La SIMeVeP partner della USL Umbria 2- Convegno “Il cibo che unisce: recupero e ridistribuzione alimentare per la solidarietà verso una comunità antispreco”

Lotta Spreco AlimentareSi terrà l’ 8 luglio 2025 il corso dal titolo “IL CIBO CHE UNISCE: RECUPERO E RIDISTRIBUZIONE ALIMENTARE PER LA SOLIDARIETÀ VERSO UNA COMUNITÀ ANTISPRECO” presso
la Sala Consiliare del Palazzo Comunale di Spoleto (PG).

La SIMeVeP è Partner dell’evento e co-organizzatore. Il Presidente dott. Antonio Sorice farà un intervento sul ruolo dei Dipartimenti di Prevenzione nel contrasto allo spreco alimentare.

Programma corso




Aflatossine: le nuove linee guida del Ministero della Salute per mangimifici e filiera lattiero-casearia

Il Ministero della Salute ha revisionato le linee guida per prevenire e gestire il rischio contaminazione da aflatossine nella filiera lattiero-casearia e nella produzione del mais destinato all’alimentazione umana e animale (QUI). La prima versione del documento era stata divulgata durante l’emergenza del 2013, quando, a seguito delle condizioni climatiche estreme,  si era resa necessaria la definizione di procedure operative straordinarie.

La decisione di operare questo riesame è stata presa considerando che attualmente, a seguito dei cambiamenti climatici in atto, si assiste ad una maggiore variabilità annuale e regionale delle contaminazioni da micotossine sia a livello nazionale che europeo, e pertanto la contaminazione delle produzioni agricole non può più essere gestita come un evento eccezionale o emergenziale con procedure straordinarie, ma deve essere gestita in modo programmato attraverso il sistema di autocontrollo degli Operatori. Fin qui nessuna grande novità, dato che, con il Regolamento 178/2002 e 852/2004 dopo, già era stata attribuita agli operatori la responsabilità di implementare nel loro processo produttivo un sistema a garanzia della sicurezza degli alimenti immessi sul mercato.

La novità risiede, quindi, unicamente nella volontà di uniformare il comportamento degli operatori affinché dispongano di uno schema di intervento di riferimento da adattare alle diverse realtà produttive e territoriali, e contribuiscano al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza alimentare stabiliti a livello europeo.

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Fonte: Ruminantia




Scrapie negli ovini: quando due semplici segni clinici possono migliorarne la diagnosi precoce

Nel panorama delle malattie neurodegenerative del bestiame, la scrapie rappresenta da tempo una delle principali sfide diagnostiche per medici veterinari e allevatori. In assenza di test ante mortem affidabili e facilmente applicabili in campo, la diagnosi clinica resta ad oggi il primo e spesso unico strumento per sospettare una Encefalopatia Spongiforme Trasmissibile (TSE) negli ovini. Un nuovo studio pubblicato a maggio 2025 su Animals da Konold e Phelan ha analizzato 1002 pecore per valutare l’efficacia di un protocollo clinico rapido, identificando due segni fondamentali per l’individuazione precoce della malattia.

Un campione rappresentativo: diagnosi su scala ampia e diversificata

Lo studio ha incluso pecore di diverse razze, età e genotipi PRNP, esposte naturalmente o infettate sperimentalmente con scrapie classicascrapie atipica o encefalopatia spongiforme bovina (BSE). Di queste, 312 animali sono risultati positivi a una TSE tramite esame post mortem del cervello.

La valutazione clinica si è basata su un protocollo breve che include nove categorie di segni: postura, comportamento, risposta alla minaccia (menace response), risposta al graffio, risposta alla bendatura, perdita di lana e lesioni cutanee, condizione corporea, incoordinazione e tremore.

