Microplastiche nella fauna selvatica. La scoperta delle Università di Padova e Pretoria

microplasticheLe microplastiche hanno raggiunto anche gli ecosistemi più remoti. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Università di Pretoria ha individuato frammenti di nylon e altri polimeri sintetici nei polmoni e nel sangue di animali selvatici prelevati in riserve naturali del Sudafrica, zone finora considerate incontaminate. Lo studio è stato presentato al Sardinia Symposium 2025, il convegno mondiale sulla gestione dei rifiuti e sull’economia circolare, e ha sollevato un forte allarme sulla diffusione globale di questi inquinanti invisibili e sui rischi per la salute degli animali e dell’uomo.

Il lavoro, Presence and characterisation of microplastics in wildlife organs across diverse South African ecosystems, firmato da Carlo Andrea CossuValentina PoliLucio Litti e Maria Cristina Lavagnolo, ha rivelato una concentrazione significativa di nylon, un polimero tipicamente derivante da tessuti e packaging di uso comune.

“Anche il turismo e le attività umane nelle aree circostanti contribuiscono alla contaminazione di ecosistemi apparentemente remoti”, spiegano i ricercatori. “La plastica è entrata nei corpi degli animali selvatici, penetrando in organi vitali e dimostrando che nessun ecosistema, nemmeno quelli ‘immacolati’, è ormai al riparo. Le microplastiche – continuano – frammenti inferiori a 5 millimetri, rilasciano additivi tossici e trasportano sostanze chimiche persistenti, con potenziali effetti sulla salute degli animali e la catena alimentare”.

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Fonte: vet33




Accertamento di Trichinella spp. in cinghiale cacciato in provincia di Latina

cinghialiÈ stato individuato il primo caso della stagione venatoria 2025-2026 di Trichinella spp. in un cinghiale abbattuto nel corso di una battuta a squadra nella Foresta San Marco di Campodimele (LT), su un gruppo di sei capi sottoposti ai controlli di routine.
Il prelievo del campione da sottoporre a prova è stato eseguito da cacciatori opportunamente formati su mandato dell’Ambito Territoriale di Caccia LT2, sotto il controllo dell’Autorità Competente della ASL di Latina.
Data prelievo del campione: 04/10/2025.
Comunicazione degli esiti all’Autorità Competente: 08/10/2025.

L’accertamento è stato eseguito presso i laboratori della UOT Lazio Sud – Sezione di Latina dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana “M. Aleandri”, nell’ambito dell’attività di sorveglianza ufficiale obbligatoria. Le larve rilevate nel campione positivo saranno inviate all’European Union Reference Laboratory for Parasites presso l’Istituto Superiore di Sanità per l’identificazione di specie.

L’esame per la ricerca di Trichinella spp. è obbligatorio per tutti i cinghiali destinati al consumo umano, sia privato sia commerciale e rappresenta uno strumento essenziale per garantire la sicurezza alimentare e la prevenzione delle zoonosi. La Trichinella è un parassita trasmissibile all’uomo attraverso il consumo di carne cruda o poco cotta proveniente da animali parassitati appartenenti alle specie di suidi ed equidi sia domestici sia selvatici non sottoposti a controllo.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




L’alimentazione del futuro: 300 ricercatori del CNR nel progetto NUTRAGE

pesticidiArricchire le materie prime con micro e macro nutrienti, sviluppare metodi di lavorazione innovativi, aprire un canale di dialogo diretto con i consumatori, tutto questo senza mai dimenticare la sostenibilità e la lotta agli sprechi alimentari. Questi sono solo alcuni degli obiettivi del progetto NUTRAGE che ha coinvolto, oltre 300 ricercatori del CNR in diversi ambiti disciplinari della scienza. «L’orizzonte del progetto NUTRAGE – spiega il responsabile scientifico Angelo Santino – è creare cibi più ricchi di macro e micronutrienti e più salutari; sviluppare tecniche di lavorazione che rendano questi stessi nutrienti più disponibili e intervenire sui processi industriali per avere filiere più sane e più sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico».

