Anticorpi anti-alfa neurotossina, una nuova arma contro il veleno dei serpenti

Ogni anno su scala globale vengono segnalate ferite inferte dal morso di serpenti in un numero variabile fra 1.800.000 e 2.700.000 individui, cui farebbero altresì seguito fra gli 80.000 e i 138.000 decessi, registrati soprattutto in Asia meridionale, nel Sud-Est asiatico, nell’Africa sub-sahariana ed in America Latina (1).

Sulla scia di tali premesse, appaiono di notevole interesse la messa a punto e la successiva descrizione di un anticorpo monoclonale in grado di neutralizzare le alfa-neurotossine a lunga catena presenti nel veleno degli Elapidi (2), una Famiglia di serpenti che annovera al proprio interno alcune specie di Ofidi particolarmente velenose e velenifere, quali ad esempio il cobra reale. Le alfa-neurotossine sono responsabili, infatti, di una serie di gravi effetti secondari al morso di questi serpenti, quali la paralisi flaccida diffusa, spesso culminante nell’exitus di coloro che ne risultano colpiti, vista e considerata la notevole affinita’ di legame di tali tossine nei confronti dei recettori nicotinici situati a livello della regione post-sinaptica della giunzione/placca neuromuscolare (2).

A dispetto del notevole quanto giustificato clamore (anche mediatico) suscitato da questo studio, andrebbe tuttavia sottolineato che lo stesso e’ stato condotto su modelli sperimentali murini, la cui suscettibilità nei riguardi delle alfa-neurotossine – così come degli altri numerosi fattori presenti, a mo’ di cocktail, nel veleno dei serpenti – potrebbe essere ben diversa da quella propria della nostra specie nonché di molte altre specie animali domestiche e selvatiche, come peraltro riferiamo in una lettera all’Editore appena pubblicata sul prestigioso BMJ (3).

Ulteriori elementi di critica risiederebbero poi nell’assenza di alcuni importanti elementi, connessi alla protezione conferita dall’anticorpo monoclonale oggetto d’indagine, visto e considerato che i topi trattati con lo stesso sarebbero comunque deceduti, pur vivendo più a lungo dei propri consimili cui era stata somministrata la sola alfa-neurotossina (2). A tal proposito, comunque, gli Autori riconoscono la possibilità che altre componenti del veleno dei serpenti, non neutralizzate dall’anticorpo monoclonale anti-alfa- neurotossina, potrebbero averne verosimilmente provocato la morte, seppure in tempi ritardati (ma non specificati) rispetto a quelli dei soggetti non trattati con l’anticorpo in questione (2).

Un altro importante elemento di perplessità, richiamato nella nostra lettera all’Editore (3), riguarda il fatto che gli Autori non hanno preso in considerazione, nel loro pur rilevante studio, le numerose specie di serpenti velenosi/veleniferi del Continente Americano (Nord-America, America Centrale e Sudamerica), ove ogni anno si registra un elevato numero di decessi a seguito dei morsi inferti dai medesimi (1).

Ciononostante, gli Autori dello studio oggetto di questa lettera meritano senza dubbio il nostro più convinto e meritato plauso per la rilevanza del lavoro svolto.

Bibliografia 

1) Ralph, R., Faiz, M.A., Sharma, S.K., Ribeiro, I., Chappuis, F. (2022). Managing snakebite. BMJ 376: e057926. DOI: 10.1136/bmj-2020-057926.
2) Khalek, I.S., et al. (2024). Synthetic development of a broadly neutralizing antibody against snake venom long-chain alpha-neurotoxins. Science Transl. Med. 16 (735). DOI: https://doi.org/10.1126/scitranslmed.adk1867.
3) Di Guardo, G., Frye, F.L. (2024). Anti-snake alfa-neurotoxins antibody: Issues of concern (Rapid Response/Letter to the Editor). BMJ
DOI:https://www.bmj.com/content/376/bmj-2020-057926/rapid-responses.

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 Fredric L. Frye, DVM, MSc,

Fellow Royal Society of Medicine, Fellow Federation of Biologists, (Hon.), Dipl. ECVP, (Hon.), Dipl. Am. Acad. Vet. Pathol, Former Professor of Comparative Medicine and Pathobiology, School of Veterinary Medicine, University of California, Davis, California 95616, USA

 




L’orso polare, un’iconica creatura sempre più minacciata per mano dell’uomo!