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Fonte: Ruminantia




La Calabria vince la battaglia contro il coleottero Aethina tumida: un decennio di ricerca e innovazione per salvare le api

ape

Dopo dieci anni di lavoro incessante, studi scientifici all’avanguardia e una rete di collaborazioni internazionali, l’Italia celebra un importante successo nella gestione dell’invasione del coleottero Aethina tumida, una specie aliena che minacciava seriamente il patrimonio apistico nazionale. Un ruolo chiave in questa battaglia è stato giocato dalla sezione calabrese dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno, con sede a Reggio Calabria, dove è stato recentemente costruito un insettario sperimentale dedicato allo studio approfondito di questo pericoloso parassita.
Il caso della Calabria si distingue come un modello esemplare di gestione delle specie invasive, grazie a un mix vincente di prevenzione, monitoraggio rigoroso, interventi tempestivi e ricerca scientifica d’eccellenza. La notizia arriva direttamente dal prestigioso Journal of Management of Biological Invasions, che ha pubblicato uno studio dettagliato firmato da Giovanni Federico, Franco Mutinelli, Peter Neumann e colleghi (2025), frutto di una collaborazione tra istituzioni italiane ed europee.

La sfida del piccolo ma dannoso coleottero

Aethina tumida, comunemente noto come “piccolo coleottero dell’alveare” , è un insetto originario dell’Africa sub-sahariana che, fin dal 1996, ha invaso tutti i continenti abitati causando gravi danni alle colonie di api mellifere. Il suo arrivo in Europa è avvenuto nel settembre 2014, quando è stato rilevato per la prima volta in Calabria, precisamente nella piana di Gioia Tauro, vicino a un porto internazionale. Da qui, il coleottero ha trovato terreno fertile per espandersi, raggiungendo anche la Sicilia poche settimane dopo.
Ma la risposta italiana non si è fatta attendere. Le autorità competenti hanno immediatamente attivato un piano di sorveglianza intensiva, compresa la distruzione degli apiari  infestati, l’istituzione di zone di protezione e sorveglianza e il monitoraggio costante attraverso nuclei sentinella. Oggi, a dieci anni di distanza, l’effetto delle attività poste in essere è chiaro: l’invasione è stata contenuta e il coleottero rimane confinato in un’area limitata della Calabria, senza ulteriori diffusioni. Si tratta di un “unicum” nella dinamica di diffusione del coleottero alloctono.

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Fonte: IZS Mezzogiorno




Controllo sostenibile dei parassiti nei ruminanti: con il progetto SPARC sviluppati 28 protocolli sperimentali

Per facilitare l’adozione in campo delle strategie di controllo sostenibile dei parassiti (Sustainable Worm Control – SWC), è fondamentale comprendere aspettative e bisogni, nonché ostacoli e fattori che incentivano il cambiamento delle pratiche. Per questo motivo, nel 2024 e nel 2025, i partner del progetto SPARC hanno condotto interviste, focus group e sondaggi online coinvolgendo oltre 1000 stakeholder (allevatori, veterinari, consulenti aziendali, tecnici e ricercatori). Sulla base dei risultati, una serie di pratiche SWC sono attualmente in fase di implementazione in oltre 300 allevamenti pilota in tutta Europa.

Valutazione dei bisogni di allevatori, veterinari e consulenti aziendali per il controllo sostenibile dei parassiti

In base alle 300 interviste effettuate in campo, gli allevatori, i veterinari e i consulenti aziendali riportano casi di resistenza ai farmaci antielmintici in tutti i ruminanti in Europa, in particolare negli ovini e nei caprini. L’adozione di pratiche sostenibili rimane disomogenea a causa di molteplici ostacoli di natura tecnica, economica e sociale. Il trattamento (farmacologico) rimane la priorità, ma la gestione dei pascoli, l’uso di prodotti naturali ad azione antielmintica e il monitoraggio parassitologico sono sempre più in crescita. Gli operatori del settore attendono guide sulle buone pratiche, strumenti per la gestione dei trattamenti antielmintici e del pascolo e corsi di formazione brevi, chiari e orientati alla pratica.