«Il contesto nel quale ci muoviamo è duplice: da una parte l’alimentazione e gli stili di vita sono il primo fattore ambientale che determina la nostra possibilità di invecchiare in salute. Dall’altro, aumentano gli anni di vita ma anche quelli che viviamo da ammalati: la crescita dell’aspettativa di vita spesso non si accompagna ad una crescita dell’aspettativa di vita senza malattia. Una delle chiavi più efficaci in nostro possesso per ridurre questo gap è l’alimentazione». La conferenza finale del progetto NUTRAGE è prevista presso l’Aula Magna del Centro di Biotecnologie dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” nei giorni 5 e 6 novembre 2025. Ecco alcune anteprime degli oltre 100 paper conclusivi sui progetti più impattanti.

Partire dalla terra per cambiare il cibo

Una linea di ricerca si è concentrata sulle tecniche genetiche per migliorare ortofrutta, cereali e legumi. «Finora questi interventi si erano concentrati sull’aumento dell’apporto calorico. La ricerca del CNR punta a selezionare alimenti arricchiti in specifiche classi di micronutrienti necessari alla salute e sviluppare processi di coltivazione sostenibile dal punto di vista ambientale. Lo scopo è far sì che tutte le famiglie abbiano accesso ai cibi più salutari».

Metodi di trasformazione che mantengano inalterate le proprietà chimiche dei prodotti freschi

«Una delle sfide di NUTRAGE è individuare processi di lavorazione che permettano ai cibi lavorati di mantenere la maggior parte delle qualità dei prodotti freschi. O, addirittura, di migliorarle. Ad esempio, alcuni metodi di fermentazione si stanno dimostrando estremamente efficaci non solo nello stabilizzare (conservare) gli alimenti, ma anche nell’accentuare la bioattività di alcuni composti».

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Fonte: beesanitamagazine.it




Il pesce coltivato tra sfide e opportunità per l’industria ittica

La continua crescita demografica con le previsioni di 9 miliardi di persone nel 2050 sta aumentando ed aumenterà la domanda nutrizionale di proteine con il rischio di mettere a dura prova le risorse mondiali.  Gli attuali sistemi alimentari sono in difficoltà in termini di sostenibilità soprattutto per quanto riguarda le fonti proteiche.  Non fa eccezione l’acquacoltura che sta diventando un settore sempre più cruciale per far fronte alla crescente domanda globale di prodotti ittici ponendo una serie di sfide legate alla pressione sulle risorse marine selvatiche e alla promozione di pratiche sostenibili. Va anche detto però che l’acquacoltura tradizionale sta adottando sempre più pratiche e tecnologie innovative per migliorare la sostenibilità e l’efficienza.

Tra queste ci sono lo sviluppo di mangimi alternativi come, ad esempio, a base di alghe o insetti, per diminuire la dipendenza dalle farine di pesce e ridurre la pressione sulle risorse marine. Si studiano anche i sistemi a ricircolo dell’acqua (RAS): questi sistemi permettono di allevare pesci in ambienti chiusi e controllati consentendo di ridurre il consumo di acqua e l’impatto ambientale grazie al riciclo e alla purificazione. Con l’acquacoltura offshore si esplorano nuove soluzioni per l’allevamento in mare aperto, che offrono spazi più ampi e condizioni ambientali più stabili, minimizzando l’impatto sulle zone costiere. Nel campo della Ricerca e Sviluppo, ci sono numerosi progetti, come quello finanziato dall’UE NewTechAqua, che punta alla diversificazione dell’acquacoltura europea con soluzioni tecnologicamente avanzate e resilienti, combinando ricerca scientifica e collaborazione con l’industria.  Riguardo poi alla tracciabilità della filiera e alla trasparenza delle pratiche di allevamento il settore propone nuove soluzioni per aumentare la fiducia dei consumatori così come l’integrazione del benessere dei pesci d’allevamento nella legislazione e loro equiparazione in parte ad altri animali da allevamento.

Nonostante i benefici che discendono da questo quadro virtuoso, c’è necessità di investire nello sviluppo di nuove fonti proteiche, come gli alimenti coltivati ​​in laboratorio per aumentare la sostenibilità del settore della carne e ittico.  La maggior parte di questi sforzi sostenuti da oltre un decennio da start-up, gruppi di ricerca ed organizzazioni, si sono concentrati sulla carne coltivata, prodotti di fermentazione e proteine vegetali trascurando l’emergente industria ittica coltivata.  Probabilmente, i prodotti ittici hanno un impatto maggiore sulla disponibilità e sulla sostenibilità delle proteine ​​e dovrebbero essere una priorità.  Per il settore nascente del pesce coltivato (cultivated fish or cell-based seafood) ci sono diverse barriere tecniche tra cui la mancanza di linee cellulari consolidate e di un terreno di coltura cellulare specializzato, accessibile e sostenibile. Inoltre, l’applicazione di questa tecnologia al pari della carne coltivata è difficile a causa della percezione del pubblico, di considerazioni etiche, di ostacoli legati al gusto e alla sicurezza alimentare.