Alla principale minaccia rappresentata dal riscaldamento globale, i cui effetti appaiono oltremodo amplificati ai poli terrestri, risultano particolarmente esposti gli orsi polari (Ursus maritimus) (1), vista e considerata la crescente difficoltà sperimentata dagli stessi nel procacciarsi le proprie prede, a motivo del progressivo scioglimento dei ghiacciai. A tal proposito, un recente lavoro descrive una serie di rilevanti adattamenti ecologici, comportamentali e dietetico-nutrizionali posti in essere dalla specie in esame, al precipuo fine di sopperire alla crescente difficoltà di cacciare gli animali acquatici tradizionalmente costituenti la sua principale fonte alimentare (1).

Alla ricerca di substrati nutritivi alternativi rispetto a questi ultimi, sempre piu’ spesso condotta in condizioni precarie ed in ambito terrestre dagli orsi polari, corrisponderebbe un progressivo scadimento delle condizioni generali e dello status nutrizionale della specie. Cio’ fa il paio, inevitabilmente, con uno stress perdurante, sulle cui deleterie ricadute sanitarie ho ritenuto doveroso richiamare l’attenzione della Comunità Scientifica attraverso un “Commentary” recentemente apparso sul prestigioso “Nature Microbiology Community Forum” (2). Come risulta ben noto, infatti, ad una condizione di stress cronico si associa un’accresciuta produzione di cortisolo, con conseguente soppressione della risposta immunitaria dell’ospite (3). E, se da un lato appare oltremodo plausibile che le sempre piu’ malnutrite popolazioni di orsi polari stiano sperimentando una condizione di stress cronico persistente, andrebbe parimenti sottolineato che il contestuale incremento della cortisolemia potrebbe accrescerne, dall’altro lato, la suscettibilità nei confronti di un’ampia gamma di agenti patogeni, con tutte le nefaste conseguenze che ciò comporterebbe sul loro gia’ precario stato di salute e di conservazione.

Degno di particolare menzione risulta, in un siffatto contesto, Toxoplasma gondii, un agente protozoario dotato di comprovata capacità zoonosica ed in grado d’infettare numerose specie di mammiferi acquatici, ivi compresi gli orsi polari. Al riguardo, elevati tassi di sieroprevalenza verso T. gondii erano già stati evidenziati in uno studio condotto sulla popolazione di orsi polari residente alle Isole Svalbard (Norvegia), ove gli esemplari di sesso maschile mostravano livelli di anticorpi sierici ben più elevati che in quelli di sesso femminile e doppi, all’incirca, rispetto a quelli rinvenuti in una precedente indagine svolta nella medesima regione geografica (4).

In aggiunta a quanto sopra, la posizione di “predatori di vertice” notoriamente occupata dagli orsi polari all’interno delle catene trofiche in ambito marino li renderebbe capaci di bioaccumulare e di biomagnificare, a livello dei propri distretti corporei, un gran numero di contaminanti ambientali persistenti ad azione immunotossica, come ad esempio il metil-mercurio (metil-Hg) (5).

Ne deriva pertanto che l’immunosoppressione associata alla risposta da stress cronico conseguente al perdurante stato di malnutrizione, congiuntamente all’elevato carico di xenobiotici immunotossici progressivamente accumulati e biomagnificati in ambito tissutale, non potrà che rendere gli orsi polari maggiormente suscettibili nei confronti di un crescente numero di agenti microbici, con tutti i catastrofici effetti che ciò produrrà sul già precario stato di salute e di conservazione della specie in questione.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto l’esigenza che la complessa ed articolata gestione sanitaria della sempre più minacciata popolazione globale di orsi polari necessiti di un approccio integrato e multidisciplinare, diffusamente permeato ed ispirato al principio/concetto della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Bibliografia 