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Fonte: Ruminantia




Oltre 66 tonnellate di Tonno Rosso recuperate e donate

spreco risorsa

Nei primi sei mesi del 2025 sono già 10.163 i chilogrammi di Tonno Rosso sequestrati e destinati alla donazione dal Dipartimento di Prevenzione Veterinaria dell’Asp di Catania, nell’ambito dei progetti “Cuore Generoso” e “Ri-Pescato”, realizzati in collaborazione con il Banco Alimentare e il Mercato Agro-Alimentare Sicilia (MAAS), con il supporto delle Istituzioni territoriali e di enti caritativi e del Terzo Settore.
Le due iniziative perseguono un obiettivo comune: trasformare lo spreco in risorsa, riducendo l’invenduto alimentare – in particolare dei prodotti ittici – e restituendolo alla collettività attraverso canali organizzati di beneficienza e promozione umana.

Un modello virtuoso che, dal 2022, ha permesso la donazione di oltre 62.000 kg di Tonno Rosso, una specie di alto valore nutrizionale, spesso oggetto di sequestro da parte della Capitaneria di Porto e della Guardia di Finanza Navale.

Il Dipartimento di Prevenzione Veterinaria dell’Asp di Catania in questo processo svolge un ruolo centrale: valuta la commestibilità dei prodotti sequestrati mediante un accurato esame ispettivo e analisi di laboratorio, in particolare per la rilevazione dell’istamina (effettuati dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia), una sostanza potenzialmente pericolosa che può svilupparsi se non viene rispettata la catena del freddo. Solo gli alimenti che superano questi controlli possono essere dichiarati idonei alla donazione.

I NUMERI DEL PROGETTO
Dal 2022 a oggi sono state recuperate e donate oltre 66 tonnellate di Tonno Rosso, così distribuite: 17.069 kg nel 2022, 17.644 kg nel 2023, 21.500 kg nel 2024, 10.163 kg (dato parziale) nel 2025.

«Il nostro Dipartimento di Prevenzione Veterinaria – afferma Giuseppe Laganga Senzio, direttore generale dell’Asp di Catania – si conferma tra le eccellenze sanitarie regionali, capace di governare fenomeni complessi e di erogare servizi di alta qualità in risposta a una domanda sempre più articolata. Il Dipartimento opera lungo l’intera filiera alimentare attraverso attività di vigilanza, controllo e ispezione. Un impegno che si realizza anche in collaborazione con le Forze dell’Ordine, contribuendo al contrasto delle pratiche illecite. Con progetti come “Cuore Generoso” e “Ri-Pescato” affermiamo anche un ruolo sociale, promuovendo una cultura della legalità, della sostenibilità e del rispetto per le risorse».

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Fonte: ASP Catania




Effetti biologici delle radiazioni: Siamo prossimi ad una nuova catastrofe?

A fronte degli 80 anni oramai trascorsi dal lancio dei primi ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cui hanno fatto seguito i due gravi incidenti rispettivamente occorsi nel 1986 e nel 2011 alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, nonché a quella nipponica di Fukushima, incombe ancora sull’intera umanità lo spettro di una o più “fughe radioattive” derivanti dai reiterati bombardamenti russi sulla centrale ucraina di Zaporizhzhia, oltre a quelli effettuati in questi giorni dall’aviazione militare israeliana e statunitense sulle centrali e sugli impianti di arricchimento dell’uranio siti in Iran.

In un siffatto contesto, incredibilmente dimentico delle sonore lezioni che la storia degli ultimi 80 anni ci ha consegnato, appare oltremodo giustificata una sintetica rassegna sui danni biologici provocati dalle radiazioni, già peraltro supportati da una pressoché monumentale letteratura scientifica.

Premesso che le radiazioni possono essere classificate in vario modo, sulla base della loro natura (radiazioni corpuscolate ed elettromagnetiche), intensità e lunghezza d’onda (radiazioni eccitanti e ionizzanti) e premesso, altresì, che i succitati danni si realizzerebbero con modalità sovrapponibili sia nell’uomo che negli animali, sarebbe necessario operare, in primis, una debita distinzione fra danni acuti e danni cronici.