Tra le aziende più innovative che hanno investito nel pesce coltivato in laboratorio senza la necessità di allevare l’intero animale ci sono la statunitense Wildtype e la tedesca Bluu Seafood. Uno degli sviluppi più significativi è l’approvazione della Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti per la vendita e somministrazione del primo salmone coltivato al mondo. L’azienda Wildtype, che ha sede a San Francisco supportata da investitori di alto profilo come Robert Downey Jr., Leonardo Di Caprio e Jeff Bezos, ha ottenuto il via libera dopo un processo di revisione durato tre anni. Il salmone coltivato è già in menu in alcuni ristoranti di Portland, Oregon, e si prevede un’espansione nel settore della ristorazione e del retail. Questo salmone è stato creato a partire da una singola linea di cellule staminali e coltivato in bioreattori, senza la necessità di prelievi continui da salmoni vivi unendosi quindi ai prodotti a base di carne coltivata di UPSIDE Foods e della divisione GOOD Meat di Eat Just come terzo prodotto proteico coltivato ad entrare nel mercato statunitense. Anche l’Europa si sta muovendo in questa direzione. Bluu Seafood ha inaugurato il primo impianto pilota europeo per la produzione di pesce a base di cellule su larga scala ad Amburgo, in Germania. L’obiettivo è produrre cellule di muscolo, grasso e tessuto connettivo di salmone atlantico e trota iridea in quantità sempre maggiori, con l’ambizione di commercializzare prodotti come bastoncini, polpette o caviale di pesce privi di OGM, metalli pesanti e microplastiche.Il think tank Good Food Institute Europe stima che il mercato globale potrebbe raggiungere un valore di 510 miliardi di euro entro il 2050

La start up belga Fishway sta aprendo la strada per la commercializzazione di orate, spigole (non richiedenti basse temperature come il salmone) e caviale cellulare, scommettendo di arrivare sul mercato nel 2030.

Le linee cellulari per la produzione di pesce coltivato, a differenza di quelle per i mammiferi, sono state oggetto di studi molto limitati; pertanto, necessitano di approfondimenti accurati; ad oggi si possono considerare i seguenti fattori a favore del prodotto ittico coltivato dal punto di vista economico e di impatto ambientale:

  • temperatura di coltivazione: mentre le cellule dei mammiferi necessitano di una temperatura di 37 °C invece quelle dei pesci possono crescere a temperatura ambiente consentendo quindi un risparmio energetico non indifferente;
  • presenza di ossigeno: a differenza delle linee cellulari per mammiferi, quelle dei pesci sopportono l’ipossia;
  • pH: le linee cellulari dei pesci tollerano un ampio range di pH consentendo una crescita cellulare più fattibile.

L’impiego, inoltre, di chitosano ricavato dai crostacei, come elemento principale degli “scaffold”, promette davvero degli ottimi risultati.

Il muscolo del pesce, in natura, si distingue essenzialmente in tre tipologie (a seconda della specie e del tipo di alimentazione): rosso, bianco e rosa. Il rosso è altamente vascolarizzato ed è composto da fibre a contrazione lenta con un’alta densità di mitocondri (Johnston, 2001), si basa su percorsi metabolici aerobici. I muscoli bianchi sono a contrazione rapida, con una alta densità di miofibrille e sono capaci di impiegare principalmente percorsi metabolici anaerobici.Il muscolo rosa condivide le caratteristiche di entrambi. Queste varietà offrono una gamma di opzioni nella progettazione di sistemi di conlivazione chiusi per la produzione di frutti di mare a base cellulare. (N. Rubio et al., Cell-Based Fish: A Novel Approach to Seafood Production and an Opportunity for Cellular Agriculture”2019)

L’obiettivo è ottenere prodotti con lo stesso valore nutrizionale e le stesse caratteristiche organolettiche del pesce tradizionale, ma assicurando l’assenza di contaminanti chimici e fisici come i metalli pesanti, microplastiche e allergeni e microbiologici. Le previsioni indicano una potenziale commercializzazione in alcuni mercati (come Singapore) già nei prossimi 2-3 anni, con l’Europa che potrebbe seguire, sebbene con standard di sicurezza più stringenti (EFSA) e con il divieto italiano attuale sulla carne coltivata che pone interrogativi anche per il pesce.