1) Pagano, A.M., Rode, K.D., Lunn, N.J., et al. Polar bear energetic and behavioral strategies on land with implications for surviving the ice-free period. Nat Commun 15, 947 (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-023-44682-1.
2) Di Guardo, G. Enhanced infection susceptibility as a consequence of chronic starvation in polar bears. Nature Community Microbiology Forum, February 21, 2024.
https://communities.springernature.com/posts/enhanced-infection-susceptibility-as-a-consequence-of-chronic-starvation-in-polar-bears
3) O’Leary, A. Stress, emotion, and human immune function. Psychol. Bull.108, 363-382 (1990). doi: 10.1037/0033-2909.108.3.363.
4) Jensen, S.K., Aars, J., Lydersen, C., et al. The prevalence of Toxoplasma gondii in polar bears and their marine mammal prey: evidence for a marine transmission pathway?. Polar. Biol 33, 599–606 (2010). https://doi.org/10.1007/s00300-009-0735-x
5) St Louis, V.L., Derocher, A.E., Stirling, I., et al. Differences in mercury bioaccumulation between polar bears (Ursus maritimus) from the Canadian high- and sub-Arctic. Environ. Sci. Technol. 45, 922-928 (2011). doi: 10.1021/es2000672.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

Sullo stesso tema è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical Journal (BMJ) una “Letter to the Editor” del Prof. Di Guardo con riferimento all’articolo “Alaskapox: First human death from zoonotic virus is announced

 




Rapporto sulle specie migratorie: lo stato scioccante della fauna selvatica

Alla 14esima Conferenza della parti della Convention on the Conservation of Migratory Species of Wild Animals (CMS COP14) in corso a Samarcanda, in Uzbekistan, è stato presentato il primo  State of the World’s Migratory Species Report, la valutazione  più completa completa sulle specie migratorie mai realizzata e che fornisce una panoramica globale dello stato di conservazione e delle tendenze della popolazione degli animali migratori, insieme alle informazioni più recenti sulle principali minacce e sulle azioni efficaci per salvarli.

Pertroppo quella che emerge dal rapporto non è una situazione confortante: «Mentre alcune specie migratorie elencate nel CMS stanno migliorando, quasi la metà (44%) mostrano un calo della popolazione. Più di una su cinque (22%) delle specie elencate nel CMS sono a rischio di estinzione. Quasi tutti (97%) i pesci elencati nel CMS sono a rischio di estinzione. Il rischio di estinzione sta crescendo per le specie migratrici a livello globale, comprese quelle non elencate nel CMS. La metà (51%) delle aree chiave per la biodiversità identificate come importanti per gli animali migratori elencati nel CMS non hanno uno status protetto, e il 58% dei siti monitorati riconosciuti come importanti per le specie elencate nel CMS stanno registrando livelli insostenibili di fenomeni causati dalla pressione antropica. Le due maggiori minacce sia per le specie elencate nel CMS che per tutte le specie migratorie sono lo sfruttamento eccessivo e la perdita di habitat dovuta all’attività umana. 3 specie su 4 elencate nell’elenco CMS sono colpite dalla perdita, dal degrado e dalla frammentazione dell’habitat, e sette specie su dieci dall’elenco CMS sono colpite dallo sfruttamento eccessivo (incluso il prelievo intenzionale e la cattura accidentale). Anche i cambiamenti climatici, l’inquinamento e le specie invasive stanno avendo profondi impatti sulle specie migratorie. A livello globale, 399 specie migratorie minacciate o quasi a rischio di estinzione non sono attualmente elencate nel CMS».

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Fonte: greenreport.it




Coesistenza e gestione dei conflitti tra uomo e fauna selvatica

Da sempre la prossimità tra popolazioni umane e animali selvatici ha generato conflitti. Recentemente, tuttavia, questo fenomeno ha raggiunto una diffusione preoccupante, tale da costituire un fattore critico per la conservazione delle specie coinvolte e generare effetti negativi per la sussistenza delle comunità locali. L’IUCN definisce tali situazioni come “conflitti che emergono quando la presenza o il comportamento della fauna selvatica rappresenta una minaccia reale o percepita, diretta e ricorrente agli interessi o ai bisogni umani, portando a disaccordi tra gruppi di persone e impatti negativi sulle persone e/o sulla fauna selvatica”. Questi conflitti tra uomo e fauna selvatica sono complessi, dinamici e non si prestano ad analisi e soluzioni semplici. Per poterli gestire in modo efficace e, soprattutto, in un’ottica di coesistenza, è necessario un approccio che consideri sia le necessità della fauna che quelle degli esseri umani.

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Fonte: ISPRA




Ancora un nuotatore alieno in Adriatico: il granchio crocifisso Charybdis feriata

Charybdis feriata (Credits: Fabio Grati, Cnr-Irbim)Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Ancona (Cnr-Irbim) annuncia il ritrovamento di un esemplare di granchio crocifisso Charybdis feriata nel mare Adriatico. Il ritrovamento, avvenuto al largo delle coste di Senigallia, è un evento significativo, in quanto questa specie è originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’Oceano Indiano e Pacifico.