I primi risulterebbero ascrivibili e simili al “danno da calore”, con la comparsa di più o meno estese ustioni di grado e d’intensità variabili in relazione al tempo di esposizione e alla distanza dalla fonte di energia radiante (Altucci et al., 2019).

Ben piu’ articolato e complesso si fa il ragionamento, di contro, allorquando ci si addentri nella disamina degli effetti “a lungo termine” delle radiazioni, ove una prima fondamentale distinzione attiene agli effetti “diretti” arrecati alle principali macromolecole organiche quali i lipidi presenti sulle membrane cellulari (con conseguente formazione di lipoperossidi altamente instabili), unitamente alle proteine (ad attività enzimatica e non), agli zuccheri e, soprattutto, agli acidi nucleici (DNA e RNA), con successiva comparsa di gravi ed estesi fenomeni di denaturazione/degradazione/rottura nonché di mutazioni a carico degli stessi (formazione di dimeri pirimidinici nel caso di radiazioni eccitanti quali le ultraviolette). Analoghi effetti, definiti “indiretti”, si realizzerebbero in virtù del danno primariamente generato dall’interazione delle radiazioni con l’acqua intra- ed extracellulare e dalla sua conseguente dissociazione/rottura (Altucci et al., 2019).

Fra gli oltre 200 citotipi di cui si compone il nostro organismo e, più in generale, quello di tutti gli altri mammiferi terrestri ed acquatici, sarebbero altresì presenti livelli di suscettibilità oltremodo variabili nei confronti del danno “cronico” da radiazioni, cosicché le cellule “costituivamente” caratterizzate da un’intensa attività replicativa (gameti, cellule midollari progenitrici di globuli rossi, leucociti e piastrine, linfociti, cellule dello strato basale dell’epidermide, etc.) risulterebbero ben più sensibili nei confronti degli elementi “stabili” e, soprattutto, rispetto alle cellule “perenni” (quali i neuroni), con conseguente sviluppo di fenomeni di aplasia/ipoplasia (c.d. “castrazione da raggi”) e/o di processi neoplastici (Honjo e Ichinohe, 2025; Lopes et al., 2025).

Ovviamente, poiché ogni organismo si caratterizza come un sistema biologico “dinamico”, esistono tutta una serie di dispositivi atti a fronteggiare i danni prodotti dalle radiazioni – oltre che da molteplici ulteriori “noxae” fisiche, chimiche e biologiche – sulle cellule e sui tessuti che compongono ciascun individuo. Un ruolo di primo attore spetta senza alcun dubbio, in tale ambito, alla proteina p53 (il c.d. “guardiano della cellula”), un fondamentale fattore di trascrizione che nelle cellule di Homo sapiens sapiens e’ codificato da un gene situato sul cromosoma 17 (Altucci et al., 2019). In seguito a un danno a carico del patrimonio genetico, la p53 interviene nella riparazione dello stesso e, ove l’alterazione genomica fosse di entità particolarmente significativa, la p53 opera avviando il ben noto processo dell’ “apoptosi”, alias “morte cellulare programmata”. Purtroppo anche il gene codificante per la p53 non risulterebbe risparmiato dagli eventi mutazionali conseguenti al danno da radiazioni, cosicché ne deriverebbe una proteina mutata, che anziché impartire un ordine/comando di “morte programmata” alla cellula-ospite, indirizzerebbe la stessa verso un percorso di trasformazione neoplastica. Ciò costituisce, invero, la principale motivazione per la quale la p53 “mutata” si caratterizzerebbe a sua volta come una “firma molecolare” precoce in grado di delineare l’avvio di un percorso di “instabilità genetica progressiva” culminante nella trasformazione tumorale (Altucci et al., 2019).