Il processo di produzione del pesce coltivato

Per la produzione di pesce coltivato vengono utilizzate principalmente le cellule staminali non specializzate, “cellule immortali naturali” che, a differenza di quelle dei mammiferi possono dividersi all’infinito senza perdere qualità e che hanno la capacità di auto-rinnovarsi e di differenziarsi in diversi tipi cellulari. Queste cellule vengono prelevate da un pesce vivo (tramite una biopsia indolore) e poi fatte proliferare e differenziare in laboratorio per formare tessuti muscolari, connettivi e nervosi, simili a quelli del pesce tradizionale. In alternativa si possono utilizzare linee cellulari continue che possono replicarsi indefinitamente in laboratorio. Molte di queste sono di tipo fibroblastico o epiteliale e sono state originate da tessuti di salmonidi e ciprinidi. Ad esempio, la linea cellulare RTG-2 è derivata dalle gonadi della trota arcobaleno. Sono linee cellulari preziose perché possono essere utilizzate per studi e produzioni su larga scala.

Il processo generale prevede il prelievo di queste cellule, la loro coltura in un bioreattore (contenitori simili ai fermentatori usati per la produzione di birra, vino, formaggio e yogurt) in un mezzo nutritivo o terreno costituito da un mezzo basale (es. di glucosio, amminoacidi, sali inorganici e vitamine, senza l’aggiunta di antibiotici e antimicotici e fattori specifici che forniscono tutte le sostanze necessarie per la crescita e la moltiplicazione. Successivamente, le cellule vengono indirizzate a differenziarsi nei tipi di tessuto desiderati (es. muscolo) e, in alcuni casi, possono essere utilizzate con uno scaffold o impalcatura (una struttura di supporto biocompatibile) per dare forma al prodotto finale, o anche con la stampa 3D per creare strutture complesse simili a filetti. Tendenzialmente le cellule tendono ad attaccarsi ai lati delle vasche del bioreattore e per evitare ciò vengono impiegati micro-materiali in grado di trattenere le cellule insieme in sospensione. Il risultato finale è un blocco di pesce di circa 200 g, uniforme, destinato anche alla consumazione cruda come sashimi o ceviche.

Benefici, opportunità e sfide del pesce coltivato

Il pesce coltivato in laboratorio promette un impatto ambientale notevolmente inferiore ma deve affrontare diverse sfide tra cui la riduzione dei costi di produzione per renderlo competitivo con il prodotto ittico convenzionale. Grazie alla continua innovazione tecnologica, il settore è un terreno fertile per lo sviluppo e l’applicazione di nuove tecnologie (bioreattori, sensori, sistemi di intelligenza artificiale per il monitoraggio degli allevamenti) e per la diversificazione dei prodotti con caratteristiche specifiche (es. alto contenuto di omega-3).  La produzione di pesce coltivato potrebbe portare alla creazione di nuovi “prodotti ittici” o surrogati, offrire opportunità di crescita economica, soprattutto nelle aree costiere, e sviluppo occupazionale generando nuovi posti di lavoro qualificati (ricercatori, tecnici di allevamento, esperti in sicurezza alimentare, ecc.).

Riguardo alla sicurezza alimentare, come per ogni processo di produzione alimentare, la sicurezza del pesce coltivato deve essere valutata in relazione a pericoli microbiologici, chimici, di stabilità e di qualità e identità delle linee cellulari, nonché ai rischi associati. Essendo un settore non ancora sviluppato su scala industriale, è caratterizzato da un elevato livello di incertezza, che può essere ridotto attraverso i dati disponibili e studi di valutazione del rischio. Ad ogni modo la tecnologia di automazione del processo di produzione all’interno di bioreattori si basa su sofisticati sistemi di monitoraggio che consentono di rilevare rapidamente tramite sensori fisico-chimici eventuali condizioni sfavorevoli nelle vasche di coltivazione, inclusi batteri patogeni, ma anche residui di ormoni e antibiotici. L’acquacoltura tradizionale se non gestita correttamente, può avere impatti negativi sull’ambiente (inquinamento da scarichi, diffusione di malattie, uso di antibiotici). Il pesce coltivato, se controllato adeguatamente, può offrire un prodotto sicuro e privo di contaminanti (come micro-nanoplastiche e metalli pesanti) che a volte affliggono il pesce selvatico. Riguardo alla regolamentazione necessaria per garantire sicurezza e standard qualitativi, la legislazione in materia di pesce coltivato (soprattutto quello da cellule) è ancora in fase di sviluppo in molti paesi, il che può rallentare la commercializzazione. In Italia, per esempio, è stato introdotto un divieto di produzione e commercializzazione della carne coltivata, e un dibattito simile potrebbe sorgere per il pesce.