A distanza di poco più di un mese dalla segnalazione di una seconda specie di granchio nuotatore in Adriatico (Portunus segnis), viene oggi comunicata la presenza di una terza specie di granchio nuotatore alieno. Il granchio crocifisso è stato segnalato per la prima volta in Mar Mediterraneo nel 2004 al largo di Barcellona, ed esistono ad oggi pochissimi avvistamenti di questa specie nel Mare Nostrum, compreso un recente ritrovamento nel golfo di Genova nel 2022 ed a Livorno nel 2015, sempre vicino a grandi porti. Il granchio crocifisso è un predatore di grandi dimensioni, i maschi di questa specie possono arrivare a pesare 1 kg e la specie è ampiamente commercializzata nelle aree di origine. Secondo i ricercatori, la presenza di questa specie in Adriatico è da attribuirsi allo stesso vettore che ha introdotto il più noto granchio blu Callinectes sapidus: ovvero il trasporto navale.

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Fonte: Cnr




Influenza aviaria: le autorità sanitarie europee raccomandano maggiore protezione delle aziende avicole dagli uccelli selvatici

 Mentre la situazione nel pollame si è attenuata durante l’estate, il virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) ha continuato a colpire gli uccelli selvatici, in particolare gli uccelli acquatici marini in Europa, per lo più lungo le coste. Con l’inizio della stagione migratoria autunnale, si prevede un aumento dei casi anche in altre specie selvatiche come gli anatidi e le autorità sanitarie ritengono prioritario aumentare la protezione del pollame e di altri animali d’allevamento dagli uccelli selvatici; la biosicurezza dovrebbe essere rafforzata anche negli allevamenti di animali da pelliccia.

Secondo l’ultimo Rapporto sull’influenza aviaria dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e del Laboratorio di referenza europeo (EURL) presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), nel periodo tra il 24 giugno e il 1° settembre 2023 sono stati segnalati 507 focolai di HPAI nei volatili domestici (25) e selvatici (482) in 21 paesi europei.

I carnivori selvatici e domestici continuano ad essere le specie di mammiferi più colpite, con la Finlandia che ha registrato 26 focolai in allevamenti di visoni americani, volpi rosse e artiche, e cane procione. Le autorità locali ritengono che la fonte più probabile di introduzione virale sia da attribuire al contatto con i gabbiani selvatici, ma la trasmissione tra aziende agricole non può essere completamente esclusa. La trasmissione all’interno delle aziende si è verificata attraverso il contatto con alcuni animali che non presentavano segni clinici di infezione.

Nel report si raccomanda anche di evitare l’esposizione dei cani e dei gatti domestici, e in generale degli animali carnivori, ad animali morti o malati (mammiferi e uccelli), e di evitare di somministrare a gatti, cani e altri carnivori domestici frattaglie e carne cruda provenienti da allevamenti non controllati situati in zone in cui è segnalata la circolazione del virus HPAI.

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Fonte: IZS Venezie




Uccelli acquatici selvatici e influenza di tipo A

Ricercatori dell’Università di Bologna e dell’ISPRA collaborano alla redazione di un editoriale che commenta i risultati di recenti ricerche sull’ecologia e sui meccanismi di trasmissione interspecie dei virus influenzali di tipo A.

Tra i virus influenzali attualmente noti, quelli di tipo A circolano sia nell’uomo che in altre specie animali. Grazie alla plasticità del genoma i virus influenzali di tipo A possono acquisire rapidamente mutazioni alla base della trasmissione interspecie (spillover). In tale ambito sono gli uccelli acquatici selvatici a occupare un ruolo centrale in quanto serbatoio naturale del pool genetico virale.

 In particolare, l’influenza A causa nell’uomo epidemie stagionali ricorrenti e periodiche pandemie, come la cosiddetta “influenza suina” legata all’emergenza nel 2009 di un virus riassortante geni di origine animale e umana.
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Fonte: ISPRA



I cinghiali ungheresi potrebbero salvare i maiali europei dalla peste suina africana

cinghialiEsiste un vaccino già testato con successo sui cinghiali in cattività

Secondo un articolo pubblicato da Horizon: The EU Research & Innovation Magazine, «Il destino di milioni di maiali in Europa potrebbe essere deciso il prossimo inverno in una foresta ungherese. Lì, i ricercatori dell’Ue intendono testare un vaccino contro la peste suina africana sui cinghiali».