A conclusione di questa sintetica rassegna sui principali effetti biologici esplicati dalle radiazioni, a supporto dei quali è disponibile una produzione bibliografica oltremodo significativa sia per qualità che per quantità, ivi compresi una serie di studi svolti su modelli animali particolarmente innovativi (Honjo e Ichinohe, 2025), ritengo doveroso sottolineare, anche e soprattutto a fronte dell’assenza di confini geografici che gli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima hanno chiaramente evidenziato, la necessità di un approccio “One Health” nella gestione e, nondimeno, nella prevenzione di siffatte catastrofi, tanto piu’ alla luce delle incombenti minacce rappresentate dai teatri bellici ucraino e iraniano.

Historia magistra vitae!

 

Bibliografia

Altucci L, Berton G, Stivala LA, Moncharmont B. (2019). Patologia Generale, Volume 1, Idelson-Gnocchi Editore.

Honjo Y, Ichinohe T. (2025). Neural crest cells are sensitive to radiation-induced DNA damage. Tissue Cell 94:102774.

DOI: 10.1016/j.tice.2025.102774.

Lopes R, Teles P, Santos J. (2025). A systematic review on the occupational health impacts of ionising radiation exposure among healthcare professionals. J. Radiol. Prot. 45(2).

DOI: 10.1088/1361-6498/added2.

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Centro di Collaborazione WOAH dell’IZSLT confermato per il quinquennio 2025 – 2030

L’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (WOAH) ha rinnovato per altri cinque anni, dal 2025 al 2030, la designazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri” (IZSLT) come Centro di Collaborazione sulle Good Beekeeping Management Practices and Biosecurity Measures in the Apiculture Sector.

In una lettera firmata dalla dr.ssa Montserrat Arroyo, vice-direttrice generale WOAH per gli International Standards and Science, la Commissione degli Standard Biologici «ha esaminato con grande apprezzamento il rapporto di autovalutazione 2020-2025, riconoscendo i significativi progressi compiuti negli ultimi cinque anni» e rilevando che «la maggior parte degli obiettivi iniziali è stata raggiunta con successo». Il documento sottolinea inoltre il ruolo chiave del Centro nel sostenere la missione della WOAH di migliorare, su scala globale, la salute e il benessere animale, apprezzandone «dedizione, competenza e spirito di collaborazione».

«Il rinnovo della collaborazione WOAH è insieme un riconoscimento e un impegno», commenta il Commissario Straordinario dell’IZSLT, dr. Stefano Palomba. «Premia la qualità scientifica del nostro Istituto nel settore apistico, ma soprattutto ci sprona a investire ancora di più in ricerca, formazione nel piano della cooperazione internazionale per proteggere la salute delle api e, con essa, la sicurezza delle filiere agro-alimentari»

Per l’IZSLT questo risultato consolida una leadership maturata negli anni grazie a progetti di ricerca applicata, formazione tecnica e assistenza sul campo alle imprese apistiche. Il nuovo mandato quinquennale consentirà di:

  • ampliare le attività di sorveglianza e prevenzione delle patologie apiarie;
  • sviluppare ulteriori linee guida su biosicurezza e buone pratiche di allevamento;
  • rafforzare la cooperazione con gli altri Centri di Collaborazione e Reference Centre WOAH in una prospettiva One Health.

«Proseguiremo a lavorare fianco a fianco con il Ministero della Salute, le Regioni e gli stakeholder internazionali», conclude Palomba, «perché garantire l’efficienza degli alveari significa tutelare biodiversità, agricoltura e sicurezza alimentare: tre pilastri essenziali per il futuro dei sistemi produttivi e ambientali».

Fonte: IZS Lazio e Toscana



Organoidi di pipistrello: un nuovo modello per studiare i virus zoonotici

Per la prima volta una collezione di organoidi derivati da diverse specie di pipistrello permette di isolare nuovi virus, studiare le infezioni e testare farmaci in un unico sistema

Dall’influenza spagnola al COVID-19, sono innumerevoli i virus di origine zoonotica, cioè trasmessi agli esseri umani da una specie diversa dalla nostra: in effetti, si stima che il 75% delle malattia emergenti sia zoonotica. E i pipistrelli sono un importante serbatoio di virus che, come hanno dimostrato epidemie passate, a un certo punto “imparano” a infettare anche gli umani, a volte approfittando di un ospite intermedio.

Eppure, della relazione tra questi virus e i pipistrelli, loro ospiti naturali, sappiamo relativamente poco; e questa mancanza di conoscenze è un ostacolo anche, per esempio, alle valutazioni del rischio di nuovi spillover. In questo contesto, gli animali da laboratorio non possono fornirci molte informazioni, per varie ragioni: questi virus non si replicano bene in specie diverse dal pipistrello né, d’altronde, altri animali potrebbero replicare le caratteristiche immunitarie uniche degli unici mammiferi in grado di volare. Infine, i pipistrelli non possono essere allevati in laboratorio. I vincoli sono sia etici sia logistici, perché si tratta di animali notturni, volatori, di lunga vita e con esigenze ambientali specifiche, quindi difficili da mantenere e studiare in modo sistematico.

Come saperne di più, allora, sulla relazione tra i pipistrelli e i molteplici virus che li possono infettare? Come ottenere un modello sperimentale realistico?

Un nuovo studio, da poco pubblicato su Science, mostra quanto preziose possano essere le New Approach Methodologies (NAM), quelle a volte chiamate più genericamente “metodi alternativi”: il nuovo lavoro, guidato dall’Institute for Basic Science (IBS) coreano, ha infatti creato per la prima volta una collezione diversificata di organoidi di pipistrello, derivati da cinque specie (insettivori dell’Asia orientale) e da quattro tipi di tessuti (trachea, polmone, rene e intestino tenue).

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Fonte: research4life.it




Se il commercio globale si fermasse, il vostro paese riuscirebbe ad alimentarvi?

Le politiche fragili, i conflitti in corso, i dazi doganali e l’emergenza climatica mettono a rischio le reti commerciali e rendono i paesi vulnerabili agli shock di mercato; di conseguenza, questi ultimi stanno dando priorità all’autosufficienza e alla sicurezza alimentare. Ma cosa succederebbe se il commercio si interrompesse bruscamente per una di queste ragioni? Il vostro paese è completamente autosufficiente e in grado di provvedere in maniera completa al fabbisogno alimentare della sua popolazione? Per rispondere a questa domanda, una squadra di ricercatori dell’Università di Göttingen in Germania e dell’Università di Edimburgo nel Regno Unito ha analizzato i dati sulla produzione alimentare relativi a 186 diverse nazioni, pubblicando successivamente i propri risultati sulla rivista «Nature Food».

Al di sopra degli altri

La Guyana, un piccolo paese del Sud America con una popolazione di circa 800 000 abitanti, è risultata l’unica nazione autosufficiente in tutti e sette i gruppi alimentari essenziali, ovvero cereali, legumi (ad esempio fagioli, piselli, lenticchie e ceci), frutta, verdura, latte, carne e pesce, essendo in grado di produrre da sola tutte le principali categorie di alimenti. Seguono Cina e Vietnam, che producono cibo a sufficienza in sei dei sette gruppi su cui si è concentrato il team di ricerca. Tre paesi su cinque non hanno prodotto abbastanza cibo all’interno dei propri confini in almeno quattro gruppi su sette, mentre circa un paese su sette, soprattutto in Europa e in Sud America, era autosufficiente in cinque o più gruppi. Il dato preoccupante è che un terzo delle nazioni analizzate è in grado di produrre solo due o meno gruppi di alimenti: 25 sono in Africa, 10 nei Caraibi e 7 in Europa. Sei Paesi, soprattutto in Medio Oriente, non producevano a sufficienza in un solo gruppo di alimenti per il proprio fabbisogno.

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Fonte: Commissione Europea