In sintesi, il settore del pesce coltivato è in piena evoluzione, con la ricerca che spinge verso soluzioni sempre più innovative e sostenibili e infrastrutture adeguate.  Le opportunità sono molteplici, ma per coglierle appieno sarà fondamentale affrontare le sfide legate all’accettazione dei consumatori, ai costi e alla regolamentazione, garantendo sempre un approccio responsabile e orientato alla sostenibilità. Eventi come AquaFarm 2025 a Pordenone continuano a essere un punto di riferimento per l’innovazione e la sostenibilità nell’acquacoltura, riunendo operatori del settore per discutere le nuove opportunità tra cui il pesce coltivato con le rispettive e le sfide. L’UE sta promuovendo una “Strategia per un’acquacoltura dell’UE più sostenibile e competitiva”, riconoscendo il potenziale di questo settore per la sicurezza alimentare e lo sviluppo economico. Sebbene sia un importatore netto di prodotti ittici, c’è spazio per aumentare la produzione interna e la competitività anche sviluppando il settore del pesce coltivato. Va sottolineato come l’intento dei produttori di prodotto ittico coltivato non sia quello di sostituire le ormai consolidate pratiche di allevamento e tanto meno “far guerra” alla pesca tradizionale ma piuttosto di viaggiare in parallelo, divenendo così una fonte complementare volta a soddisfare un fabbisogno sempre più crescente.

Maurizio Ferri, Coordinatore Scientifico SIMeVeP

Maria Grazia Cofelice, ASL Pescara

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Istat, in aumento chi non accede a pasto proteico ogni 2 giorni

Cresce la quota di chi non può permettersi per motivi economici di consumare un pasto proteico almeno ogni due giorni (il 9,9% nel 2024, era 8,4% nel 2023), in controtendenza rispetto alla media dell’Unione europea.

Lo rileva l’Istat nel rapporto sull’insicurezza alimentare, pubblicato nella Giornata in cui si celebra l’alimentazione e l’agricoltura.

Per l’Istituto di statistica la difficoltà di accesso al cibo risulta maggiore tra i giovani che vivono soli: tra gli under35 che vivono da soli, quasi uno su cinque – emerge dal report Istat – non può permettersi un’alimentazione adeguata (17,8%).

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Fonte: ISTAT




Le api selvatiche minacciate in Europa, aggiornata la Lista Rossa

apePer la prima volta, le api selvatiche sono state ufficialmente classificate come ‘in pericolo’ all’interno dell’Europa: grazie a un grande lavoro di monitoraggio e raccolta dati che ha colmato una lacuna di lunga data, i ricercatori hanno esaminato lo stato di conservazione della specie Apis mellifera in sette paesi europei, stimando un calo medio delle popolazioni selvatiche del 56% in un decennio.

 Questo ha permesso di aggiornare la Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn) anche se, per quanto riguarda la regione europea, i dati rimangono molto carenti per aree come i Balcani, i Paesi Baltici, la Scandinavia e l’Europa orientale.

I ricercatori hanno monitorato, tra il 2013 e il 2025, 698 siti sparsi in Francia, Germania, Lussemburgo, Polonia, Spagna, Svizzera e Regno Unito. Secondo i dati raccolti, l‘Europa ha la più bassa densità del mondo di colonie che vivono libere in natura, dal momento che gli alveari gestiti negli allevamenti superano di gran lunga quelli selvatici, e queste già scarse colonie stanno anche vedendo diminuire i loro abitanti.

Fonte: ANSA



Allarme Oms: un’infezione su sei è ormai resistente agli antibiotici

AntibioticoresistenzaNel 2023 una persona su sei nel mondo ha contratto un’infezione batterica resistente ai trattamenti antibiotici. È quanto emerge dal nuovo rapporto globale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), basato sui dati del sistema di sorveglianza Glass (Global antimicrobial resistance and use surveillance system), che raccoglie informazioni da oltre 100 Paesi.

I risultati mostrano una crescita della resistenza antimicrobica (Amr) del 40% tra il 2018 e il 2023, con un aumento medio annuo compreso tra il 5% e il 15%. Nel mondo, le infezioni causate da otto batteri comuni – Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter, Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Salmonella, Shigella e Neisseria gonorrhoeae – sono quelle più colpite dal fenomeno.

Sud-Est asiatico e Mediterraneo orientale le aree più colpite

La resistenza antimicrobica non colpisce in modo uniforme. Secondo l’Oms, nelle regioni del Sud-Est asiatico e del Mediterraneo orientale un’infezione su tre è ormai resistente agli antibiotici, mentre in Africa il dato è di una su cinque. Le aree più vulnerabili sono anche quelle dove i sistemi sanitari non dispongono di laboratori in grado di identificare i patogeni o di trattarli con farmaci efficaci.

In molti Paesi a basso e medio reddito, i pazienti affetti da infezioni resistenti non solo non ricevono le cure appropriate, ma non hanno nemmeno accesso agli antibiotici di base. «La resistenza antimicrobica sta superando i progressi della medicina moderna, minacciando la salute delle famiglie in tutto il mondo – ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms – Serve un uso responsabile degli antibiotici e un accesso equo a diagnosi e trattamenti di qualità».

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Fonte: ilsole24ore.com




Risultati di quattro generazioni di selezione per il comportamento igienico sensibile alla Varroa nelle api mellifere

La sopravvivenza delle api mellifere, fondamentali per l’impollinazione e la sicurezza alimentare globale, è minacciata da Varroa destructor, un acaro parassita che ha rivoluzionato le sfide dell’apicoltura moderna. Un recente studio esplora l’impatto biologico e produttivo dell’infestazione, le strategie di contenimento attuali e le prospettive offerte dall’allevamento selettivo, con un focus sui comportamenti naturali di resistenza che potrebbero rappresentare la chiave per un’apicoltura più sostenibile. Di seguito l’approfondimento.

 Il settore dell’apicoltura è da tempo confrontato con una grave minaccia biologica: Varroa destructor, un acaro parassita che compromette gravemente la sopravvivenza delle colonie di Apis mellifera in tutto il mondo. Originariamente ectoparassita dell’ape asiatica (Apis cerana), con cui si è coevoluto. V. destructor è passato ad A. mellifera nel XX secolo, diventando rapidamente la principale causa di perdita di colonie nelle regioni temperate. L’acaro si riproduce all’interno delle celle di covata opercolate delle api mellifere e funge da vettore per diversi virus, in particolare il virus delle ali deformate (DWV), rendendolo una delle principali minacce alla salute e alla produttività delle colonie. Gli acari si nutrono del tessuto adiposo delle api in fase di sviluppo e adulte, compromettendo la funzione immunitaria, riducendo la durata della vita e indebolendo la resilienza della colonia. In assenza di un controllo efficace, le colonie infestate spesso collassano nel giro di pochi mesi.

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Fonte: assaspa.org




Tra falchi e tartarughe, cresce il traffico illegale di animali selvatici

Pipistrelli e pesci tropicali

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Fonte: AGI




Uno studio One Health getta nuova luce sul complesso intreccio fra pipistrelli, allevamenti suini e virus

Studio dell’IZSVe individua come almeno otto specie di pipistrelli (chirotteri) utilizzino le aree degli allevamenti di suini dell’Italia settentrionale. Sebbene questa interazione possa presentare effetti positivi per entrambe le specie, l’assenza di barriere fisiche e le lacune nella biosicurezza all’interno delle aziende suinicole possono comportare un rischio residuo per la trasmissione inter-specifica di virus.

Legnaro (Padova) –  I pipistrelli, o chirotteri, sono riconosciuti come serbatoi naturali di diversi coronavirus (CoV), da alcuni dei quali potrebbero essersi evolute specie virali pericolose per l’uomo e per gli animali domestici, come il SARS-CoV-2 o il virus della diarrea epidemica nel suino. Tuttavia, le dinamiche e i meccanismi che permettono il passaggio di questi virus agli animali da allevamento o all’uomo rimangono per lo più sconosciute.

I ricercatori del Laboratorio di zoonosi virali emergenti dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, per valutare i fattori di rischio per la trasmissione di virus dai pipistrelli ai suini, usando come caso studio i coronavirus in alcuni allevamenti dell’Italia settentrionale. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ConVErgence e ha visto la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, Università di Padova, Università di Bari, Università del Sussex (UK) e Coop. STERNA di Forlì.

“L’interfaccia fra animali selvatici, animali domestici ed esseri umani, rappresenta un confine molto labile dove possono emergere malattie infettive a carattere epidemico”, spiega Stefania Leopardi, veterinaria dirigente e supervisore della ricerca. “Sappiamo che gli allevamenti suini rappresentano possibili ‘hotspot’ per la diffusione e la comparsa di varianti ricombinanti potenzialmente pericolose per gli animali o l’uomo. Per questo motivo, l’identificazione di nuovi coronavirus è fondamentale per valutare il loro adattamento nel suino e nell’uomo, ma è altrettanto importante cercare di comprendere i fattori di rischio che possono favorire i fenomeni di spillover nelle specie animali.”

Indagini ecologiche, modellistica ambientale, analisi virologiche

Per la ricerca è stato utilizzato un approccio multidisciplinare ispirato al paradigma ‘One Health’, in cui sono state combinate indagini ecologiche, di modellistica ambientale e di virologia molecolare. Una prima fase ha riguardato il monitoraggio bioacustico in 14 allevamenti suinicoli del Triveneto, mediante cui sono state identificate otto specie di pipistrelli negli allevamenti, con P. kuhlii, P. pipistrellus e H. savii come le più diffuse e attive.

L’analisi del paesaggio e delle strutture aziendali ha permesso di identificare i fattori che influenzano maggiormente l’attività dei pipistrelli. È emerso che gli allevamenti con strutture in grado di attrarre insetti registrano un’intensa attività dei pipistrelli, mentre l’habitat circostante incide in misura minore sulla ricchezza delle specie.

Parallelamente, le indagini virologiche hanno permesso di identificare tre nuove specie di CoV, rilevati in P. kuhlii e H. savii, di cui è stato possibile ottenere il sequenziamento completo del genoma. Fondamentale per questa fase l’analisi combinata di campioni raccolti su tre colonie di P. kuhli e di campioni di archivio provenienti da attività di sorveglianza della rabbia in popolazioni di animali selvatici, condotte negli anni dal Laboratorio.

Fra le specie di pipistrello più comuni, è stata osservata una circolazione attiva di CoV in P. kuhlii, anche in colonie situate all’interno delle aziende suinicole, con l’identificazione di due specie distinte di CoV in questi pipistrelli. I CoV sono stati rilevati durante tutta la stagione di attività dei pipistrelli, con picchi a maggio e ad agosto, e in alcuni casi sembrano essere condivisi tra specie diverse di pipistrelli (P. kuhlii e H. savii), aumentando ulteriormente il rischio di ricombinazione genetica.

Le analisi filogenetiche mostrano inoltre che i suini potrebbero essere esposti ad almeno otto specie distinte di CoV, dal momento che i CoV sono associati in modo specifico al proprio ospite.

Da una parte lo studio mette in evidenza come le aziende suinicole possono rappresentare delle oasi per la conservazione dei pipistrelli in ambienti rurali di agricoltura intensiva, dove la monotonia degli elementi ambientali sta inaridendo la biodiversità. In questi ambienti, i pipistrelli possono svolgere un servizio ecosistemico di controllo degli insetti dannosi, anche contribuendo alla riduzione dei pesticidi. Tuttavia, la circolazione dei pipistrelli è anche associata al rischio potenziale di esposizione ai virus che essi veicolano.

Un aspetto fondamentale rilevato dallo studio è la frequente assenza di barriere fisiche negli allevamenti, allestite per impedire il contatto tra i pipistrelli e i recinti dei suini, e un’applicazione disomogenea delle pratiche di biosicurezza. Rafforzare queste misure potrebbe mitigare il rischio di esposizione ai diversi CoV, e più in generale ai virus associati alla fauna selvatica, migliorando la convivenza tra l’uomo e gli animali domestici e selvatici.

 

Fonte: IZS Venezie