La peste suina africana (PSA), è una malattia virale che minaccia i suini selvatici e domestici in tutta Europa. Senza vaccini o cure per la PSA, le epidemie di solito uccidono i suini infetti e spesso provocano abbattimenti di interi allevamenti di maiali per impedire che la malattia si diffonda altrove. I ricercatori stanno individuando dei boschi ungheresi nei quali spargere bocconi-esca arricchiti con un vaccino sperimentale contro la PSA, con l’obiettivo di immunizzare circa 300 cinghiali.

José Manuel Sánchez-Vizcaíno, che insegna salute animale all’Universidad Complutense de Madrid, spiega che «In questo momento, il problema più grande in Europa sono i cinghiali infetti. Se riduciamo la malattia nei cinghiali, probabilmente non avremo bisogno di vaccinare i maiali domestici». Sánchez-Vizcaíno guida il progetto di ricerca VACDIVA che ha prodotto il vaccino sperimentale contro la PSA che rappresenta circa il 90% del costo totale del progetto, che verrà prolungato fino a luglio 2024 rispetto alla data finale originariamente prevista per questo mese.

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Fonte: greenreport.it




I cervi potrebbero rinfocolare la pandemia di COVID-19

Una specie diffusa in Nord America si è rivelata un importante serbatoio di SARS-CoV-2 e potrebbe anche agire come un acceleratore alla sua evoluzione. Monitorare questi animali, come anche altre specie che ospitano il coronavirus, potrebbe però rivelarsi un vantaggio per tenere sotto controllo la diffusione del patogeno

Dalla specie scelta da Walt Disney per rappresentare il piccolo Bambi vengono minacce e opportunità per la futura gestione della pandemia. Nei cervi dalla coda bianca che popolano il nord degli Stati Uniti, oltre che la fantasia dei bambini di tutto il mondo, infatti, il virus ormai circola in maniera estesa senza provocare particolari danni, ma mutando molto più rapidamente di quanto faccia tra gli umani. Teoricamente, quindi, ciò potrebbe far tornare un giorno a noi un virus tanto irriconoscibile da riaccendere il fuoco della pandemia. Ma monitorarne l’evoluzione negli animali potrebbe anche fornirci un certo vantaggio sulla sua inarrestabile corsa. Sempre che se ne voglia approfittare.
Fonte: lescienze.it



Il granchio blu, un’altra creatura aliena dei nostri mari

Nel solo triennio 2017-2019 sono state ben 70 le creature aliene censite nel Mediterraneo, fra le quali si segnalano in particolare Callinectes sapidus e Portunus segnis, due specie di granchio blu che stanno diffusamente colonizzando il Mare Adriatico. Originarie rispettivamente dalle coste atlantiche del Nord-America e da quelle africane dell’Oceano Indiano, la loro principale fonte di nutrimento e’ costituita da mitili e vongole, di cui sono pressoché insaziabili predatori.

La presenza di una o più specie aliene, oltre a caratterizzarsi per l’impatto esercitato sulle catene trofiche di una determinata area geografica, può altresi’ associarsi all’ingresso di “nuovi” agenti patogeni potenzialmente costituenti un’ulteriore minaccia per il già precario stato di salute e di conservazione degli ecosistemi marini ed oceanici.

Ne e’ un eloquente esempio “Wenzhou shark flavivirus“, un RNA-virus di recente identificazione fra gli squali dell’Oceano Pacifico, ai quali verrebbe trasmesso dai granchi blu della specie Portunus trituberculatus, che potrebbero a loro volta acquisire l’infezione dagli squali stessi.

Ove una siffatta evenienza venisse confermata anche fra gli squali popolanti il Mare Adriatico, stante la progressiva espansione del granchio blu in quest’area geografica, ciò potrebbe minare ulteriormente il già precario stato di salute e di conservazione di alcune specie di squalo ivi residenti, considerate a rischio di estinzione.

Ricerca, ricerca e ancora ricerca, sostenuta (beninteso!) da adeguate risorse economico-finanziarie: queste le parole-chiave necessarie per mettere la Comunità Scientifica in grado di studiare al meglio le complesse relazioni virus-ospite caratterizzanti gli ecosistemi marini, sempre e comunque nel rispetto dell’intramontabile principio/concetto della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo