, quasi uno su cinque – emerge dal report Istat – non può permettersi un’alimentazione adeguata (17,8%).

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Fonte: ISTAT




Le api selvatiche minacciate in Europa, aggiornata la Lista Rossa

apePer la prima volta, le api selvatiche sono state ufficialmente classificate come ‘in pericolo’ all’interno dell’Europa: grazie a un grande lavoro di monitoraggio e raccolta dati che ha colmato una lacuna di lunga data, i ricercatori hanno esaminato lo stato di conservazione della specie Apis mellifera in sette paesi europei, stimando un calo medio delle popolazioni selvatiche del 56% in un decennio.

 Questo ha permesso di aggiornare la Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn) anche se, per quanto riguarda la regione europea, i dati rimangono molto carenti per aree come i Balcani, i Paesi Baltici, la Scandinavia e l’Europa orientale.

I ricercatori hanno monitorato, tra il 2013 e il 2025, 698 siti sparsi in Francia, Germania, Lussemburgo, Polonia, Spagna, Svizzera e Regno Unito. Secondo i dati raccolti, l‘Europa ha la più bassa densità del mondo di colonie che vivono libere in natura, dal momento che gli alveari gestiti negli allevamenti superano di gran lunga quelli selvatici, e queste già scarse colonie stanno anche vedendo diminuire i loro abitanti.

Fonte: ANSA



Allarme Oms: un’infezione su sei è ormai resistente agli antibiotici

AntibioticoresistenzaNel 2023 una persona su sei nel mondo ha contratto un’infezione batterica resistente ai trattamenti antibiotici. È quanto emerge dal nuovo rapporto globale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), basato sui dati del sistema di sorveglianza Glass (Global antimicrobial resistance and use surveillance system), che raccoglie informazioni da oltre 100 Paesi.

I risultati mostrano una crescita della resistenza antimicrobica (Amr) del 40% tra il 2018 e il 2023, con un aumento medio annuo compreso tra il 5% e il 15%. Nel mondo, le infezioni causate da otto batteri comuni – Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter, Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Salmonella, Shigella e Neisseria gonorrhoeae – sono quelle più colpite dal fenomeno.

Sud-Est asiatico e Mediterraneo orientale le aree più colpite

La resistenza antimicrobica non colpisce in modo uniforme. Secondo l’Oms, nelle regioni del Sud-Est asiatico e del Mediterraneo orientale un’infezione su tre è ormai resistente agli antibiotici, mentre in Africa il dato è di una su cinque. Le aree più vulnerabili sono anche quelle dove i sistemi sanitari non dispongono di laboratori in grado di identificare i patogeni o di trattarli con farmaci efficaci.

In molti Paesi a basso e medio reddito, i pazienti affetti da infezioni resistenti non solo non ricevono le cure appropriate, ma non hanno nemmeno accesso agli antibiotici di base. «La resistenza antimicrobica sta superando i progressi della medicina moderna, minacciando la salute delle famiglie in tutto il mondo – ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms – Serve un uso responsabile degli antibiotici e un accesso equo a diagnosi e trattamenti di qualità».

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Fonte: ilsole24ore.com




Risultati di quattro generazioni di selezione per il comportamento igienico sensibile alla Varroa nelle api mellifere

La sopravvivenza delle api mellifere, fondamentali per l’impollinazione e la sicurezza alimentare globale, è minacciata da Varroa destructor, un acaro parassita che ha rivoluzionato le sfide dell’apicoltura moderna. Un recente studio esplora l’impatto biologico e produttivo dell’infestazione, le strategie di contenimento attuali e le prospettive offerte dall’allevamento selettivo, con un focus sui comportamenti naturali di resistenza che potrebbero rappresentare la chiave per un’apicoltura più sostenibile. Di seguito l’approfondimento.

 Il settore dell’apicoltura è da tempo confrontato con una grave minaccia biologica: Varroa destructor, un acaro parassita che compromette gravemente la sopravvivenza delle colonie di Apis mellifera in tutto il mondo. Originariamente ectoparassita dell’ape asiatica (Apis cerana), con cui si è coevoluto. V. destructor è passato ad A. mellifera nel XX secolo, diventando rapidamente la principale causa di perdita di colonie nelle regioni temperate. L’acaro si riproduce all’interno delle celle di covata opercolate delle api mellifere e funge da vettore per diversi virus, in particolare il virus delle ali deformate (DWV), rendendolo una delle principali minacce alla salute e alla produttività delle colonie. Gli acari si nutrono del tessuto adiposo delle api in fase di sviluppo e adulte, compromettendo la funzione immunitaria, riducendo la durata della vita e indebolendo la resilienza della colonia. In assenza di un controllo efficace, le colonie infestate spesso collassano nel giro di pochi mesi.

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Fonte: assaspa.org




Tra falchi e tartarughe, cresce il traffico illegale di animali selvatici

Pipistrelli e pesci tropicali

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Fonte: AGI




Uno studio One Health getta nuova luce sul complesso intreccio fra pipistrelli, allevamenti suini e virus

Studio dell’IZSVe individua come almeno otto specie di pipistrelli (chirotteri) utilizzino le aree degli allevamenti di suini dell’Italia settentrionale. Sebbene questa interazione possa presentare effetti positivi per entrambe le specie, l’assenza di barriere fisiche e le lacune nella biosicurezza all’interno delle aziende suinicole possono comportare un rischio residuo per la trasmissione inter-specifica di virus.

Legnaro (Padova) –  I pipistrelli, o chirotteri, sono riconosciuti come serbatoi naturali di diversi coronavirus (CoV), da alcuni dei quali potrebbero essersi evolute specie virali pericolose per l’uomo e per gli animali domestici, come il SARS-CoV-2 o il virus della diarrea epidemica nel suino. Tuttavia, le dinamiche e i meccanismi che permettono il passaggio di questi virus agli animali da allevamento o all’uomo rimangono per lo più sconosciute.

I ricercatori del Laboratorio di zoonosi virali emergenti dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, per valutare i fattori di rischio per la trasmissione di virus dai pipistrelli ai suini, usando come caso studio i coronavirus in alcuni allevamenti dell’Italia settentrionale. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ConVErgence e ha visto la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, Università di Padova, Università di Bari, Università del Sussex (UK) e Coop. STERNA di Forlì.

“L’interfaccia fra animali selvatici, animali domestici ed esseri umani, rappresenta un confine molto labile dove possono emergere malattie infettive a carattere epidemico”, spiega Stefania Leopardi, veterinaria dirigente e supervisore della ricerca. “Sappiamo che gli allevamenti suini rappresentano possibili ‘hotspot’ per la diffusione e la comparsa di varianti ricombinanti potenzialmente pericolose per gli animali o l’uomo. Per questo motivo, l’identificazione di nuovi coronavirus è fondamentale per valutare il loro adattamento nel suino e nell’uomo, ma è altrettanto importante cercare di comprendere i fattori di rischio che possono favorire i fenomeni di spillover nelle specie animali.”

Indagini ecologiche, modellistica ambientale, analisi virologiche

Per la ricerca è stato utilizzato un approccio multidisciplinare ispirato al paradigma ‘One Health’, in cui sono state combinate indagini ecologiche, di modellistica ambientale e di virologia molecolare. Una prima fase ha riguardato il monitoraggio bioacustico in 14 allevamenti suinicoli del Triveneto, mediante cui sono state identificate otto specie di pipistrelli negli allevamenti, con P. kuhlii, P. pipistrellus e H. savii come le più diffuse e attive.

L’analisi del paesaggio e delle strutture aziendali ha permesso di identificare i fattori che influenzano maggiormente l’attività dei pipistrelli. È emerso che gli allevamenti con strutture in grado di attrarre insetti registrano un’intensa attività dei pipistrelli, mentre l’habitat circostante incide in misura minore sulla ricchezza delle specie.

Parallelamente, le indagini virologiche hanno permesso di identificare tre nuove specie di CoV, rilevati in P. kuhlii e H. savii, di cui è stato possibile ottenere il sequenziamento completo del genoma. Fondamentale per questa fase l’analisi combinata di campioni raccolti su tre colonie di P. kuhli e di campioni di archivio provenienti da attività di sorveglianza della rabbia in popolazioni di animali selvatici, condotte negli anni dal Laboratorio.

Fra le specie di pipistrello più comuni, è stata osservata una circolazione attiva di CoV in P. kuhlii, anche in colonie situate all’interno delle aziende suinicole, con l’identificazione di due specie distinte di CoV in questi pipistrelli. I CoV sono stati rilevati durante tutta la stagione di attività dei pipistrelli, con picchi a maggio e ad agosto, e in alcuni casi sembrano essere condivisi tra specie diverse di pipistrelli (P. kuhlii e H. savii), aumentando ulteriormente il rischio di ricombinazione genetica.

Le analisi filogenetiche mostrano inoltre che i suini potrebbero essere esposti ad almeno otto specie distinte di CoV, dal momento che i CoV sono associati in modo specifico al proprio ospite.

Da una parte lo studio mette in evidenza come le aziende suinicole possono rappresentare delle oasi per la conservazione dei pipistrelli in ambienti rurali di agricoltura intensiva, dove la monotonia degli elementi ambientali sta inaridendo la biodiversità. In questi ambienti, i pipistrelli possono svolgere un servizio ecosistemico di controllo degli insetti dannosi, anche contribuendo alla riduzione dei pesticidi. Tuttavia, la circolazione dei pipistrelli è anche associata al rischio potenziale di esposizione ai virus che essi veicolano.

Un aspetto fondamentale rilevato dallo studio è la frequente assenza di barriere fisiche negli allevamenti, allestite per impedire il contatto tra i pipistrelli e i recinti dei suini, e un’applicazione disomogenea delle pratiche di biosicurezza. Rafforzare queste misure potrebbe mitigare il rischio di esposizione ai diversi CoV, e più in generale ai virus associati alla fauna selvatica, migliorando la convivenza tra l’uomo e gli animali domestici e selvatici.

 

Fonte: IZS Venezie




La Sanità Pubblica Veterinaria alla Leopolda Salute

Si terrà il 21 ottobre alla Leopolda Salute a Firenze l’incontro “Ecosistema, Benessere animale, Salute del Pianeta: la Sanità Pubblica Veterinaria nel XXI Secolo”

Nella seconda metà del XX secolo, la Sanità Pubblica Veterinaria ha dato un considerevole impulso, concettuale e operativo, alla nascita e sviluppo del Servizio Sanitario Nazionale: un ragguardevole risultato, fra i tanti, è che la salute e benessere animali e la sicurezza degli alimenti sono parte integrante delle competenze sanitarie, in un’ottica che anticipa quella dell’approccio One Health – Salute Unica ora tanto di attualità. Eppure, nei primi decenni del secolo attuale, vi sono indizi di una possibile stanchezza e questo proprio quando un vigoroso ed aggiornato contributo veterinario sarebbe per affrontare problemi globali complessi, quali la globalizzazione -anzi, planetarizzazione- delle questioni di salute, le ricorrenti epidemie di origine zoonotica, l’antimicrobico-resistenza, la tutela della sicurezza degli alimenti e insieme della sostenibilità delle produzioni, l’impatto dei fattori ecosistemici (clima, biodiversità, inquinamento…) sulle popolazioni animali domestiche e non, e quindi -anche e inevitabilmente- sulla salute umana.

Intendiamo, però, avere un approccio positivo: Quali le sfide principali? In che direzioni e come aggiornare e potenziare la formazione, la collaborazione transdisciplinare, la cooperazione internazionale?

Per un ragionamento articolato a più voci, chiamiamo le voci degli enti del servizio sanitario nazionale, del mondo universitario e di enti internazionali (EFSA, FAO, OMS-WHO) fortemente coinvolti e attivi nello sviluppo dell’approccio One Health.

Moderano Aldo Grasselli, Segretario Nazionale SIVeMP e Presidente Onorario della SIMeVeP e Alberto Mantovani, Presidente Centro Studi KOS – Scienza Arte Società

Il programma




Nuovi strumenti per rilevare l’influenza aviare

L’influenza aviaria A (H5N1) è una malattia degli uccelli altamente contagiosa che ha già infettato milioni di uccelli e ora appare in alcuni mammiferi.

Si sta diffondendo rapidamente in tutto il mondo, portando a abbattimenti di massa di polli/galline negli allevamenti avicoli a causa della sua natura altamente contagiosa e mortale.

La preoccupazione per la diffusione di questo virus è legata al fatto che attraversare la barriera di specie e infettare i mammiferi, tra cui bovini, gatti e esseri umani. Sebbene non si sia in grado di diffondersi diffuso tra gli esseri umani, la sua capacità di infettare i mammiferi solleva problemi di salute pubblica e chiede un maggiore monitoraggio.

L’influenza aviaria ad alta patogenicità, nota anche come “aviaria” è senza dubbio quindi un problema sanitario a livello mondiale. La conoscenza della diffusione del virus e la sua rapida identificazione sono essenziali per controllare la malattia.

Oggi nuovi e accurati test possono rilevare il virus in modo molto specifico. Questi test sviluppati dal JRC (Joint Research Center) possono monitorare la diffusione del virus in varie tipologie di campioni, comprese le acque reflue.

Uno studio congiunto di vari enti a livello europeo ha sviluppato due saggi digitali RT-PCR, uno in grado di rilevare specificamente l’influenza ad alta patogenicità A (H5Nx) clade 2.3.4.4b, virus noti per la diffusione in tutto il mondo e il secondo in grado di rilevare una gamma più ampia di virus dell’influenza A, compresa l’influenza stagionale. Possono essere utilizzati separatamente o in combinazione come approccio diagnostico singolo (saggio duplex).

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Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Prima è arrivata la carne coltivata in laboratorio, ora è il turno del pesce

Lontano dalla costa, nella pittoresca città universitaria belga di Lovanio, una start-up scommette di poter portare il pesce coltivato in laboratorio sulle tavole degli europei entro il 2030. Nella città portuale tedesca di Amburgo, un’altra start-up si prepara a spedire caviale coltivato in laboratorio a Singapore entro pochi mesi.

Nel 2024, la carne prodotta in vitro coltivando cellule animali ha fatto notizia a Bruxelles dopo che un’azienda ha chiesto l’approvazione dell’UE per un foie gras coltivato in laboratorio, la prima richiesta di questo tipo nell’Unione. Un’altra è seguita lo scorso gennaio.

Alcune start-up europee sperano che il pesce sia la prossima conquista.

“Se lo cerchi su Google… trovi sempre questa capsula di Petri con dentro un filetto. Noi non facciamo così. Non lasciamo crescere un filetto vero e proprio, ma lasciamo crescere le cellule”, ha detto Cornelius Lahme, direttore marketing della start-up tedesca Bluu, fondata nel 2020.

“Le cellule devono sentirsi come se [vivessero] nel corpo del salmone atlantico, per esempio, e poi iniziano a dividersi”, ha aggiunto.

Gli scienziati di Bluu creano una massa di milioni di cellule pronte per essere miscelate con ingredienti vegetali per imitare prelibatezze come il caviale, che intendono lanciare l’anno prossimo a Singapore, centro globale per l’innovazione alimentare.

A differenza delle solite versioni vegetali dei prodotti animali, i pionieri del pesce e della carne coltivata sono orgogliosi di portare avanti il gioco dell’imitazione.

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Fonte: euractiv.it




Nuovi studi sul deterioramento della carne

Un’analisi dei recenti progressi delle strategie emergenti in tempo reale e non distruttive per il monitoraggio della qualità del prodotto e una revisione critica delle conoscenze finora acquisite, anche con l’obiettivo di diminuire gli sprechi.

Il monitoraggio e la valutazione della qualità degli alimenti, in particolare della qualità della carne, hanno ricevuto un crescente interesse per garantire la salute umana e ridurre gli sprechi di materie prime. Gli approcci analitici standard utilizzati per la valutazione del deterioramento della carne soffrono di consumo di tempo, alta intensità di manodopera, complessità operativa e distruttività.

Per superare le carenze di questi metodi tradizionali e monitorare i microrganismi deterioranti o i relativi metaboliti dei prodotti a base di carne lungo tutta la catena di approvvigionamento, stanno emergendo dispositivi/sistemi di analisi con maggiore sensibilità, migliore portabilità, proprietà online/in linea, non distruttive ed economicamente vantaggiose sono urgentemente necessari.

In questo articolo, vengono innanzitutto descritti i concetti di base, le cause e gli indicatori critici di monitoraggio associati al deterioramento della carne.

Successivamente, i metodi convenzionali di rilevamento del deterioramento della carne vengono delineati oggettivamente nei loro punti di forza e di debolezza. Inoltre, è posta l’attenzione sui recenti progressi della ricerca sui dispositivi e sistemi non distruttivi emergenti per la valutazione del deterioramento della carne.

Queste nuove strategie dimostrano il loro potente potenziale nella valutazione in tempo reale del deterioramento della carne.

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Fonte: alimentinews.it